Perché gli sgravi fiscali farebbero male all’editoria in crisi
08 - 01 - 2013Giuseppe PennisiLo è una politica di sgravi tributari, come viene proposto, anche in Italia, man mano che si avvicina alle elezioni? Sul trimestrale Economica (Vol. 80, N0 317, 2013 pp.131-148, Hans Jarle Kind e Guttorm Schjelderup, ambedue della Facoltà Economia dell’Università della Norvegia e del CESifo e Frank Stahler dell’Università di Tubinga) un bel saggio (in inglese – una versione precedente in tedesco è circolata tre mesi fa in quella parte del mondo accademico che legge la lingua di Goethe) sostiene che gli sgravi farebbero più male che bene proprio all’industria della carta stampata. Lo studio (“Newspaper Differentiation and Investments in Journalism: The Role of Tax Policy”) parte dalla constatazione che numerosi Stati applicano imposte indirette ridotte sui giornali (o su alcune categorie quali quelli considerati di qualità, quelli ‘di tendenza’, quelli affiliati a partiti o movimenti politici, quelli prodotti da cooperative di giornalisti) pensando che, in tal modo, si incoraggino gli investimenti, si tengano contenuti i prezzi di vendita di quotidiani e periodici e si incoraggi il pluralismo.
Con l’ausilio di un raffinato modello economico, i tre economisti dimostrano quello che, a prima vista, sembra un paradosso: gli sgravi fanno più male che bene e possono accelerare il destino infausto di molte testate. Il ragionamento è semplice: i giornali ed i periodici operano in un ‘business model’ dualistico in cui il contenuto serve ad aumentare il numero dei lettori che è a sua volta la determinante principale per attirare inserzionisti. Un’implicazione importante è che ciascuna tipologia di giornali deve trovare un equilibrio tra le due fonti di ricavi: lettori e pubblicità. Una riduzione dell’imposizione indiretta rende il mercato più differenziato. Ciò, però, non ha solo l’effetto di incoraggiare il pluralismo ma anche di far sì che alcuni comparti del settore preferiscano investire di più in ‘giornalismo’ vero e proprio ed altri ‘si siedano’ sugli sgravi. Viene portato l’esempio dei tabloids britannici disposti a pagare prezzi elevatissimi per foto che attirano lettori in modo di guadagnare quote di mercato ed aumentare incassi da vendite (ed essere ancora più attraenti per gli inserzionisti). Se il mercato pubblicitario è modesto (come in Italia), i giornali possono essere tentati dall’investire troppo poco in ‘giornalismo’ vero (inchieste, analisi, notizie rare). Con la conseguenza di rendere ancora più difficili le sorti del settore. Una riduzione generalizzata della fiscalità per tutto il settore sarebbe un modo ‘molto inefficiente per sostenere testate in difficoltà’. Anzi, l’abolizione di sgravi tributari, incoraggerebbe a investire in ‘giornalismo’ e sarebbe nell’interesse della collettività.
Kind, Schjelderup e Stahler riconoscono che la leva tributaria è solo parte di una politica della stampa ed ammettono che ‘occorre fare ricerche più approfondite’ sull’economia dei media. Ad esempio, un trattamento tributario agevolato potrebbe essere utile nel facilitare la transizione da editoria commerciale ed editoria articolata in fondazioni senza fini di lucro e sostenuta da elargizioni liberali.
La stampa su carta soffre di quello che gli economisti chiamano ‘il morbo di Baumol’, dal nome dell’economista che lo la teorizzato. E’ la malattia di cui sono succubi tutti i settori economici a scarso progresso tecnologico. La stampa scritta ne ha fatto davvero poco da quando San Francesco di Sales (protettore dei giornalisti) distribuiva foglietti anti-Calvino nella Savoia di alcuni secoli fa. Con la tecnologia l’informazione e la comunicazione hanno ridotto drasticamente i costi poligrafici ma non quelli di acquisto della carta e della distribuzione. E l’informazione televisiva generalista? Aveva pensato di appropriarsi di una fonte di finanziamento della stampa su carta garantendosi una fetta importante del mercato pubblicitario: nel 2003, con Pasquale L. Scandizzo ed i ricercatori della Fondazione Bordoni dimostrammo che la bolla pubblicitaria stava per sgonfiarsi proprio mentre l’avvento del digitale terreste comportava la moltiplicazione dei canali. Nel contempo, però, l’informazione generalista, pure quella televisiva, si è trovata alle prese con una degenerazione, se vogliamo, del “morbo di Baumol”: l’utenza è stata abituata da Internet a farsi il proprio giornale ed il proprio palinsesto, incidendo negativamente sulla difese immunitarie della stampa generalista, scritta e televisiva. E’ un’illusione pensare – lo afferma l’unico editore in forte attivo in Europa e negli Usa (Axel Springer) – che le redazioni web, quelle tv e quelle della stampa scritta creino sinergie; alla prova dei fatti causano solo un aumento dei costi.
A mio avviso, ci si può difendere più che con sussidi, prendendo queste misure strategiche:
a) Trasformare la natura economica dell’editoria in un comparto come le fondazioni non-profit (analogo alle università private) il cui stock di capitale sia fornito da filantropi (agevolati da esenzioni tributarie) e le cui finalità siano quelle di dare analisi (se si vuole pure di tendenza) ma svincolate dalle esigenze di breve periodo. Così come le università fanno pagare rette (direttamente proporzionali alla loro qualità e reputazione), i giornali andrebbero in edicola e farebbero a gara per gli abbonamenti ed il mercato pubblicitario. Ovviamente ciò comporta un drastico riassetto dell’informazione televisiva, sempre più in “canali all news” di proprietà di fondazioni.
b) Orientare il prodotto verso fasce fidelizzate di utenti pronti ad abbonarsi, contenendo in tal modo, i costi di distribuzione.
c) Concentrare il contenuto su analisi e inchieste, ciò che l’informazione televisiva e Internet (con le sue propaggini su cellulari ed altro) sono meno adatti a fare.
d) Snellire, al tempo stesso, sia giornali sia telegiornali generalisti (risparmiando in costi e ricordandoci che per il lettore ed il telespettatore il tempo è una risorsa preziosa).
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