Un “Ring” a Palermo
18 - 01 -
2013Giuseppe Pennisi
Il 22
gennaio a Palermo si alza il sipario sull’inizio di un progetto di rilievo
internazionale. Per la prima volta nella sua storia, infatti, il Teatro Massimo
produrrà un nuovo allestimento del “Des Ring des Nibelungen”, indiscusso
capolavoro wagneriano, programmandolo in un’unica stagione.
Il “Ring”
verrà allestito con la regia di Graham Vick e con le scene e i costumi di
Richard Hudson: uno spettacolo appositamente ispirato e concepito per gli spazi
del grande teatro palermitano che saranno coinvolti interamente
dall’allestimento. Sul podio dell’Orchestra del Teatro Massimo ci sarà una fra
le più interessanti bacchette di oggi, il finlandese Pietari Inkinen già noto
al pubblico palermitano per alcuni appuntamenti sinfonici di rilievo. Gli
interpreti vocali saranno naturalmente celebri specialisti di questo
repertorio; per “Das Rheingold” ci saranno fra gli altri Franz Hawlata (Wotan),
Sergei Leiferkus (Alberich), Robert Brubaker (Mime).
Questo nuovo
“Ring” è interamente prodotto dal Teatro Massimo e messo in calendario ad
apertura e chiusura della Stagione 2013: “Das Rheingold” (22-31 gennaio), “Die
Walküre” (21 febbraio-3 marzo), “Siegfried” (19-30 ottobre), “Götterdämmerung”
(23 novembre-4 dicembre). Il regista ed il maestro concertatore non hanno fatto
trapelare alcuna notizie (né alcuna immagine) del loro allestimento. In questa
nota riassumo alcune considerazione su come è stato il Ring in questi ultimi
anni, stralciando parti di un saggio più ampio che apparirà in marzo nel
trimestrale la Nuova Antologia.
Il “Ring”
può essere interpretato in vari modi: una favola moralistica sulla maledizione
associata al denaro visto come “sterco del demonio”; un rilancio della
mitologia nordica per contrastare quella latina e slava che dominavano le arti
nel romanticismo tedesco; una cosmogonia della storia universale (dalla nascita
alla fine del mondo), una critica dell’industrializzazione trionfante e del
capitalismo. E via discorrendo. Queste varie letture hanno spesso dimenticato
che Wagner era un luterano credente e praticante, pur se interessato al
buddismo, specialmente negli ultimi anni della vita. In linea con altre sue
opere, Wagner mette nel musikdrama anche un forte spirito cristiano: il
“crepuscolo” per l’appunto dei vecchi Dei di fronte alla “redenzione tramite
l’amore”, il tema che appare brevemente nel terzo atto della “prima giornata” e
domina il finale della “terza” del Ring, e, quindi, della tetralogia. Con i
“vecchi Dei” finisce anche il mondo oscuro e poco trasparente di nani, giganti,
principi (se si vuole) incestuosi, re corrotti e via discorrendo. Le fiamme che
distruggono il Walhala, il Palazzo dei “vecchi Dei” costruito con l’imbroglio
(ove non con una vera e propria frode) vengono spente dalle acque del Reno che
straripa, distruggendo la Reggia di una famiglia reale corrotta. E portando,
con la modernizzazione, un mondo migliore.
Dal 1876 al
1940 circa, le realizzazioni sceniche erano tra il favolistico ed il
realistico; lo sono rimaste ancora in edizioni viste nell’ultimo quarto di
secolo a Bologna, Catania, Bari, Torino, Venezia ed alla stessa Scala, nonché
in quelle (altamente tecnologiche) di Firenze-Valencia, di New York (sia quella
di Günter Schneider – Siemssen che ha dominato il Metropolitan Opera di New
York per trent’anni sia quella di Robert Lepage per la quale è stato
interamente rifatto il palcoscenico del teatro) e di Seattle (dove ogni estate
vengono presentati uno o più cicli dell’intero Ring).
Fu nel
secondo dopoguerra che si affermarono altre interpretazioni: da quelle di
Wieland Wagner (basate sui principi di Adolphe Appia che già negli Anni Venti
aveva teorizzato e sperimentato il “teatro totale” con scene solo di giochi di luci
e costumi atemporali) di cui vidi un intero Ring (spalmato su una settimana) a
Roma nel 1961. Per certi aspetti si riallaccia a questo filone la mirabile
produzione di Aix-en-Provence e Salisburgo (con la regia di Stéphane
Braunschweig e Sir Simon Rattle alla guida dei Berliner Philarmoniker nella
buca d’orchestra: una lettura astratta ma umanissima con una scalinata, un
occhio in cima alla scale (del vecchio Dio? o di quello nuovo? L’interrogativo
resta senza risposta) e scarne eleganti proiezioni e costumi in gran misura
attuali. In breve, l’umanità alla ricerca del denaro e del potere deve lasciare
i vecchi miti (ed i vecchi Dei) per costruire il nuovo. Edizione mirabile di
cui non esiste né un DVD né un Cd.
Una terza
lettura è storico-politica: la lanciarono Patrice Chéreau e Pierre Boulez nel
Ring del centenario della prima rappresentazione integrale a Bayreuth nel 1976
-1980 (ne esiste un ottimo DvD), la proposero a Firenze nel 1978-81 (che era
stata respinta dalla Scala) Ronconi, Pizzi e Mehta nel 1978-81 (non ne resta
che un album fotografico). Ispirò Ruth Berghaus a Berlino negli Anni Ottanta.
Molto interessante la versione storico-politica di Robert Carsen ( nata a
Colonia ma vista – in effetti le tre ‘giornate’ ma mai il ‘prologo): l’azione è
situata in una Germania proto-nazista (quasi ispirata a La Caduta degli Dei di
Luchino Visconti) e, quindi, il messaggio è trasparentissimo. Ci sono anche
versioni ironiche (quale quella di Vick a Lisbona e di Kuhn al Festival del
Tirolo – dove è di nuovo in cartellone per il 2014).
Questo i
filoni principali. La mia preferenza è per quello che da Appia arriva a
Braunschweig. Ho molto apprezzato le versioni “politiche” di Chéreau e
Ronconi-Pizzi. Non conosco quella della Berghaus (allora non si viaggiava facilmente
a Berlino specialmente se si era residenti degli Stati Uniti).
Alla Scala
ed a Berlino la regia e l’allestimento scenico sono affidati a Guy Cassiers ed
alla sua équipe teatrale Tonnelhuis. In altra sede, sia italiana sia
internazionale, ho sottolineato il mio apprezzamento per gli aspetti musicali
di una produzione (di cui ho visto ed ascoltato tre delle quattro puntate) e le
mie perplessità, ove non dissenso, nei confronti della drammaturgia di Cassiers
ed associati, che, nonostante l’ottima recitazione dei 35 cantanti richiesti,
mi è parsa priva di un concetto unitario, affollata di elementi inutili (mimi,
ballerini) e con una scenografia fondamentalmente triste (dominano i grigi ed i
viola) e priva di mordente. L’équipe di Tonnelhuis ha avvertito l’esigenza di
scrivere un saggio di cinquanta (50) pagine per chiarire (al pubblico e forse
anche a loro stessi) il significato della drammaturgia; se si ha tale esigenza,
sorge il dubbio che qualcosa non quadri. In estrema sintesi, per Cassiers oggi
le quattro opere vanno lette come una denuncia della globalizzazione
finanziaria ed un appello per limitarla con Tobin Tax e difesa dei prodotti
nazionali. In questo quadro Siegfried è un punk-beast (pensavo che fossero
passati di moda). Occorre scegliere una strada e perseguirla con rigore: cosa
che non fa Cassiers. Quindi, il suo Ring no gobal resta di ardua comprensione,
anche dopo la lettura di 50 pagine di spiegazione. Una versione riduttiva di
uno dei grandi capolavori della cultura occidentale.
Molto più
complesse le letture musicali. Dal vivo ho avuto modo di ascoltare due volte
quelle di von Matacic e di Mehta (ambedue la seconda a circa trent’anni di
distanza dalla prima) e quella di Sinopoli (la seconda, in cui a ragione della
morte del direttore, con un differente concertatore per la quarta opera, a
circa quindici anni di distanza dalla prima), nonché quella di Rattle, di Kuhn
e di Barenboim . Molte altre ne ho ascoltate registrate od in dirette
cinematografiche ad alta definizione. Impossibile, nell’ambito di un articolo,
passare in rassegna queste ed altre esecuzioni dando conto anche dei numerosi
interpreti (spesso, in uno stesso Ring, alcuni ruoli cambiano interprete –
segnatamente quelli di Siegfried e Brünnhilde – tra la terza e la quarta opera).
In breve le
esecuzioni di von Matacic e di Sinopoli, pur molto differenti tra di loro, non
hanno mostrato sostanziali differenze nel corso degli anni: meticolosa ed
attenta la direzione musicale di von Matacic, fortemente filosofica (quasi
astratta) quella di Sinopoli. Profonde invece le differenze nella direzione di
Mehta, ambedue le volte con i complessi del Maggio Musicale Fiorentino, a
cavallo tra fine degli Anni Settanta e l’inizio degli Anni Ottanta e tra il
2007 ed il 2009. Altamente drammatica e fortemente concitata la prima,
caratterizzata da lirismo trasparente e lirismo struggente la seconda. Sulla
differenza ha forse influito la contiguità del Ring fiorentino degli Anni
Settanta-Ottanta con quello proposto a Bayreuth da Chéreau e Boulez a Bayreuth
nel 1976-80, una lettura (si è accennato) fortemente politica a cui la
bacchetta di Boulez sveltiva i tempi quasi finendo le quattro opere con una
rapida stretta proprio sul tema in re bemolle maggiore che, ascoltato
brevemente nel secondo atto della seconda giornata, conclude il lavoro con
l’annuncio dell’arrivo di un mondo migliore.
Posso
raffrontare il Barenboim dal vivo nelle prime tre opere con quello inciso in
occasione dell’esecuzione della tetralogia a Bayreuth nel 1991; i tempi si sono
dilatati, la lettura si è fatta più solenne.
Negli ultimi
anni comunque, a mio avviso, l’interpretazione migliore ascoltata dal vivo
(sotto il profilo che più interessa in questo articolo) è quella di Stéphane
Braunschweig e Sir Simon Rattle per i Festival di Aix-en-Provence e Salisburgo.
Nonostante spalmata su quattro anni e con gli stessi personaggi a volta
affidati a interpreti differenti al passare da un’opera all’altra (ed anche da
Aix a Salisburgo per la medesima opera), l’intesa perfetta tra il regista e la
direzione musicale ha tracciato un nuovo percorso: con elementi scenici
essenziali, una grande orchestra sinfonica e Sir Willard White in redingote nel
ruolo di Wotan (nonché interpreti di altissimo calibro in tutte le altre parti)
mostra il Ring come cammino dell’umanità verso la modernizzazione in cui lo
stesso accordo il re bemolle maggiore viene eseguito non come tema della
“redenzione tramite l’amore” delle vecchie guide di Max Chop ma come il senso
del cammino verso un progresso ispirato a sempre maggiore tolleranza e
trasparenza.
Di grande
livello anche della di Kuhn che incorpora le innovazione di von Karajan (che si
possono ascoltare nella registrazione del 1966-70 ancora in catalogo) ma ne
smussa l’impianto e epico e la molteplicità di piani sonori (e di sfumature) in
orchestra (specialmente nelle descrizioni della natura). Kuhn – si badi bene –
esegue il Ring in quattro giorni e lo ha anche offerto in poco più di 24 ore,
iniziando il prologo la mattina alle 10, la prima “giornata” dopo pranzo, la “seconda”
dopo cena e la “terza” alle 8 della mattina seguente dopo sei ore di pausa per
il riposo di orchestra, interpreti e spettatori.
Per chi può
ascoltare il Ring unicamente in Cd, ancora oggi la versione da raccomandare è
quella di Solti per la Decca registrata nel 1958-65, un vero prodigio di
stereofonia, di cast, di orchestra ad oltre cinquant’anni di distanza mai
eguagliato e per questo ancora in catalogo. E’ stata senza dubbio studiata da
Sir Simon Rattle per il taglio umano e per il senso del progresso che ha
l’interpretazione. Per chi infine cerca una versione “storica” con un forte
senso epico, attenzione a scegliere bene tra i due Ring diretti di Wilhelm
Furtwängler, nel 1950 e nel 1953. Il primo, chiamato La Scala Ring è una
registrazione dal vivo in teatro con acustica che lascia a desiderare; il
secondo, chiamato RaiRing registrato nell’auditorium della Rai al Foro Italico
a Roma, rappresenta il meglio che la musica registrata potesse esprimere a
livello mondiale grazie a tecnici della Rai e dell’ottima orchestra che la Rai
aveva a Roma. La lettura, però, resta convenzionale – tra il mitologico e
l’epico.
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