lunedì 31 dicembre 2007

L’OMBRA DI UN MAXI-INCIUCIO DIETRO ALITALIA

Il 2007 si è aperto con la rivelazione che l’asta annunciata da Prodi per la privatizzazione di Alitalia non era affatto un’asta, ma un barocco, arzigogolato ed inconcludente beauty contest. Si chiude con le polemiche sull’inizio di quella che dovrebbe essere la fase finale di un’Ops (offerta pubblica di scambio) di pacchetti azionari per fare diventare la compagnia italiana parte di un’aggregazione europea al cui centro c’è il binomio AirFrance-Klm. In breve quello che oggi termina è stato, per molti aspetti, l’anno di Alitalia.
Dopo il Consiglio dei Ministri del 28 dicembre, la trattativa tra Alitalia, da un lato, ed AirFrance-Klm, dall’altro, dovrebbe essere tutta in discesa, nonostante ci siano forti resistenze all’accordo sia in seno al Governo sia – quel che più conta- da parte di settori politici ed economici importanti del Nord del Paese (dove si teme che l’intesa comporterebbe una riduzione significativa del ruolo di Malpensa).
Da un canto, ma man mano che viene precisato l’assetto istituzione-societario della proposta AirFrance-Klm (segnatamente un trust italiano che manterrebbe il 51% dei diritti di voto della compagnia dopo l’acquisizione del controllo da parte di AirFrance-Klm), la proposta franco-olandese diventa più attraente. Da un altro, una volta avuto il consenso del CdA, sembra difficile che si possa tornare indietro poiché – come illustrato in altra sede – si aprirebbe un contenzioso in cui la sola richiesta di risarcimento (da parte di AirFrance-Klm) potrebbe innescare quella procedura fallimentare che, secondo Carlo Scarpa dell’Università di Brescia, sarebbe dovuta iniziare due anni fa. Non dimentichiamo che Alitalia è stata costretta a vendere le slots a Heathrow per sopravvivere sino al termine della trattativa con AirFrance-Klm. Da un altro lato ancora, la cordata che contende l’intesa tra Alitalia e AirFrance-Klm non ha fornito, a quel che è dato sapere, risposte adeguate ai dubbi sulla propria solidità finanziaria e sulla propria capacità industriale sollevati da L’Occidentale del 27 dicembre.
Il vento del Nord, tuttavia, è forte, ha dalla parte sua le maggiori confederazioni sindacali e può contare su un argomento non banale: quali che siano i meriti della decisione del CdA Alitalia, il metodo e la procedura seguiti dal dicembre 2006 (quando la privatizzazione è stata annunciata) lasciano molto a desiderare, per ragioni di fondo documentate più volte su L’Occidentale in questi mesi. In aggiunta, Romano Prodi ha una tendenza inarrestabile a negoziare su tutto e su tutti. Quindi, non sono da escludersi sorprese (pure nell’eventualità che la trattativa finanziaria, economica, tecnica ed industriale tra Alitalia, da un canto, e AirFrance-Klm, dall’altro, fili liscia come l’olio). Alla guida di un Governo debole e da mesi sempre sull’orlo di una crisi, Prodi non può permettersi che le aree più produttive del Paese dissotterrino l’ascia di guerra. Quali gli scenari possibili?
Il primo è quello possiamo chiamare, utilizzando un lessico un po’ datato ma adesso attualissimo, del maxi-pateracchio . Consisterebbe nel mettere “la pratica Alitalia” in un gran calderone (nomine negli enti previdenziali, all’Eni, all’Enel, all’Autorità per l’Energia, e via discorrendo) in cui negoziare (con gli scontenti) un po’ tutto, concedendo poltrone a destra ed a manca. Riuscirebbe a calmare forse i sindacati ed a giocare tra le differenze esistenti nel “fronte del Nord” (il Veneto e la Venezia Giulia, ad esempio, non sono mai stati innamorati di Malpensa ed hanno sempre puntato su un potenziamento dell’aeroporto di Verona che da lustri si sente penalizzato dal grande scalo alle porte di Busto Arsizio). Prodi è sempre stato molto abile in questi campi. Anche e soprattutto quando il costo viene posto in capo ad altri.
Il secondo è quello che possiamo chiamare, con un termine più moderno, il maxi-inciucio di settore. Consisterebbe nell’acquisire il consenso della cordata che si oppone a AirFrance-Klm (e che probabilmente ha una certa influenza sul vento del Nord). Nessuno nutre l’illusione che quello del trasporto aereo è un mercato funzionante secondo quanto si apprende studiando economia politica: è fortemente regolamentato non solo da autorità pubbliche nazionali ed internazionali ma anche e soprattutto da intese, più o meno esplicite, tra compagnie. Il maxi-inciucio consisterebbe nel dare ad AirOne (ed ai suoi sostenitori) le carte per farle diventare un “mini-campione nazionale”. Come? Tramite slots in quantità ed orari strategici in aeroporti italiani particolarmente importanti (specialmente al Nord). Ciò faciliterebbe l’aggregazione , attorno ad AirOne, di molte altre compagnie di piccole dimensioni. Il maxi-inciucio di settore potrebbe comportare, nel medio termine, benefici per i consumatori in quanto il complesso Alitalia-AirFrance-Klm si troverebbe un competitore sul mercato italiano ed un giorno su quello europeo.
Questo secondo scenario, però, presuppone che il Nord faccia la parte sua in un campo in cui per il Governo e per la politica nazionale è difficile entrare: spingere verso un’aggregazione societaria le s.p.a. che gestiscono gli aeroporti di Torino, Milano, Genova, Bergamo, Brescia, Verona, Venezia e Trieste. Senza una razionalizzazione, infatti, le slots non sarebbe sufficienti a dare l’impulso (o la protezione) necessaria. Ma, come si è detto, si tratta di s.p.a. che non vanno affatto d’amore e d’accordo.

L’IRONIA ANTI-LENINISTA DEL GIOVANE PROKOFIEF

In Italia il nome di Serghei Prokofief è associato principalmente alle sue vaste composizioni degli Anni 40 quali l’”opera demoniaca” “L’Angelo di Fuoco” (che si è ascoltata sia a Roma sia a Milano non molti anni fa), l’opera mastodontica “Guerra e Pace” (vista sia a Spoleto sia alla Scala in allestimenti che prevedevano un lungo intervallo per la cena e contemplavano circa sei ore in teatro), le musiche per i film di Eisenstein e la grandiose sinfonie. Si rappresentano spesso anche il suo balletto “Cenerentola” e la deliziosa favola per bambini “Pierino e il Lupo”. Nei Congressi del PCI veniva spesso intonata la sua enorme “Cantata per la Pace” (di forte afflato militaresco, nonostante il titolo).
Si sa che è stato uno degli artisti più celebrati nell’Unione Sovietica, anche se si sorvola sul fatto che ebbe difficoltà con l’amministrazione stalinista e che sua moglie Lina (di nazionalità spagnola) venne accusata di spionaggio, internata sino alla morte di Stalin quando le venne concesso di tornare nella penisola iberica. Si sorvola anche sull’amarezza negli ultimi anni della sua vita, quando i suoi lavori non venivano quasi più eseguiti in Patria e sul curioso destino che lo fece morire lo stesso giorno di Stalin (con lo conseguenza che il suo decesso passò inosservato nell’Urss ed all’estero).
Molto poco si sa della sua giovinezza (povera dopo la morte del padre), dei suoi studi grazie a lezioni di piano e di piccoli aiuti e soprattutto della sua “fuga” in Occidente allo scoppiare della Rivoluzione d’Ottobre , a 27 anni per vagare in Occidente, soprattutto tra Parigi, New York e Chicago. Specialmente, che io sappia, non è mai stata rappresentata in Italia – ci sono state alcune rare esecuzioni in forma di concerto - la sua opera più importante di quel periodo :”L’amore delle tre melarance” scritta e composta su commissione del Teatro Lirico di Chicago, Ne scrisse il libretto lui stesso basandosi su un adattamento del lavoro di Carlo Gozzi curato da Wsewolod E. Meyerhood, allora (negli Anni 20) uno dei leader della scuola anti-naturalistica europea. La spiegazione che viene offerta è che richiede 14 solisti e numerosi cambiamenti di scena, un impegno pesante per teatri di un Paese dove il nostro dove le favole tra il cubista ed il dadaista non sarebbero gradite al pubblico. E’ tuttavia di repertorio non soltanto in Russia e nei Paesi dell’Europa centrale ma anche in Francia, nella Penisola Iberica e negli Stati Uniti.
Chi va in vacanza in Germania ne può vedere un divertente allestimento alla Komische Oper di Berlino (dove è in scena sino al 27 gennaio, le rappresentazioni sono sempre in tedesco – in traduzione ritmica se l’originale è in un’altra lingua). La Komisce ha la fama di allestimenti trasgressivi con messe in scene portare ai giorni nostri, nudi integrali e rapporti erotici espliciti. Nulla di tutto ciò nella produzione di “L’amore di tre melarance” che è messa in scena proprio come Prokofief avrebbe voluto: allestimento a basso costo ma con un ritmo rapido, intenso e pieno di gags.
Il libretto è una satira agro-dolce, ma pungente, del potere e dei sicofanti (specialmente gli intellettuali) che lo contornano. E’ fin troppo facile individuare una presa in giro della Russia leninista. La fiaba è situato nel Regno del Re di Picche, di cui si prepara la successione. A personaggi consueti nelle fiabe (quali la Fata Morgana, le principesse che sbucano da melarance, i Primi ministri intriganti e le nipoti infedeli) si affiancano le maschere della commedia dell’arte (Pantalone, Truffaldino, Farfarello). Ancora più ironica la partitura in cui Prokofief, con tocchi ben studiati, prende in giro l’opéra lyrique francese il musikdrama wagneriano, nonché i propri contemporanei (specialmente Debussy). Non se le prende con il melodramma verdiano ed il verismo italiano unicamente perché non li considerava neanche degni di ironia. Il lavoro non è però un divertissiment intellettuale per eruditi. Il ritmo è velocissimo. Il jazz, il fox-trot, lo swing , le marce si inseriscono perfettamente in arie, declamato, concertati ed interventi continui del coro. Prokofief si era proposto di creare un teatro in musica basato su fantasia, ironia, azione e divertimento, tale da poter gareggiare (presso il pubblico) con i film di Charlie Chaplin e dei Fratelli Max.
La regia di Andreas Homoki è fedele a questo spirito. Per rendere il ritmo più incalzante, il prologo e i quattro atti sono interrotti da un solo breve intervallo, la scena è unica e molto semplice, i costumi sgargianti ed ai cantanti si richiede di essere non solo attori ma anche atleti. Si ride e ci si diverte pur se non si conosce il tedesco (ma occorre leggere una sintesi del complicato intreccio). Molto buona l’orchestra guidata dal giovane Mathias Foremmy. La Komische è un teatro di repertorio con una compagnia stabile. Nelle voci, dunque, fa premio l’affiatamento tra i numerosi solisti ed il coro, quasi sempre in scena in gruppi di dieci cantanti ( “gli eccentrici”, i “tragici”, i “comici”, i “lirici”, le “teste vuote”, i “diavoletti”, i “medici”) di cui, tranne che nel prologo (interamente corale), soltanto due o tre sono contemporaneamente sul palcoscenico. Mediamente le voci femminili sono migliori di quelli maschili.

UN ANNO AMARO DIETRO IL SORRISO DI PRODI

Nonostante i sorrisi ottimistici, Romano Prodi è, in fondo al cuore, preoccupato per le prospettive economiche del 2008. La vigilia di Natale 20 istituti econometrici (tutti privati, nessuno italiano) hanno indicato che nel 2008 la crescita del pil sarà attorno all’1,3%; il “rischio di previsione”, aggiungono, è elevato – oltre un terzo prevede un tasso di aumento del pil inferiore all’1%. Pure le elaborazioni preliminari del Fondo monetario internazionale(Fmi), suggeriscono che, tenendo conto degli effetti della finanziaria, la crescita dell’Italia sarà rasoterra. Prodi ed i suoi stretti collaboratori pensano di attribuire la responsabilità al Governo Usa ed al rallentamento in atto negli Stati Uniti. Sempre secondo i 20 istituti, il rallentamento Usa si è già verificato: siamo alla coda finale con un aumento del pil del 2% nel 2008 (il doppio circa di quello dell’Italia) rispetto al 2,1% del 2007.
In effetti, Prodi & Co.conoscono due lavori freschissimi: uno studio della Banca centrale europea (Bce) sul potenziale di lungo periodo dei principali Paesi ed un’analisi comparata Ocse sulle strategia di sviluppo. La Bce stima proprio all’1,3% l’anno il potenziale di crescita di lungo periodo dell’economia italiana rispetto al 2,2% l’anno per la media dell’intera area dell’euro che ha comunque un potenziale basso di crescita a lungo termine rispetto al 3,2% l’anno degli Usa, al 2,8% del Canada ed al 2,5% della Gran Bretagna. L’Italia non è solo l’ultima ruota del carro nell’area dell’euro, ma sfigura pure di fronte al vecchio ed addormentato Giappone. L’analisi Ocse individua (sulla base di un complesso studio statistico) nelle politiche che comportano bassa utilizzazione e produttività del lavoro (accentuate dall’ultima finanziaria e dalla legge sulla riforma del welfare) la ragione per cui l’Italia è l’ultima in classifica per potenziale di tenore di vita e per crescita del medesimo. Ove ciò non bastasse un’elaborazione, ancora preliminare, del servizio studi della Banca d’Israele corrobora i risultati Bce ed Ocse; aggiunge che in caso di shock di lunga durata (come quelli derivanti dal processo d’integrazione economica internazionale) tendiamo ad attuare politiche di bilancio che non li contrastano ma li rafforzano. Le ultime due finanziarie (quelle del Governo Prodi) rafforzano (con aumenti della pressione fiscale) le tendenze recessive che stanno attraversando gli Usa ed altri Paesi occidentali.
Negli scaffali di casa Prodi a Via Gerusalemme 7 a Bologna c’è una copia del testo di Paul Samuelson su cui Romano venne iniziato alla disciplina economica (“Economics: un introductory analysis” McGraw Hill, 1964): a p.250 il capitolo sulla politica economica a medio termine è introdotto da una citazione dal “Giulio Cesare” di Shakespeare: ”Il difetto non è nelle tue stelle, ma in te stesso”. Il guaio è che le stelle del benessere degli italiani dipendono dai difetti di Prodi.

sabato 29 dicembre 2007

QUANTO COSTANO LE (NON) RIFORME ANNUNCIATE

A che gli faceva notare quanto fosse “alta” la spesa per l’istruzione (una delle voci principali del bilancio francese), Marc Blondel, leader storico di Force Ouvrière , il sindacato laico francese, usava rispondere: “l’ignoranza è molto più cara”.
Dovrebbe ricordarsene, Romano Prodi. Alla conferenza stampa di fine 2006, promise (dopo la maxistangata fiscale) un programma di riforme per lo sviluppo a lungo termine. A quella del 27 dicembre 2007, di riforme non ha parlato. Avrebbe avuto ben poco da mostrare: una contro-riforma in materia previdenziale, ritocchi in altri campi, inazione in tema di privatizzazioni e di liberalizzazioni. In breve, volge al termine “l’anno delle non-riforme”. Le riforme costano (poiché occorre compensare alcuni gruppi sociali per certi costi di breve periodo). Parafrasando Blondel, pensiamo che le “non-riforme” sono molto più care. Non in base all’intuizione che le “non-riforme” sono una delle determinanti del più basso potenziale di crescita di lungo periodo (tra quelli dei Paesi Ocse) computato dalla Bce per l’Italia, un misero 1,3% l’anno (vedi Libero Mercato del 22 dicembre). Ma sulla scorta di analisi puntali note allo staff economico di Prodi (e di TPS).
La prima è uno studio dell’Ocse di pochi mesi fa che non avuto quasi alcuna diffusione in Italia. Misura il differenziale di lungo termine di un indicatore composito (livelli e crescita del tenore di vita a parità di potere d’acquisto) rispetto ad un benchmark (metro di confronto) convenzionale, gli Usa: Italia e Giappone sono i Paesi che presentano il divario maggiore. Le non-riforme ci costano un tasso di crescita potenziale di almeno mezzo punto del pil l’anno: una legislatura di non riforme vuol dire una riduzione media dei tenori di vita almeno del 3% rispetto a quanto sarebbe stato possibile. Un’analisi freschissima del maggiore istituto tedesco di ricerca economica (l’Ifo) conferma queste stime.
Lo studio contiene indicazioni specifiche per mettersi al passo. Per l’Italia, esse sono le seguenti: a) intensificare l’utilizzazione del lavoro (riducendo il cuneo fiscale ed incoraggiando la contrattazione collettiva decentrata al posto di quella nazionale) e b) aumentarne la produttività (promuovendo la concorrenza nei servizi cominciando dalla privatizzazione e liberalizzazione di quelli pubblici, migliorare scuola e università, modernizzare corporate governance e diritto fallimentare). Tutte aree, avrebbe detto il comico Petrolini, in cui l’azione del Governo è stata così fine che non si vede.
Un lavoro di Michel Strawczynki della Banca centrale d’Istraele, ancora in bozza ma discusso in questi giorni in Bankitalia, mette in luce un altro aspetto: a fronte di shock esterni forti e persistenti, quali quelli che caratterizzano l’Italia alle prese con l’integrazione internazionale, la politica di bilancio tende ad essere pro-ciclica, ossia ad assecondare lo shock non a contrastarlo, aggravandone gli effetti (proprio come avvenuto con le ultime due finanziarie).
In Bocca al Lupo e Buon Anno!

ALITALIA AD AIRFRANCE: I GIOCHI SONO FATTI”

Il Consiglio dei Ministri avrebbe potuto rovesciare la posizione del CdA Alitalia? Quali sarebbero state le implicazioni? Occorre fare due premesse: a) Il Tempo è stato il primo quotidiano italiano a smascherare cosa si nascondeva sotto la finta “asta” lanciata il 29 dicembre 2006 e rivelatisi inconcludente già all’inizio dell’estate; b) il mercato mondiale (ed ancor più quello europeo) del trasporto aereo è ben lungi da essere un mercato perfetto (a riguardo si suggerisce di leggere il recente NBER Working Paper No. W13452 ed il lavoro di Georges Mickhail della Facoltà di Economia e Diritto dell’Università d’Orléans). Inoltre, non abbiamo altre informazioni che quelle apparse sulla stampa: stringate per quanto riguarda il piano industriale AirFrance-Klm e preoccupanti per quanto attiene l’altro contendente (forte indebitamento, problemi di liquidità pure nel versare la cauzione per la gare, limitata esperienza nelle rotte intercontinentali). Infine, sarebbe farisaico dire che un quotidiano dell’Italia centrale non ha un debole per Fiumicino.
In un contesto di mercato imperfetto, gli strumenti analitici per affrontare il problema sono la teoria dei giochi ed il “law & economics” (la disciplina che coniuga diritto ed economia). Con questi attrezzi, appare chiaro che è stato dato “scacco matto” alla cordata AirOne & Co. Alitalia – lo abbiamo scritto su Il Tempo del 24 dicembre – è una società quotata il cui futuro (ivi compreso il negoziato con AirFrance-Klm) è responsabilità dell’amministratore delegato in base alle direttive del CdA (in cui il maggiore azionista, il Ministero dell’Economia e delle Finanze è ampiamente rappresentato) non del Consiglio dei Ministri. Il CdA può cambiare posizione in caso di una rottura della trattativa con AirFrance-Klm autorizzata il 28 dicembre da TPS. Tale cambiamento, che potrebbe dar luogo ad una nuova mano del gioco, deve essere motivato in modo dettagliato, ove non si voglia entrare in un contenzioso, con AirFrance-Klm. Ove il Governo intenda ordinare ad Alitalia di aprire la trattativa con altri (e l’attuale CdA non ritenga di essere al centro di una vertenza, potenzialmente salata per ciascuno dei suoi componenti), si dovrebbe convocare l’assemblea della compagnia, sfiduciare l’attuale CdA ed eleggerne un altro- una procedura che potrebbe durare almeno un mese ed innescare un contenzioso ancora maggiore con AirFrance-Klm (agli eventuali danni finanziari e materiali si aggiungerebbero quelli di immagine e di reputazione). Data la situazione di Alitalia (costretta a vendere le slots a Heathrow per sopravvivere sino al termine della trattativa con AirFrance-Klm), la sola richiesta di risarcimento potrebbe innescare quella procedura fallimentare che, secondo Carlo Scarpa dell’Università di Brescia (uno dei maggiori esperti del settore), sarebbe dovuta iniziare due anni fa. In breve, les jeux sont faits; rien ne va plus. Nel Casinò del trasporto aereo.

giovedì 27 dicembre 2007

IL DILEMMA DEL CREDIT CRUNCH TARGATO EUROPA

C’è troppa o troppo poca liquidità in circolazione? Nelle spiegazioni apparse in questi mesi si mette l’accento su determinanti geo-politiche e geo-economiche: gli squilibri finanziari internazionali (in breve il disavanzo dei conti con l’estero Usa di 800 miliardi di dollari l’anno), le differenze di propensione al risparmio nelle varie aree geografiche, l’impatto delle tecnologie sui flussi di capitale, gli eccessi di innovazione finanziaria negli Usa ed in Europa. Pur se queste determinanti hanno un ruolo, la principale spesso distolgono l’attenzione dalla principale. La liquidità non viene più concepita come rapporto tra massa monetaria e mercati di riferimento nell’economia reale ma come grado di fiducia tra i soggetti economici nei differenti mercati – sia tra di loro sia negli strumenti di transazione, di misurazione e di riserva a loro disposizione. La credit crunch ,in atto negli Usa e paventata in Europa, è grave perché riguarda il grado di fiducia che alcune delle maggiori banche internazionali hanno fra loro. Un’indicazione concreta è data dall’aumento del premio di rischio per le operazioni tra banche. Un fenomeno che fa a pugni con le buone prospettive di crescita dell’economia mondiale ed i ribassi dei tassi d’interesse pilotati dalla Fed negli Usa e la decisione della Bce di non aumentare quelli da lei guidati nell’area dell’euro (nonostante un tasso d’inflazione annuo relativamente sostenuto).
Cosa ha inciso negativamente sulla fiducia tra le banche? Queste si sono sempre indebitate a breve per investire , con un certo grado di rischio, a medio termine. L’innovazione finanziaria ha fatto sì che una quota crescente delle intermediazione venga effettuata tramite strutture organizzative (gli Special Investment Vehicles, SIVs) il cui capitale proviene in gran misura dalle banche ma le cui operazioni non sono soggette a regolamentazione bancaria. La moltiplicazione delle SIVs ed il pullulare di marchingegni barocchi per gettare sul mercato prestiti al tempo stesso illiquidi ed ad alto rischio (come i mutui subprime) ha incrinato la fiducia reciproca tra le banche in quanto – lo mostrano le cronache di queste settimane – spesso nessuna ha piena consapevolezza di quanti SIVs siano nel suo portafoglio, di quanti in quelli delle altre banche con cui tratta più frequentemente e quale il grado di rischio associato ai differenti SIVs . Da qui una caduta di fiducia che pone difficoltà di liquidità – proprio mentre il mondo sguazza in liquidità – gli stessi principali intermediari finanziari, le banche, il cui compito principe è quello di ben incanalare la liquidità.
Quali sono le probabilità che il fenomeno si sviluppi anche in Europa? Il Vice Presidente della Bce, Lucas Papademos, tranquillizza i mercati sottolineando come nel Vecchio Continente si seguano regole e prassi rigorose per i prestiti in generale ed i mutui in particolare. Indicazioni analoghe provengono dalla Bank of England: solo un terzo delle imprese (bancarie, manifatturiere, commerciali, ecc.) ritiene che nel 2008 si potrebbe verificare una credit crunch. In Spagna, però, il 60% dei portafogli delle banche è bloccato nell’immobiliare. In tutta Europa è in atto una contrazione della leva finanziaria per fusioni e concentrazioni: da 95 miliardi di euro nel 2006 e 35 nel 2007.

QUANTO CI COSTANO I RITARDI SU ALITALIA?

Natale lavorativo nei Palazzi della politica. Tema principale delle tante attività (sia visibili, come dichiarazioni ufficiali, sia soprattutto riservate, quali gli incontri furtivi): il futuro dell’Alitalia. Dopo la decisione assunta dal CdA della compagnia il 21 dicembre (avvio di trattative concrete per uno scambio di azioni, congiuntamente ad una ricapitalizzazione, con AirFrance-Klm), un fronte trasversale si sta adoperando perché la posizione dell’azienda venga riveduta dal potere politico. Le alternative che vengono offerte sono due: a) prendere come partner AirOne (e le banche che la sostengono) in quanto i progetti per il futuro sarebbero maggiormente in linea con le esigenze del Paese (e soprattutto delle Regioni del Nord); b) dividere ciò che resta di Alitalia tra i due contendenti, AirFrance-Klm e AirOne, offrendo in materia una vasta gamma di possibilità. E’ poco verosimile che AirFrance-Klm accettino un’eventuale proposta di spezzatino.
Ripeto ancora una volta che non avendo i dati di dettaglio delle proposte AirFrancer-Klm e AirOne, la mia posizione è asettica ossia distinta e distante dalle due parti in contesa. Non soltanto – come si è sottolineato ne L’Occidentale del 22 dicembre – disattendere una delibera del CdA di una s.p.a. quotata avrebbe implicazioni legali molto più complicate di quelle dei “casi” Petroni e Speciale, ma presentare due alternative (per di più con molteplici variazioni sul tema per la seconda) indebolisce seriamente la posizione di coloro che si oppongono alla soluzione AirFrance-Klm. Inietta il dubbio (a coloro che non lo avevano) che AirOne (pur appoggiata da banche di primaria importanza e nazionale e internazionale) sia consapevole che il boccone sarebbe tanto grosso da non poterlo inghiottire.
In queste settimane, studi asettici di istituzioni (quali l’Università di Brescia e l’Istituto Bruno Leoni, IBL) non certo iscrivibili al “partito di Roma” ed ancor meno al “partito del Sud” hanno sollevato domande a cui AirOne (ed il resto della cordata) non ha mai dato risposte:
1. la situazione finanziaria della compagnia. Quando, pochi mesi fa, venne richiesto di fornire 100 milioni di euro per partecipare alle fasi finali del beauty contest, pare, da informazioni pubblicate sulla stampa, che AirOne non avesse la cassa necessaria tanto che la somma venne versata da Banca Intesa. L’indebitamento di Air One ammonterebbe a 300 milioni di euro(di cui una parte non insignificante con le società che gestiscono gli scali di Milano e di Roma). I ritardi nel servizio del debito confermerebbero difficoltà di cassa.
2. la capacità operativa della compagnia. Secondo le statistiche dell’Aea (l’associazione delle maggiori compagnie europee), i suoi aerei viaggiano con un tasso di riempimento del 53,6%, rispetto all’82,5% della Klm, al 79,5% della AirFrance, al 79,4% dell’Iberia ed al 72,4% dell’Alitalia, ed ad una media europea del 75%. Tra le 30 censite, è la penultima in classifica. Ciò spiegherebbe sia il forte indebitamento sia i problemi di cassa sia un fatturato inferiore alle perdite annuali di Alitalia (a titolo di raffronto i ricavi di AirFrance sono quasi cinque volte quelli di Alitalia).
3. la modesta quota di mercato, anche dopo un’eventuale fusione con Alitalia. Secondo i calcoli dell’IBL, la partnership AirOne-Alitalia avrebbe non più del 4% del mercato europeo, mentre la partnership Alitalia-AirFrance-Klm potrebbe contare su più del 12%. Senza Alitalia, la quota di mercato AirFrance-Klm sarebbe il doppio di quella congiunta AirOne-Alitalia. Il mercato europeo, inoltre, è in via di rapido consolidamento anche a ragione dell’imminente (aprile 2008) liberalizzazione del trasporto aereo Ue-Usa.
Le perplessità e gli interrogativi che suscitano questi dati – molto più cogenti di quelli relativi al differenziale del prezzo offerto per ciò che resta di Alitalia (l’offerta AirFrance-Klm comporta 240 milioni di euro a cui altrimenti si dovrebbe rinunciare – necessità risposte urgenti e puntuali ove si voglia modificare la decisione del CdA. Se i dati non corrispondo a verità ma rispecchiano informazioni tendenziose messe in giro dal contendente e raccolte dalle università e dagli istituti di ricerca, occorre smentirli rapidamente ed aprire i libri contabili per mostrare quelli veri. Non si può eludere il problema ed affidarsi alla politique d’abord.
La fretta è imposta dalla crescenti perdite di Alitalia. Secondo calcoli dell’IBL, i ritardi nella barocca proceduta iniziata nel dicembre 2006 sono già costati agli italiani 400 milioni di euro. Una somma che aumenta di più di un milione di euro ogni giorn che passa. I contribuenti sono stanchi e stufi: lo sa lo stesso VVV (Viceministro Vincenzo Visco) che su questo punto concorda a pieno con TPS (acronimo troppo noto per esigere una spiegazione).

martedì 25 dicembre 2007

ALITALIA “FRANCESE” METTE PRODI ALL’ANGOLO

Giocando su tre fronti differenti (e confondendo il “fuoco amico”, ossia i cosiddetti alleati), Prodi ha centrato tre goals: finanziaria, welfare e Alitalia. Soffermiamoci su questo ultimo aspetto in quanto Il Tempo ha scoperchiato prima di tutti cosa si celava sotto la presunta asta. La vicenda non si è ancora conclusa: sta iniziando la fase finale (il negoziato con il contendente prescelto dal CdA Alitalia) che si presenta opaca come le altre. E’ prematuro dare un giudizio tecnico-economico perché i dati essenziali non sono stati resi pubblici. Ad una prima lettura, il programma AirFrance-Klm rispetta tre criteri chiave: cassa immediata (di cui Alitalia ha urgente bisogno), collocazione in posizione chiave nella maggiore partnership europea del settore (mantenendo il marchio), conformità alle regole italiane ed europee in materia di concorrenza.
Numerosi interessi legittimi (specialmente del Nord) protestano in quanto Malpensa dovrà trovare una nuova funzione (e darsi un nuovo business plan). Anche i sindacati sono in fibrillazione: troppo a lungo hanno considerato Alitalia un ammortizzatore sociale non una compagnia area a servizio dei clienti. Ci sono molte domande (su rotte, occupazione, futuro della meteora di sussidiarie che ruota attorno alla capogruppo) che speriamo abbiamo risposte adeguate nelle prossime settimane. Tranne che non si giunga a rottura nel negoziato operativo con AirFrance-Klm, per Prodi sarà difficile disattendere la decisione del CdA di una s.p.a. quotata, guidata da persona da lui scelte e dei cui organi di governo e controllo fanno parte rappresentati dei dicasteri-chiave del Governo. Ove ciò avvenisse, si innescherebbe una vertenza giudiziaria ancora più grave di quelle che hanno recentemente coinvolto il Prof. Petroni ed il Gen. Speciale.
La decisione del CdA pone, però, Prodi ad un bivio. A fronte delle proteste dei sindacati (e non solo) si potrebbe cercare di chiuderla in fretta (pure per evitare il fallimento della compagnia) con qualche aggiustamento al margine e considerare terminata (sino a tempi migliori) la partita delle privatizzazioni. Oppure, come annunciato il 6 dicembre 2006, quella di Alitalia potrebbe essere la madre di altre privatizzazioni (nuove come Rai, Poste; da completare come Enel, Eni; da impostare come i servizi pubblici locali).
Chi crede nel mercato, non può che auspicare la seconda alternativa. E’ difficile che Prodi (ammesso che abbia in animo di seguirla) riesca a realizzarla. Da un lato, la bagarre all’interno della maggioranza (pure nell’ambito dello stesso Partito Democratico) rischia di diventare il detonare di una bomba tale da fare esplodere una coalizione già politicamente implosa (nonostante i goals segnati il 21 dicembre). Da un altro, se non scoppia, la maggioranza può unicamente sperare di “tirare a campare” (lo ripete quasi ogni giorno Prodi in persona), mentre le privatizzazioni richiedono leadership, impegno ed energia.

LA VEDOVA ALLEGRA

ROMA/ TEATRO DELL’OPERA AL COSTANZI
La vedova allegra(Die lustige Witwe)
Operetta in tre atti
Libretto di Victor Lèon e Lèon Stein
dalla commedia “L’attaché d’ambassade” di Henri Meilhac
Traduzione e libero adattamento di Vincenzo Salemme
Musica di Franz Lehár

L’operetta, sostituita sui palcoscenici italiani, in gran misura, dalla commedia musicale, torna nei nostri teatri maggiori in occasione delle feste di Natale e di Capodanno. E’ un genere – ricorda Mario Bortolotto nel libro Consacrazione della Casa – che “trasforma in senso borghese quel filone che si vuole aureo”- “il suo accento futile e godereccio – aggiunge - è ricco di troppi armonici legittimisti per non incantare molti sopravvissuti alle bufere” (delle guerre del XIX secolo- n.d.r). Si adatta, quindi, ad un continente vecchio in cui il declino è uno dei temi più frequenti di conversazione, pure nei foyer dei teatri.

La vedova allegra di Franz Lehár è, però, un’operetta speciale. La sua prima rappresentazione , al Theater an der Wien, ebbe luogo il 30 dicembre 1905. appena tre settimane dopo quella di “Salome” di Richard Strauss a Dresda. E’ nel suo genere è rivoluzionario tanto quanto il lavoro di Richard Strauss lo è “nel filone aureo”. In effetti, all’inizio del XX secolo, l’operetta pareva una forma di spettacolo ormai al tramonto. In Austria con la morte di Johann Strauss ne era terminata l’età dell’oro in cui il genere rispecchiava una borghesia ricca (e molto poco “imperiale”). In Francia, non c’erano più né Jacques Hoffenbach né il mondo (principalmente quello del Secondo Impero) nei cui confronti le sue operette lanciavano un’ironia graffiante. Viveva nelle satire sottilmente perverse che in Gran Bretagna la “premiata ditta” Gilbert & Sullivan lanciava nei confronti della società vittoriana e post-vittoriana – in lavori densi di “idioms” (frasi idiomatiche e doppi sensi) e, quindi, difficilmente traducibili apprezzabili a Sud della Manica. La vedova allegra arrivò con una vera carica rivoluzionaria per tre motivi. In primo luogo, per quanto adattata da una mediocre “pochade” di successo di Meilhac, non era una rappresentazione, più o meno ironica, della società e della politica del tempo ma una lettura visionaria di come la “Mitteleuropa” (Lehár veniva da un piccolo villaggio ungherese e per lustri si era guadagnato il pane nell’esercito , e guidando, quando poteva, bande di paese) si immaginava fosse Parigi (metropoli dell’avvenire) e prendeva in giro gli Statarelli balcanici (considerati in via di modernizzazione). In secondo luogo, utilizza una linea melodica ricchissima e vi inserisce brani da “filone aureo” (la canzone di Vilja al secondo atto) unitamente a prestiti dal melologo (parlato accompagnato da orchestra). In terzo luogo, l’azione drammatica slitta, oltre che nei numeri musicali, nella danza, in una danza in cui, oltre ai valzer, alle polke, alle mazurche ed alle marce tradizionali, viene inserita la musica etnica (per l’appunto slava, portando in orchestra liuti d’ascendenza araba). Infine, la commedia in musica è coperta da un velo di malinconia – anticipatore, quasi quanto lo avrebbe fatto sei anni dopo Der Rosenkavalier di Strauss e Hofmannsthal, dei colpi di pistola di Sarajevo e, con la Prima Guerra Mondiale, della fine di un mondo. L’orchestrazione e la vocalità, in linea con questi tre aspetti fondanti, ne fanno un capolavoro musicale, adorato da concertatori del livello di Kleiber, Rudel, von Karajan e von Matacic.

Questa premessa è essenziale per comprendere la tesi secondo cui quale che sia l’adattamento de La vedova allegra - il vostro “chroniqueur” ha spesso lodato attualizzazioni e trasposizioni – occorre rispettarne lo spirito. Non mi scandalizzerei di fronte ad una ambientazione “visionaria” nella New York di oggi (quale immaginata da una piccola borghesia europea) ed il Pontevedro fosse una Repubblica bananiera dei Caraibi o dell’America centrale. Sempre che venga rispettato il carattere “visionario” , l’equilibrio tra parole e musica e la magnifica partitura. Nel 1990, il Teatro dell’Opera di Roma ha presentato un allestimento curato da Mauro Bolognini in cui la vicenda veniva ambientata negli Anni 30 (prima di una Seconda Guerra Mondiale , i cui spari restavano distanti): costruito attorno a Raina Kabaivanska e Mikael Melbe, funzionava perfettamente ed è stato ripreso sia nella capitale sia in altre città.

Dubito che “il libero adattamento” di Vincenzo Salemme, fortemente contestato alla “prima” dalle proteste di spettatori che al secondo atto richiedevano la sospensione dello spettacolo, verrà ripreso. A Roma o altrove. Contiene seri errori di impostazione, di sintassi e di grammatica.

Quelli di impostazione riguardano la trasposizione della vicenda in una Napoli macchiettistica ed una massiccia riscrittura delle parti parlate. Non ci sarebbe stato nulla di male nel trasferire l’azione nella Napoli dell’inizio del XX secolo – la Napoli di Salvatore Di Giacomo, capitale della cultura e del bel vivere dell’Italia e dell’Europa meridionale, vera controparte al sole di Parigi. In questo quadro, si sarebbe ben potuto utilizzare, per i numeri musicali, il testo originale tedesco (un piccolo miracolo non solo di ironia ma anche di fusione tra parola e musica) invece della pessima traduzione ritmica di tradizione. La Napoli di Salemme è invece quella delle commedie all’italiana Anni 50 e degli show televisivi. L’epoca è imprecisata: il Re sarebbe Carlo III ( nel Settecento) , ma Chez Maxim’s è un cabaret quasi da Anni 30 (più vicino alla Berlino di Weimar che alla ville lumière della belle époque), nel finale protagonisti e comprimari sono coperti da sacchetti di rifiuti della Napoli di questi giorni e non mancano riferimenti a compact disc taroccati nonché alle televisioni berlusconiane. Nulla di visionario, quindi, ma un’ambientazione a metà tra i filmetti che Totò girava con quatto lire in pochi giorni (tipo Imperatore di Capri ) e le trasmissioni di Michele Santoro, inframezzate da lazzi da avanspettacolo di provincia (quali quelli dei cinema varietà degli Anni 40) . Niente di più distante dallo spirito del capolavoro di Lehár. Ove ciò non bastasse le parti parlate vengono dilatate a dismisura dando allo spettacolo dimensioni quasi wagneriane (tre ore e mezzo, intervalli compresi). Inoltre, agli interpreti viene richiesto di scimmiottare il dialetto napoletano: anche al povero Manuel Lanza che è spagnolo, a Fiorenza Cedolins che è veneta, a Vittorio Grigolo che è aretino. E via discorrendo. Gli esiti sono disastrosi.

Gli errori di sintassi riguardano sopratutto l’impiego dell’amplificazione per le parti parlate. Salemme (uso a televisione ed a spettacoli all’aperto) forse non può farne a meno. Non si rende conto che ciò rompe gli impasti musicali di tutto lo spettacolo, non solo dei melologhi accompagnati da orchestra. L’orecchio del pubblico fa davvero fatica a passare da amplificazione a “dal vivo”, spesso gli attacchi orchestrali non si riescono ad udire. Si tocca l’abisso all’inizio del terzo atto quando Selemme (che interpreta anche Niegus trasformato in Pulcinella) canta in scena (amplificato) mentre orchestra e coro non sono amplificati.

Gli errori di grammatica sono relativi principalmente all’orchestrazione. La direzione artistica del Teatro dell’Opera avrebbe dovuto ricordare a Salemme che non è né un Rimski-Korsakov, né uno Shostakovic né un Henze (mirabili ri-oschetratori di Mussorsgy e di Monteverdi). Neppure un piccolo Guiraud (modesto ri-oschetratore di Bizet e di Hoffenbach). Non avrebbe dovuto permettergli di eliminare i litui slavi, o di renderli inudibili) e di introdurre i mandolini napoletani in Lippen schweigen. Forse Salemme ritiene che il pubblico del Teatro dell’Opera non conosce cosa è una partitura ed una strumentazione ed e pronto a pagare € 130 per quattro scherzi di dubbio gusto.

Difficile comprendere come e perché Daniel Oren (di cui si ricordano ottime esecuzioni de La vedova allegra ) abbia accettato di essere parte di tale pasticcio. Impossibile esprimere un giudizio sull’orchestra. Sarebbe ingeneroso , date le condizioni in cui ha dovuto suonare . E’ auspicabile che, per minimizzare il danno, nelle repliche si tagli drasticamente il parlato e si rinunci a amplificazione ed a mandolini.

Lo spettacolo, infatti, non è tutto da buttare o da dimenticare. La parte vocale è di certo livello. In primo luogo, il concertato a sette voci Ja, das Studium der Weiber (vero e proprio asse portante del lavoro) riesce a resistere alla soubrettes di Salemme (accompagnate da frizzi e lazzi dozzinali), segno che la musica è vincente rispetto a chi ne fa strazio. Pur se negli ultimi anni, Fiorenza Cedolins ha preferito ruoli relativamente spinti (lo si avverte nella passionalità della canzone di Vilja) è un soprano lirico puro a tutto tondo, magnifica nei duetti con Manuel Lanza (divertentissimo il Dummer, dummer Rietersmann , nonostante le pessima versione ritmica di tradizione) ; la sua è una Hanna Glawari matura ed astuta (più che passionale) che riconquista con abilità il proprio uomo (anche se la regia la obbliga a scimmiottare Sofia Loren ne L’oro di Napoli) – più simile, in effetti, a quella della Schwarzkopf che a quella della Kabaivanska. Daniela Mazzucato è ammirevole per la abilità di cantare, e danzare, il ruolo di Valencienne con la stessa freschezza vocale ed interpretativa di venti anni fa. Di buon livello il Danilo di Manuel Lanza, dal voce morbida e suadente – affascinante il suo Ich gehe zu Maxim . Il trionfatore dello spettacolo è Vittorio Grigolo che dà a Rossillon, spesso affidato ad un tenore caratterista, lo spessore vocale ed interpretativo che merita; un Rossillon passionale e sensuale (specialmente in Wie eine Rosenknospe) dal legato dolcissimo ma con un volume ed un fraseggio in grado di primeggiare nel quintetto del secondo atto.

Il pubblico ha meritatamente dato ai cantanti il doppio degli applausi (a ragioni delle condizioni difficili in cui hanno lavorato).


Roma, Teatro dell’Opera
21 dicembre 2007
Giuseppe Pennisi

LA LOCANDINA

La vedova allegra(Die lustige Witwe)
Operetta in tre atti
Libretto di Victor Lèon e Lèon Stein
dalla commedia “L’attaché d’ambassade” di Henri Meilhac
Traduzione e libero adattamento di Vincenzo Salemme
Musica di Franz Lehár




Maestro di coro
Andrea Giorgi
Regia
Vincenzo Salemme
Scene
Costumi
Alessandro~Chiti
Giusi Giustino
Mirko Zeta
Marcello Lippi
Valencienne
Federica Bragaglia /
Danilo
Manuel Lanza /
Hanna Glawari
Fiorenza Cedolins /
Camillo de Rossillon
Vittorio Grigolo /
Visconte Cascada
Armando Gabba
Raoul de Saint Brioche
Stefano Consolini
Bogdanovich
Alessandro Battiato
Silviana
Bérangère Warluzel
Kromow
Marco Santoro
Olga
Manuela Boni
Pritschitch
Massimiliano Gallo
Praskowia
Giuditta Saltarini
Njegus
Vincenzo Salemme
Direzione musicale
Daniel Oren

sabato 22 dicembre 2007

LA MASCHERA DI PUNKITITITI

Roma-Teatro Nazionale
La maschera di Punkitititi
Opera in tre atti
Ideazione e Libretto di Quirino Conti e Marco Ravasini
Musica di Marco Taralli

In primo luogo, è sempre da salutare con gioia la “prima mondiale” di una nuova opera italiana . Quando ero giovane, era una consuetudine di quasi tutti i teatri d’opera italiani, specialmente dei più importanti (come quelli di Roma e Milano) presentarne una ogni stagione; oggi è prassi dei teatri americani, tedeschi e nord-europei e comincia ad esserlo anche di quelli francesi. Mentre in Italia è un’occasione rara. Specialmente se si tratta di commissioni a compositori ancora giovani. In secondo luogo, è anche da salutare con gioia che la commissione non riguardi necessariamente la contemporaneità o anche l’avanguardia più avanzata, ma uno spettacolo che strizza un occhio al pubblico, con un intreccio ben articolato, un pizzico di sesso trasgressivo ed una partitura tonale; negli Stati Uniti, questi ingredienti hanno portato ad un nuovo genere di teatro in musica – in Italia se ne è avuto un assaggio alcuni fa con A Streetcar named Desire di Previn a Torino e se ne avrà un altro con 1984 di Maazel tra qualche mese a Milano – che sta facendo rinascere l’opera commerciale per il grande pubblico. Quindi, occorre complimentarsi con il Teatro dell’Opera di Roma per l’idea.

Fatta questa premessa, veniamo alle specifiche del lavoro. La Maschera di Pùnkititi è stata inizialmente commissionata tra le opere da mettere in scena nel corso delle celebrazioni mozartiani del 2006. I tagli improvvisi del Fondo unico per lo spettacolo (Fus) costrinsero ad un rinvio – nel corso del quale il lavoro deve essersi dilatato, poiché da “un atto (e tre quadri)” inizialmente annunciato è adesso un’”opera in tre atti”che, con un solo breve intervallo, tra il primo atto e gli altri due, ha una durata complessiva di oltre due ore e mezzo e richiede un organico orchestrate di medie proporzioni.

Pùnkititi è uno dei tanti pseudonomini che, come si ricava dal suo epistolario, Mozart utilizzava parlando di se medesimo nel corso dei suoi viaggi. La vicenda dell’opera ruota attorno una scultura in cera in omaggio a Wolfgang Amadeus. Siamo nel Nord Europa agli inizi del Novecento, nel laboratorio di un ipotetico Museo dell’Uomo, lo sculture Volfango si propone questo compito e vuole creare una statua il più simile possibile all’originale (di cui non si conoscono le esatte fattezze). E’ poco interessato a Mozart, ma molto a Wagner e a Beethoven, il direttore (e si presume) proprietario del Museo, l’anziano Lardoux. I due hanno in comune un legame omo-erotico con il bel modello Morel. Lardoux non sa di “divedere” Morel con Volfango. Il modello è verosimilmente bisessuale perché corteggia intensamente la giovane e bella assistente di Volfango, Corinne, pur se è sinceramente innamorato dello scultore ed a Lardoux vende le proprie prestazioni in cambio di denaro. Morel riesce a trovare la maschera mortuaria di Mozart ed a darla come pegno d’amore a Volfango. Prima ancora però che lo sculture apra il pacco, veda la maschera e legga la lettera, viene ucciso, per errore, da Lardoux che rientrando, con la propria bellissima moglie, da un concerto, gli spara scambiandolo per un ladro (ed in effetti il bel Morel stava cercando di scassinare la cassaforte del suo, per così dire, mecenate ed amante). Il testo di Quirino Conti (eclettico architetto e stilista) e Marco Ravasin (verificatore) tratta la materia con tutta la delicatezza e l’eleganza del caso.

Il programma di sala parla di atmosfera proustiana e di incontro tra Mozart e Proust. Il lancio stampa ha posto molto l’accento sugli aspetti “gay” dell’opera, presentandola come prima opera “gay” italiana. In effetti, Volfango (baritono), Lardoux (basso) e Morel (tenore) sono adulti consenzienti – il primo ed il terzo di mezza età, il terzo anziano – tutti e tre in scena sempre in giacca e cravatta; le loro effusioni avvengono fuori scena o brevemente dietro un paravanto. Questo intreccio principale è condito da intrecci secondari: la rivalità tra Corinne e la precedente assistente di Volfango, la complessa psicologia della moglie di Lardoux, e via discorrendo. In pratica, questi altri aspetti appesantiscono la drammaturgia di quella che potrebbe essere una piece d’atmosphère , inserendovi elementi eruditi che rallentano l’azione. Ad esempio, l’intero primo atto è Ein Koversationsstück für Musik (per dirla tedesco) o una Chit-Chat Opera (per dirla in inglese) oppure una Conversazioni in musica tra Volfango, Corinna e la sua assistente precedente (Morel arriva soltanto alla fine dell’atto) , ma manca il genio di Clemens Krauss e Richard Strauss; resta, dunque, piuttosto sterile, ove non noioso. Anche in quanto infarcito di continue citazioni – mozartiane - e non solo (molto presenti pure quelle pucciniane) tanto da diventare quasi un gioco ad indovinare i riferimenti.

La scrittura musicale e vocale è – si è detto – tonale. Ciò non è di per se stesso un difetto; considero Salvatore Giuliano (la cui scrittura è rigorosamente tonale) di Lorenzo Ferrero uno dei lavori più interessanti di teatro in musica dell’ultimo quarto di secolo, mentre apprezzo poco le opere tonali di Marco Betta, specialmente i Singspiel. In questo lavoro, Taralli non è cugino né di Ferrero né di Betta; la sua scrittura sembra rifarsi all’inizio del secolo scorso, ove non a Cilea. E’ musica gradevole che si ascolta piacevolmente (la si gusterebbe ancora di più se il lavoro fosse più breve) e che segue tutte le convenzioni dei primi anni del Novecento: dal sinfonismo in buca d’orchestra, al “conversar cantando” ed al declamato che scivolano in numeri, al concertato finale (rafforzato da un terzetto per voci bianche) all’intermezzo orchestrale tra il secondo il terzo atti. La scrittura è impeccabile ed alcuni momenti (ad esempio l’intermezzo) molto belli. Sembra, però, di essere tornati indietro di cento anni. Occorre anche dire che la paritura migliora di atto in atto, acquisendo nel terzo una tensione drammatica che non ci sarebbe affatto attesi sulla base del primo. L’orchestra ed il coro del Teatro dell’Opera, guidati da Vittorio Parisi e Gea Gatti Ansini danno una buona prova.

E’ necessario, però, fare un distinguo importante: all’inizio del Novecento, dopo la lunga fase del melodramma verdiano (passionale ma mai erotico), con Manon Lescaut l’eros era ri-esploso prepotentemente nel teatro in musica italiano (non era mai sparito da quello tedesco e francese) mentre, nonostante l’intreccio “gay” (ed il battage di stampa creato per l’occasione), di eros non c’è neanche un accenno nella partitura di Taralli. Ancora una volta, l’eros può essere trascinante in opere su temi “gay”: si pensi a Castor et Polluce di Rameau (lussuosa lettura “gay” della Versailles del Re Sole) oppure a Bully Budd di Britten (dove il sadismo “gay” di Claggart viene contrapposto al rapporto affettivo, prima che erotico, tra Billy e il novizio, prima che quest’ultimo si venda a Claggart) oppure ancora al duetto del secondo quadro del secondo atto di Eugene Oneighin Tchaikosvky. Nelle musica di Pùnkititi di eros non c’è traccia. Questo è uno dei limiti maggiori del lavoro.

Il Teatro dell’Opera di Roma ho prodotto comunque un allestimento di grande classe. L’allestimento, le scene ed i costumi di Quirino Conte utilizzano in molto molto astuto lo spazio, non certo felice, del Teatro Nazionale (palcoscenico poco profonda, buca d’orchestra ristretta). Di poustiano c’è l’atmosfera, quasi il profumo. Di mozartiano l’impianto ed i colori degli allestimenti di Don Giovanni e Nozze di Figaro di Conte nella sala più grande, il Teatro Costanzi. Grande attenzione – come sempre negli allestimenti di Conte – ai dettagli ed alla recitazione.

Lo asseconda una buona squadra di cantanti attori. Dopo un periodo in cui ci era parso di avere perso lo smalto, Paolo Coni sembra tornato ai suoi tempi migliori (quelli dell’Oneighin bolognese del 1991) pure in quanto è alle prese con un ruolo in cui la recitazione fa premio su una vocalità piuttosto semplice. Danilo Formaggia conferma di essere un tenore con ottimo registro di mezzo. Efficace Enzo Capuano nel breve, ma importante ruolo di Lardoux. Tra le voci femminili, spiccano la Corinna di Donata D’Annunzio Lombardi e la Mme Lardoux di Olga Adamovich.

E’ obbligo del cronista riferire che alla “prima” c’era il “tout Rome” delle grandi occasioni che ha coronato lo spettacolo con circa dieci minuti di applausi. Doveroso anche aggiungere che il giorno successivo alla “prima” ho ascoltato tre opere cariche di eros, nell’ordine Le Compte Ory di Rossini, Die Gezeichneten di Schreker e la libidinosissima Die Ägyptsche Helena di Strauss.

Roma, Teatro Nazionale, 18 dicembre
Giuseppe Pennisi


LA LOCANDINA



La maschera di Punkitititi
Opera in tre atti
Ideazione e Libretto di Quirino Conti e Marco Ravasini
Musica di Marco Taralli


Maestro di coro
Andrea Giorgi
Regista
Quirino Conti
Scene, Costumi
Quirino Conti
Direzione Musicale
Maestro del coro
Vittorio Parisi ~
Gea Garatti Ansini


Volfango

Paolo Coni
Corinna
Donata D'Annunzio Lombardi
Madame Bernardaky
Rosa Ricciotti /
Morel
Danilo Formaggia
Madame Lardoux
Paola Francesca Natale
Monsieur Lardoux
Enzo Capuano
La Pettinatrice
Gemma Gabriella Stimola
Il Truccatore
Carlos Natale
Il Sarto/Un Impiegato
Roberto Nencini

L’AMBIGUITA’ DELLE REGOLE FRENA LA CRESCITA

Alla stregua di pugili storditi (dopo una sconfitta), politici della maggioranza ed economisti collaterali ai “Palazzi” si chiedono quali determinanti hanno portato al sorpasso dell’Italia da parte della Spagna in termini di pil pro-capite a parità di potere d’acquisto. Si interrogano anche sul sorpasso prossimo futuro: secondo i vati dell’Eurostat dovrebbe avvenire da parte della Grecia. I più accorti hanno letto (ma chiuso a quattro mandate) un elegante, ma sconfortante, libretto pubblicato dalla Bce a fine novembre (il Working Paper No. 828) in cui con algoritmi e test econometrici si stimano i “potenziali di crescita” di lungo periodo: quello dell’Italia è un misero 1,3% l’anno, inferiore a quelli del Giappone (1,5%), nonché di Francia e Germania (leggermente superiori al 2%), della media dell’area dell’euro (2,2%), di Usa (3,2%), Canada (2,8%) e Gran Bretagna (2,5%). Molte determinanti sono lapalissiane: scarso capitale umano, pessime infrastrutture, pubbliche amministrazione gonfie ed inefficienti, e via discorrendo. Con brio ma non troppo, le responsabilità vengono imputate ai Governi ed alle classi dirigenti precedenti (come se non fossero composte dai personaggi di oggi e dai loro padri, zii, cugini e fratelli maggiori).
Nel buonismo di questi giorni festivi, cerchiamo di essere utili. Per fare una diagnosi corretta, premessa di una terapia efficace, occorre esaminare un aspetto relativamente nuovo, applicato in finanza (ed economia finanziaria) ma poco utilizzato in economia reale (e di politica economica): l’avversione all’ambiguità. Tale avversione spiega, ad esempio, perché l’Italia , con una propensione al risparmio delle famiglie (11% del reddito disponibile) superiore alla media Ocse, investa male (ossia con bassi rendimenti). L’avversione all’ambiguità è la preferenza per un rischio che si conosce rispetto ad un rischio di cui non si sanno i connotati. Induce a ritardare le decisioni (nella speranza di avere maggiori e migliori informazioni) ed a fare scelte non ottimali (nel tentativo di pararsi i fianchi). Un’analisi recente del Fondo monetario (su indicatori di Banca Mondiale) analizza, in 53 Paesi, come l’”avversione all’ambiguità istituzionale” sia uno dei freni maggiori allo sviluppo poiché individui, famiglie ed imprese non sanno quali regole seguire.
L’”ambiguità istituzionale” in senso tecnico di “ambiguità delle regole” caratterizza da anni l’Italia. Si è accentuata nell’ultimo anno e mezzo. I dibattiti inconcludenti sulle leggi elettorali, le privatizzazioni sgangherate a livello nazionale (da manuale di “cosa-non-fare” quella, in atto, di Alitalia) mentre crescono tanti piccoli Iri (e pure Efim) a livello locale, il rincorrersi di contro-riforme in campi che toccano la vita di tutti (mercato del lavoro, previdenza), la percezione di una crescente insicurezza personale (e di inazione in questo campo da parte dei poteri costituiti) nonché di abusi di principi del diritto nel funzionamento di organizzazione come la Rai e la Guardia di Finanza, stordiscono gli italiani grandi e piccoli (individui, famiglie ed imprese), l’avversione all’ambiguità aumenta, la crescita ristagna. Sarà così sino a quando non arriverà un cast capace di infondere il senso di certezza delle regole.

GLI IMPOSSIBILI SOGNI VOLANTI DI BIANCHI

Alessandro Bianchi non è affatto soddisfatto di essere stato, in gran misura, accantonato nelle procedure di ricapitalizzazione (e privatizzazione) dell’Alitalia. Il Presidente del Consiglio, Romano Prodi, le ha avocate a se stesso. Ed ha anche inviato un proprio proconsole (Maurizio Prato) a mettere a punto gli elementi per la scelta finale nonché a dichiarare, in interviste, quali sono le sue preferenze riguardo ai due contendenti effettivi. A differenza di Prodi (e di Prado) è un esperto del settore: ingegnere, trasportista, ordinario di urbanistica e rettore, ben due volte, dell’Università del Mediterraneo, non si contenta dell’eco mediatico che ha avuto la sua proposta di autostrade del mare. Ha qualche carta da far pesare al momento delle decisioni sul futuro della compagnia. Una di queste è un lavoro recente, intitolato “Il mito dell’efficienza delle compagnie aeree”, di George Mickhail della Facoltà di Economia e Gestione Aziendale della Università d’Orlèans. E’ in corso di pubblicazione ma scaricabile da http://ssrn.com/abstract=1016103 ; né Prodi né Prato ne sono a conoscenza. L’analisi è spietata anche in quanto basata su una ricostruzione, secondo canoni uniformi, delle contabilità aziendali delle principali compagnie aeree tra il 1995 ed il 2005. Mickhail è un colbertiano di tendenze socialiste: la sua ricetta non è non minore ma maggiore intervento pubblico per fare sì che le compagnie aree abbiano una più elevata efficienza sociale; portando alle estreme conseguenze il suo ragionamento, Alitalia non dovrebbe essere privatizzata, ma lo Stato dovrebbe acquistare ciò che è adesso nelle mani di azionisti privati ed assicurare il buon andamento con misure amministrative. Bianchi sorride perché un’analisi analoga è stata appena prodotta dell’Istituto federale di studi sul lavoro- IZA Discussion Paper No. 2930. Ne è autore Barry T. Hirsch. La ricerca pone l’accento sugli effetti della forte sindacalizzazione delle compagnie aree- rimasta tale quando in altri settori l’iscrizione ai sindacati faceva marcia indietro. Vogliamo metterci contro i sindacati- azionisti di riferimento e pilastro di supporto del Governo?
A risultati simili giunge uno studio del Massachussetts Institute of Technology che analizza, sotto il profilo economico, la regolazione del settore negli Usa dal 1938 al 1978 e gli effetti di 28 anni di deregolazione. Ormai i nodi chiave sono la sostenibilità di utili altamente volatili, la congestione del traffico, la mancanza di investimenti in aeroporti e il potere dominante di un numero limitato di aviolinee. Quindi, buona regolazione. Meglio di mediocre privatizzazione.

IL CDA ALITALIA DECIDE MA IL GOVERNO TENTENNA

Dopo una camera di consiglio (il termine non può essere più appropriato) durata otto ore (chiara indicazione della cura con cui è stato esaminato il “dossier” e delle discussioni tra i componenti del CdA), l’organo di governo dell’Alitalia ha deciso a favorire della candidatura di AirFrance-Klm per le nozze per la dissestata aviolinea italiana. Su L’Occidentale del 17 dicembre è stato riportato un ampio sunto della vicenda relativa alla vendita della partecipazione dello Stato (49,9% del capitale sociale) di Alitalia. Nello stesso articolo venivano suggeriti possibili parametri di valutazione e criteri di scelta che avrebbero dovuto ispirare la decisione del CdA ed indicata una bibliografia tecnica aggiornata per approfondimenti. Tali suggerimenti venivano offerti perché l’autorità politica (il Governo Prodi), pur lanciando quotidianamente dichiarazioni – spesso contradditorie – sulla vicenda da oltre un anno, non ha mai fornito l’indirizzo che sarebbe stato suo dovere, prima ancora che suo diritto, dare al CdA al fine di guidarne le scelte operative. L’Occidentale si limitava a fare umilmente supplenza (senza avere alcuna pretesa di sostituirsi ai doveri ed ai diritti dell’Esecutivo) anche alle scopo di potere disporre di parametri e criteri per valutare la scelta del CdA.
Il primo parametro di valutazione veniva individuato nell’apporto di cassa o direttamente oppure tramite una scambio di azioni coniugato con un aumento di capitale; il secondo nella centralità internazionale, non regionale o nazionale, della rinnovata Alitalia; il terzo nella conformità alle regole italiane ed europee in termini di concorrenza. Nelle eventualità che ambedue i contendenti superassero esattamente nello stesso modo questi parametri di valutazione, i criteri di scelta avrebbero dovuto premiare la convenienza per i consumatori in termini di rotte e di tariffe e tenere conto degli aspetti occupazionali.
Dato che non si è tenuta né un’asta vera e propria né un beauty contest, si conoscono i contenuti delle offerte di AirFrance-Kml e di Airone esclusivamente tramite le sintesi riportate dai giornali. Sulla base di questa informativa (peraltro piuttosto ampia sulla stampa economica) ed in attesa che il management dell’Alitalia produca un documento ufficiale che illustri compiutamente il percorso che ha portato alla scelta, l’offerta AirFrance-Klm pare rispettare i parametri di valutazione indicati da L’Occidentale meglio di quella di Airone: comporta immediatamente cassa (di cui Alitalia ha urgente bisogno), pone il vettore (che mantiene il marchio) in posizione chiave nella maggiore partnership europea del settore (nonché in uno dei global player più significativi), sembra conforme alle regole italiane ed europee in materia di concorrenza (anche se su questo punto occorre ricordare che in questi giorni la Commissione Europea ha iniziato un accertamento nei confronti di AirFrance-Klm in tema di eventuale posizione dominante nel comparto dei cargo). Poco si sa delle specifiche in materia di rotte, tariffe ed occupazione anche se i lineamenti del piano industriale proposto da AirFrance-Klm sembra diano priorità a Fiumicino come terzo hub della partnership (insieme a Amsterdam e Parigi); ciò comporta, necessariamente, un nuovo progetto per Malpensa. E’ naturale che le Regioni del Nord esprimano preoccupazione: con una procedura più trasparente (quale un’asta vera e propria) si sarebbe disposto di informazioni che forse non ha neanche lo stesso CdA di Alitalia .
La decisione del CdA Alitalia non è la conclusione della vicenda. E’ soltanto l’inizio di quella che dovrebbe essere l’ultima fase dell’annoso tormentone. Nei prossimi giorni saranno disponibili – speriamo – maggiori e migliori dati tecnici, finanziari ed economici, man mano che la trattativa vera e propria tra Alitalia, da un lato, e AirFrance-Klm si sviluppa ed i suoi aspetti perdono carattere di riservatezza.
E’ verosimile, comunque, che Alitalia diventi una grana di non poco conto per Prodi &Co. nelle prime settimane di gennaio, in parallelo con la “verifica” dell’intero programma di governo. Sta infatti crescendo una forte opposizione , bi-partisan, alla scelta del CdA Alitalia, alimentata principalmente dai sindacati e dagli interessi, legittimi, che da alcuni lustri ruotano attorno a Malpensa.
Non spetta a L’Occidentale entrare in queste polemiche, anche e soprattutto perché non si dispone di dati essenziali per una valutazione tecnico-professionale delle varie posizioni. E’ essenziale, però, rivelarne i nodi politici. In primo luogo, il “grande elettore” di Prodi & Co. è stata la Triplice sindacale: la fase finale di una vicenda sgangherata e per molti aspetti opaca segna un solco ancora più forte di quelli degli ultimi mesi tra i sindacati e l’Esecutivo: lo sciopero del 28 gennaio sta assumendo tutti i lineamenti di un corteo funebre. In secondo luogo, il partito anti-AirFrance-Klm ha trovato i propri leader nel Vice Presidente del Consiglio Francesco Rutelli e nel Ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi. Le proteste, in nome della “romanità” del primo, lacerano sul nascere un Partito Democratico che già sta dando al proprio bacino elettorale una pessima immagine di soggetto politico frantumato da correnti. Il secondo non è mai stato un fautore della privatizzazione e – rivela proprio oggi un settimanale milanese – da bravo e coerente comunista crede il settore debba avere un forte intervento pubblico ed una rigorosa regolamentazione. In terzo luogo – e questo è l’aspetto più importante- l’Alitalia è una società quotata, guidata da persona scelta direttamente dal Presidente del Consiglio e con un CdA in cui il Governo ha propri rappresentanti. Nelle ultime settimane, Prodi (per calmare i suoi riottosi compagni di cordata) ha affermato più volte che la decisione finale spetta alla politica, inferendo che le scelte del CdA sarebbero mere prese di posizioni consultive. Non è quanto dicono i codici. Una volta formalizzata la decisione del CdA, smentirla aprirebbe un caso più grave dei casi Petroni e Speciale. Con possibili vertenze per danni che ricadrebbero sui singoli componenti dell’Esecutivo.
Potrebbe essere la bomba ad orologeria (metà gennaio 2008) per la deflagrazione finale di questo litigioso Esecutivo.

giovedì 20 dicembre 2007

SE ANCHE LA SPAGNA CI HA SUPERATO UN MOTIVO C’E’

Il sorpasso della Spagna (in termini di pil pro-capite) nei confronti dell’Italia – ed un possibile analogo sorpasso da parte della Grecia – vengono da lontano e potrebbero andare lontano. Così avrebbe detto Palmiro Togliatti. Ed una volta tanto - la prima e forse l’ultima- siamo d’accordo con Il Migliore.
Uno studio della Banca centrale europea, pubblicato a Francoforte a fine novembre in un’elegante copertina marrone ma ignorato dai media italiani (e quel che più conta dalla maggioranza impegnata a farsi doni di Natale, a spese di tutti, tramite la finanzia), stima all’1,3% l’anno il potenziale di crescita di lungo periodo dell’economia italiana rispetto al 2,2% l’anno per la media dell’intera area dell’euro. L’Europa dell’unione monetaria ha un potenziale basso di crescita a lungo termine rispetto al 3,2% l’anno stimato dalla Bce per gli Usa, al 2,8% del Canada ed al 2,5% della Gran Bretagna. All’interno dell’area dell’euro, corre la piccola Olanda al 2,8%, ma è superata da Paesi di media portata come Spagna e Grecia (ambedue al 3%) ed anche i due grandi, Francia e Germania, hanno un potenziale di crescita (di lungo periodo) leggermente superiore al 2% l’anno. L’Italia non è solo l’ultima ruota del carro nell’area dell’euro, ma sfigura pure di fronte al vecchio ed addormentato (da tre lustri) Impero del Sol Levante (il cui potenziale di crescita a lungo termine è stimato all’1,5% dallo studio econometrico Bce).
In linguaggio asettico, l’analisi specifica Bce afferma che le determinanti principali dei nostri guai sono il declino relativo della popolazione in età da lavoro, le modeste spese in ricerca e sviluppo e, quindi, il comparativamente basso tasso di produttività multifattoriale. Sono determinanti, quindi, ben differenti dall’alto stock di debito pubbliche che, secondo quanto dichiarato dal Presidente del Consiglio Romano Prodi, sarebbe all’origine dell’insoddisfacente andamento del sistema Italia e, quindi, del sorpasso. Senza dubbio, il debito pubblico limita i margini di manovra per tutte le politiche pubbliche (anche e soprattutto per quelle relative di crescita); tuttavia, il manuale di storia economica di Augusto Graziani (per decenni coerentemente collaterale alla sinistra radicale) individua nella fine degli Anni 70 (quando Prodi è stato componente dell’Esecutivo) l’inizio del rapido aumento del debito pubblico. E’ testo utilizzato da dieci anni nelle maggiori Università.
Sarebbe, però, almeno poco elegante addebitare alla prima esperienza di Governo dell’attuale Presidente del Consiglio non solo “la legge Prodi” (per il salvataggio, con i soldi di tutti, di aziende decotte) ma anche il sorpasso di oggi da parte della Spagna. La volata finale (quella che verosimilmente ci porrà pure dietro alla Grecia) è stato l’aumento fiscale che VVV (Viceministro Vincenzo Visco) ha chiesto al tecnico imprestato, temporaneamente, alla politica TPS (Tommaso Padoa Schioppa). Non lo diciamo noi ma una serie di studi internazionali, l’ultimo dei quali viene dalla lontana Università Internazionale della Florida. E’ un ateneo distinto e distante dai nostri problemi di bottega; VVV e TPS potrebbero seguire un seminario davvero speciale sugli effetti di tasse, imposte e tributi vari su crescita e sulla concorrenza fiscale sempre più serrata che ci viene fatta dai Paesi neocomunitari diventati nostri soci dell’Ue anche e soprattutto grazie alla frenetica attività di Romano Prodi quando presiedeva la Commissione Europea.
Inoltre, l’aumento del carico fiscale è stato accompagnato da un incremento vertiginoso della regolamentazione in materia di tutto e di più. Il Governo ha l’obbligo dalla fine degli Anni 90 di applicare l’Air (Analisi dell’impatto della regolazione) non per scopi accademici ma per trarne indicazioni operative. Sino ad ora pare siano stati condotte (ma non ancora pubblicate) analisi della regolamentazione in materia di frantoi, vivai e biscotti. Tralasciando temi davvero critici. Lo si è toccato con mano all’Internazional Regulatory Reform Conference (IRRC) organizzata dalla Bertelsmann Stiftung (una fondazione privata emanazione del gruppo editoriale): uno degli argomenti all’attenzione dell’IRRC è il ritardo relativo dell’Italia, e tra i Paesi Ocse e tra i Paesi Ue, in termini di modernizzazione della regolazione. Ce lo dice anche un lavoro recente della Banca Mondiale.
L’aumento delle tasse e della regolamentazione non hanno neanche portato a quella “pace sociale” promessa in campagna elettorale ostentando la Cgil come “king maker” della coalizione guidata (per così dire) da Romano Prodi. Da mesi quel resta della coalizione capitola anche di fronte a corporazioni che non ne riconoscono le ordinanze, ossia l’autorità e l’autorevolezza. E ci costringe ad una crescita rasoterra.

Riferimenti


Andres L. , Guasch J-L, Straub S. Do Regulation and Institutional Design Matter for Infrastructure Sector Performance?" World Bank Policy Research Working Paper No. 4378


Cahn C., Saint Guilhem A. “Potential Output Growth in Several Industrialised Countries: A Comparison" ECB Working Paper No. 828


Fisher E. “Risk Regulation and Administrative Costitutionalism” Hart Publishing, 2007

Graziani G. Lo Sviluppo dell’Economia Italiana- dalla ricostruzione alla moneta europea” Bollati Boringheri, 1998

Mcgee R. "Tax Burden in Transition Economies and the European Union: A
Comparative Study" Florida International University 2007

Nationaler Normenkontrollat Strengthening Cost Consciuosness for Better Regulation- Annual Report of the National Regulatory Control Council, Federal Republic of Germany

Nijsen A., Hudson J., Mueller Ch., Van Paridon K., Thurik R.“Business Regulations and Public Policy: the Costs and Benefits of Compliance“ Springer, 2007

L’INFLAZIONE E’ PIU’ RISCHIOSA SE I MERCATI SONO AMBIGUI

I rendimenti complessivi dei T-bonds decennali Usa sono scesi a meno del 3,8% l’anno, ossia a poco più di un terzo di un punto percentuale rispetto al tasso di aumento dei prezzi al consumo (3,5% l’anno). Il differenziale potrebbe ridursi ulteriormente in seguito alla decisione della Federal Reserve di ritoccare i tassi di riferimento ed all’intervento coordinato delle maggiori banche centrali per iniettare liquidità nel sistema. I rendimenti dei titoli di Stato a medio termine sono scesi, negli Usa, quattro volte in 35 anni al di sotto del tasso di aumento dei prezzi al consumo: dall’agosto 1973 all’agosto 1975, dal gennaio 1978 all’ottobre 1980, per pochi mesi nel 1981 e per un lasso di tempo ancora più breve nell’ottobre 200-novembre 2005. I primi tre episodi (specialmente i primi due, piuttosto duraturi) si sono verificati in una fase (come l’odierna) di forti e persistenti incrementi dei corsi delle materie prime (petrolio in primo luogo). Il quarto viene, in gran misura, correlato con i danni inferti all’uragano Katrina.
Da un lato, da ciò si può dedurre che siamo in una situazione analoga a quella degli Anni 70, caratterizzata da inflazione sempre più sostenuta e fluttuazioni sempre più significative dei cambi. Da un altro, c’è una novità rispetto ad allora: in seguito alle difficoltà della finanza strutturata con elevate componenti di subprime , nonché alla marcata decelerazione delle valorizzazioni immobiliari (ed in alcuni Stati degli Usa, in Germania ed in Giappone ad una riduzione dei prezzi dei beni al sole), molta liquidità si è riversata verso il mercato del reddito fisso in generale e di quello dei titoli di Stato in particolare; rendimenti reali nulli (od addirittura negativi) potrebbero creare tensioni in altri mercati, segnatamente nell’azionario. Un’analisi di John Campbell dell’Università di Harvard rileva che le tensioni potrebbero durare a lungo: dopo una fase più che decennale in cui l’”equity premium” (tradizionalmente inteso come premio di rischio che si attribuisce dell’azionario rispetto all’obbligazionario) è diminuito, dall’inizio del nuovo secolo sta aumentando progressivamente. Un lavoro del servizio studi del Fondo monetario (Fmi) esamina, con indicatori appropriati, l’andamento dell’”equity premium” in 53 mercati, sia sviluppati sia emergenti. Giunge alla conclusione che il “premio” non riflette solamente l’avversione al rischio (come si ritiene normalmente) ma anche l’avversione all’”ambiguità” dei singoli mercati (o, nelle piazze più avanzate e meglio integrate a livello internazionale, di segmenti di mercati, come potrebbe essere quello connesso all’immobiliare). L’analisi Fmi utilizza indicatori statistici della Banca mondiale per classificare l’”ambiguità istituzionale” (ossia assetti istituzionali poco chiari dei mercati finanziari). Lo studio empirico è stato concluso alcuni mesi fa, dunque, non esamina “l’ambiguità” delle regole che ha caratterizzato la finanza strutturata con alti elementi di subprime . Per analogia, si può dedurre che la trasmissione delle tensioni dall’obbligazionario all’azionario, nel contesto di questi ultimi mesi, potrebbe essere ancora più acuta – non solo Usa- che negli Anni 90.

martedì 18 dicembre 2007

MR.PREZZI PUO' RECARE PIU' DANNI CHE VANTAGGI

La legge finanziaria ci regala un Mr. Prezzi , come in gergo viene chiamato il "garante per la sorveglianza dei prezzi", un alto funzionario del Ministero dello Sviluppo Economico. Tutti sembrano contenti dell’idea: dalle associazioni dei consumatori a forze politiche sia della maggioranza sia dell’opposizione.
Il problema degli aumenti dei prezzi a tassi superiori a quelli attesi c’è: nell’area dell’euro l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (che secondo numerosi statistici sottostima il fenomeno) è cresciuto in novembre al 3,1% l’anno (il saggio più alto registrato dal 2001); negli Usa i prezzi al consumo sono aumentati dello 0,8% - un tasso annuo a due cifre, il più sostenuto dai tempi dell’uragano Katrina – nelle sole quattro settimane di novembre. I mercati obbligazionari ed altri indicatori sembrano dire che si sta tornando ad una situazione analoga a quella degli Anni 70: inflazione elevata e bassa crescita dell’economia reale.
Le determinanti sono, però, profondamente differenti da quelle di allora: non siamo alle prese con brusche variazioni delle ragioni di scambio e con il riassetto interno delle remunerazioni del lavoro e del capitale (come negli Anni 70) ma con un mutamento strutturale dell’economia mondiale. Ciò comporta – lo dice a tutto tondo l’ultimo rapporto Fao – la fine dei bassi costi delle derrate alimentari (dal 1850 al 1970 l’indice delle loro quotazione è aumentato appena del 50% per poi prendere un impennata che lo ha portato nel 2005 a superare di dieci volte il livello del 1850 ed all’ultima rilevazione di ben quindici volte). Questa determinante è più importante degli aumenti dei corsi del petrolio (cresciuti del 50% nel solo 2007). In tema di energia, c’è una gamma di alternative tecnologiche molto più ampia di quella in tema di produzione di cibo, la cui domanda è in rapida crescita poiché centinaia di milioni di persone stanno uscendo dalla miseria: mediamente un cinese mangiava 20 chili di carne l’anno nel 1985, oggi ne mangia 44 (e ci vogliono 8 chili di grano per produrne uno di carne).
Non sono certo le politiche di bilancio e della moneta dei singoli Paesi Ocse (anche ove concertate) a potere incidere su questo fenomeno. Ancor meno possono fare eventuali politiche dei redditi nazionali o conati di quelle “europee”; lasciamo la politica dei redditi “mondiale” (di cui alcuni concionano) ad Alice nel Paese delle Meraviglie. “Mr. Prezzi” è una politica dei redditi in surroga. Chi ne vestirà i panni sarà un malcapitato che avrà le funzioni di essere quello con cui prendersela. Se tenterà di introdurre controlli, potrà aggravare la situazione (con distorsioni dell’allocazione delle risorse), come provano tutte le esperienze del passato (soprattutto quella degli Usa nel 1971-73).
C’è una strategia alternativa: liberalizzare mercati (specialmente nei servizi) e ridurre regole (a quando i risultati dei tanti annunciati studi sull’impatto della regolazione?). Ma pare ostica a questo Governo e Parlamento.

lunedì 17 dicembre 2007

La rivincita delle provinciali, sulle note di Donizetti

Se l’opera rinascesse in provincia? Almeno quattro delle grandi fondazioni lirico-sinfoniche sono in ambasce così gravi che nella finanziaria il Governo ha incluso misure per salvare enti che si sono indebitati in modo tale che in base alla normativa vigente dovrebbero essere posti in liquidazione. All’insegna del motto, quanto peggio razzoli tanto più correremo in tuo aiuto. La Scala chiede una legge ad hoc per essere dichiarata teatro nazionale e potere pagare i propri dipendenti meglio di quanto fanno gli altri teatri (anche quelli stranieri di maggior prestigio). Ci sono stati scioperi. Ed altri se ne annunciano.
Tuttavia, ci sono iniziative poco notate ma ben promettenti. Nuovi circuiti che nascono per fare sinergie e esportare spettacoli (sul tipo della strategia dell’Helikon Opera di Mosca di cui abbiamo trattato il 2 dicembre). Una di queste iniziative è il circuito creato nelle Marche e che iniziando ad operare in queste settimane.
Occorre fare una premessa. Le Marche erano costituite da marchesati indipendenti, pur sotto il potere nominale del Papa Re, ciascuno geloso delle proprie prerogative. Quando, nel 1984, il Rossini Opera Festival (Rof) assurgeva a dimensione internazionale, venne proposto di affiancare le strutture di Pesaro (un teatro storico per 900 posti ed un auditorium per 400) con quelle di Fano (il magnifico Teatro della Fortuna) venne risposto che ciò era impossibile perché i Vescovi di Fano e Pesaro non si parlavano da oltre 400 anni. Indubbiamente, un’esagerazione , tale però da contrassegnare il clima di una Regione in cui Ancona viene ancora oggi considerata “il porto”, non “la capitale”.
Non sappiamo se essere costretti a fare economie abbia indotto i Vescovi di Fano e Pesaro a fare lunghe conversazioni. Ha, però, fatto sì che un gruppo di teatri , spesso rivali, si consorziassero in un circuito, la cui convenzione è stata appena siglata, e le cui attività inizieranno in autunno. I Teatri sono quelli di Ascoli Piceno, Fano, Fermo e Jesi (ed il circuito ha anche ramificazioni internazionale tramite accordi con Nizza, la lontana Baltimora ed i più vicini Balcani).
Si è partiti con una “Bohème” di giovani e per i giovani che in un nuovo allestimento, dopo il debutto a Treviso, è salpata da Jesi (11-14 ottobre), per andare a Fermo (20-21 ottobre) ed approdare infine a Venezia. C’è stato poi il “Werther” messo in scena a Nizza in gennaio (grande successo internazionale) e presentato a Jesi (29 ottobre-4 novembre) ed a Fermo (9-11 novembre). Infine “Lucia di Lammermoor” sarà in tutti i Teatri del circuito: a Jesi dal 29 novembre al 2 dicembre, a Treviso dal 7 al 9 dicembre, a Fermo il 15 ed il 16 dicembre, ad Ascoli il 22 dicembre. Sono in corso trattative per portarla a Baltimora, a Belgrado ed anche nella lontana Astanà. “Lucia” segna anche il ritorno sulle scene italiane di Valeria Esposito in un ruolo di coloratura (dopo una lunga assenza per ragioni famigliari, interrotta da brevi apparizioni) ed il debutto in Italia di Bűlent Bedzdüz, giovane tenore turco che, dopo una carriera sportiva, è un astro nascente della lirica europea (specialmente conteso in Francia, Germania e Spagna). L’allestimento di Italo Nunziata (regia) e Pasquale Grossi (scene e costumi) sposta il complicato intreccio di amori, tradimenti, tracolli finanziari, nozze per interessi e , soprattutto, pazzia dall’improbabile Scozia seicentesca ad un oppressivo mondo borghese in età giolittiana.
Delle varie versioni di “Lucia” in circolazione dalla seconda metà dell’Ottocento, ne viene seguita una che apre molti “tagli di tradizioni” (in alcuni casi pari ad un terzo della partitura originaria), principalmente nei ruoli maschili. Quindi, in linea con l’impianto originale, si svolgono due drammi paralleli: una tra i quattro uomini (Edgardo, Enrico, Arturo e Raimondo) e l’altra tra l’aspro mondo maschile (dove le donne sono oggetto di compravendita) e quello della fragile Lucia, tanto debole da diventare assassina e pazza non appena l’uomo a cui è stata venduta (Arturo) si abbassa i pantaloni per avere ciò che ha pagato. Spostare la vicenda all’Italietta giolittiana, è rende (quasi) attuale il dramma anche in quanto lo porta in epoca prossima all’inizio della psicoanalisi – e la pazzia, pur dominando il terzo atto, è presente sin dall’inizio del lavoro. Inoltre, l’allestimento è facilmente trasportabile (ed è a basso costo) in quanto i sette quadri vengono efficacemente resi da giochi di tendaggi e da un minimo di attrezzeria scenica. Un elemento importante per uno spettacolo pensato per tournée nazionali ed internazionali.
Sotto il profilo vocale, Valeria Esposito conferma di essere una professionista di livello che gestisce accortamente i propri mezzi per farli esplodere nell’applauditissima “scena della pazzia”. Conferme anche da Stefano Antonucci e Giovanni Furlanetto, due professionisti affermati. La vera scoperta è l’aitante (tanto scenicamente quanto vocalmente) Bűlent Bedzdüz: ampio registro, fraseggio perfetto, acuti e sovracuti da partitura (e non solo in quanto la scrittura donizettiana viene arricchita da variazioni) nonché dizione italiana impeccabile. In un mondo in cui i tenori sono merce rara, merita tenerlo d’occhio: ha le premesse per andare lontano.
La direzione musicale è affidata a Vito Clemente, uno dei giovani concertatori più lontani dall’Italia musical-salottiera e la cui carriera, quindi, si svolge specialmente all’estero. Ripristina alcuni aspetti persi negli anni: ad esempio, la cassa armonica suonata con bicchieri nella “scena della pazzia”. E’ accurato nell’assolo di arpa che precede il duetto del primo atto. Imprime, però, alla partitura un ritmo incalzante che a volte scende in eccessi (quasi bandistici) che piacciono al pubblico (in cerca di emozioni forti) ma disturbano gli orecchi più esperti. Nella tournée avrà modo di moderare un piglio a volte pesante.
16 Dicembre 2007 Commenta Email Condividi

ALITALIA: AIR FRANCE E TOTO ALL’ULTIMO ATTACCO

Domani 18 dicembre, il CdA di Alitalia dovrebbe varcare il Rubicone e schierarsi per uno dei contendenti alle nozze con la dissestata compagnia. Il condizionale è d’obbligo perché non sono da escludere ulteriori rinvii. Tanto più che lo stesso Presidente del Consiglio, Romano Prodi – dimenticando, forse, che Alitalia è da anni tenuta in vita con alimentazione artificiale e maschere di ossigeno – ha detto che non c’è fretta; con il tono consueto di parroco di campagna ha affermato che occorre operare “bene e seriamente”, ma senza l’assillo di scadenze che nessuno avrebbe fissato. Un’occhiata ai conti, tuttavia, suggerisce che o le nozze si fanno presto (e con una dote di cassa) o si portano i libri in tribunale per dare inizio ad una procedura fallimentare.
I contendenti dovrebbero essere due: AirFrance-Klm, da un lato, e Airone con vari gruppi bancari italiani ed internazionali, dall’altro. Pure in questo caso il condizionale è d’obbligo in quanto, all’ultim’ora, sono entrati ed usciti di scena altri potenziali o virtuali pretendenti alle nozze con Alitalia. Proprio come nelle “folle journée” de “L Nozze di Figaro” di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais , nota principalmente grazie all’adattamento in commedia in musica fattone da Lorenzo Da Ponte e Wolfgang A. Mozart.
Al pari della “folle journée”, l’intrigo si è fatto così complicato che per orientarsi occorre un brevissimo sunto delle puntate precedenti al fine di isolare le questioni principali oggi sul tappeto. Il 2 dicembre 2006, il Governo annunciò la privatizzazione (o meglio la cessione del 49,9% del pacchetto azionario di Alitalia ancora nelle mani del Ministero dell’Economia e delle Finanze) tramite un’asta. Quando il 29 dicembre venne pubblicato il bando ci si accorse che non si trattava affatto di un’asta (basata su un capitolato d’appalto dettagliato e chiari parametri di valutazione, nonché trasparenti criteri di scelta) ma di ciò che nel lessico si chiama un beauty contest, una gara per spogli successivi in cui fissati alcuni paletti (italianità e difesa dei livelli occupazionali) le preferenze della stazione appaltante vengono rivelate gradualmente man mano che si precisano i contenuti finanziari ed industriali delle offerte. Una dozzina di pretendenti si sono fatti avanti (uno, per propria ammissione, soltanto per burla- ossia per dimostrare quanto sfilacciata fosse la procedura). A poco a poco, se la sono data tutti a gambe, ivi compresa Airone (oggi considerata molto vicina al cuore di numerosi componenti del Governo, nonché dei sindacati).
Dichiarata fallito il beauty contest, si è cambiato sia il management della compagnia sia il metodo per vendere il 49.9% delle azioni (e se possibile cedere l’intera azienda tramite un’Opa totalitaria). Non si parla più né di asta né di beauty contest ma di trattativa – un metodo che Prodi ben conosce dai tempi dell’Iri , ed in particolare del primo tentativo di cessione della Sme. Si sono presentati una mezza dozzina di aspiranti: è rientrata in gioco Airone, ha mostrato di essere interessata la cordata AirFrance-Klm, che non aveva partecipato alla prima tornata. Altri pretendenti o sono stati trovati privi dei requisiti essenziali o sono scappati al momento di passare all’operatività (in breve, di mettere soldi sul piatto).
Era chiaro a tutti i partecipanti che le nozze di Alitalia non sarebbero state un matrimonio d’amore ma di interessi. Meno chiari, perché mai precisati, quali sarebbero stati i parametri di valutazione ed i criteri di scelta per individuale quello che Oscar Wilde avrebbe chiamato “il marito ideale”, per se sulla base di interessi . Dunque, la confusione (per essere gentili), il caos (per rappresentare correttamente la situazione) ed i tentativi di aggiotaggio (su cui sta indagando la Procura della Repubblica). Ancora meno chiaro chi dovrà prendere la decisione: se il CdA di Alitalia (come prescrivono i codici dato che si tratta di s.p.a. quotata), se il Governo (come affermano i Palazzi romani), se l’Esecutivo d’intesa con i sindacati (come sostengono le numerose sigle che contornano Alitalia), se Prodi in prima persona (come ha dichiarato in un paio di interviste).
Cerchiamo di definire noi de “L’Occidentale” alcuni parametri di valutazione e criteri di scelta, se non altro per orientarci nel fiume in piena di dichiarazioni di questo o di quello su offerte finanziarie e industriali di cui si conoscono, e vagamente, solamente i lineamenti.
Il primo parametro di valutazione dovrebbe essere l’apporto di cassa o direttamente oppure tramite una scambio di azioni coniugato con un aumento di capitale. Se non si è pronti a tirare fuori il contante, le nozze verranno celebrate con i fichi secchi e tra qualche mese si sarà ancora una volta alle soglie del fallimento. Se per i fiori in Chiesa ed il ricevimento si fa ricorso ad una forte leva finanziaria, le nozze di Alitalia sarebbero il prologo di una replica della vicenda dei vari passaggi di mano di Telecom Italia, croce e delizia delle cronache a cavallo tra due secoli, oppure di un pasticciaccio brutto analogo a quello di Enimont negli Anni 80. I parroci di campagna – lo ricordiamo al Presidente del Consiglio ed all’amministratore delegato da lui scelto per Alitalia, Maurizio Prato – sono come i loro parrocchiani contadini: si fidano quando toccano con mano il contante.
Il secondo parametro dovrebbe essere la centralità internazionale, non regionale o nazionale, della rinnovata Alitalia. “L’Occidentale” del 10 dicembre ha documentato come la teoria dei “campioni nazionali” non si applichi al trasporto aereo. Uno studio recente dell’Istituto Max Planck traccia un paragone eloquente con il gioco del calcio: una squadra vincente necessita sia di vecchie volpi che di giovani promesse. In questa ottica, i “campioni nazionali” valgono la candela unicamente se sono piloti in grado di guidare il gioco in una rete regionale, europea od internazionale (a seconda del mercato di riferimento)*. Sarebbe riduttivo far sì che l’Alitalia, non certo una giovane promessa, diventi un vettore italiano e al più europeo (grazie alle tutele in casa propria). Non è questione di orgoglio o prestigio; si finirebbe schiacciati tra low cost e global player dell’aviazione civile . Ritardando solo per qualche anno il redde rationem.
Il terzo criterio di valutazione dovrebbe essere la conformità alle regole italiane ed europee in termini di concorrenza. Anche ove l’antritrust nostrano non volesse alzare la voce (pur di vedere chiusa la partita), l’Italia non può permettersi una nuova vertenza con le autorità europee, in nome di Alitalia. Non tanto per aspetti di garbo ma per pura convenienza. Si sta riaprendo il fronte delle difficoltà (con gli altri Stati della zona dell’euro) in materia di conti pubblici. Abbiamo pendenze grandi e piccole in tema di aiuti di Stato. Veniamo accusati di non sapere utilizzare a pieno i fondi strutturali che vengono a noi conferiti. Già nella primavera del 2006, in occasione della ricapitalizzazione di Alitalia con garanzie statali, ci è stato detto a tutto tondo che sarebbe stata l’ultima volta. Informalmente, Bruxelles ha fatto sapere che ci sarà tolleranza zero in caso di posizioni dominanti in materie delle rotte più lucrose. Non soltanto verrebbero messi a repentaglio gli stessi principi ispiratori del mercato unico ma gli altri vettori europei (e non solo) ci aspettano al varco.
Se ambedue i corteggiatori superano esattamente nello stesso modo questi parametri di valutazione, i criteri per scegliere lo sposo dovrebbero premiare la convenienza per i consumatori in termini di rotte e di tariffe e tenere conto degli aspetti occupazionali.



*Falk O:, Heblich St. "Do We Need National Champions? If so, Do We Need a
Champions-Related Industrial Policy? An Evolutionary Perspective" Jena Economic Research Paper No. 2007-088

AIUTO! L’ALITALIA RISCHIA DI FINIRE SUI TIR

Non sono terminati gli strascichi del blocco dei Tir, e viene già minacciato uno stop, nel periodo natalizio, dei voli Alitalia (da parte di qualche sigla della galassia sindacale attorno ad un’aviolinea in rianimazione da anni). Tra i due fenomeni c’è un nesso più sottile dei particolarismi corporativi. La ragione di fondo è che l’Italia non ha una politica dei trasporti; quindi, i vari comparti del settore si muovono come schegge impazzite.
Nel lontano 1986, l’Italia ha approntato il piano generale dei trasporti allora considerato più avanzato al mondo; ne vennero tessute lodi al Congresso Scientifico dell’American Economic Association nel dicembre 1986; alla stesura aveva collaborato il Premio Nobel Leontieff e tutti i suoi allievi italiani, alcuni dei quali oggi in Parlamento. Il piano si sarebbe dovuto aggiornare ogni tre anni. In effetti, un aggiornamento vero e proprio è stato effettuato soltanto nel 2001-2002. Lo ha detto lo stesso Ministro Alessandro Bianchi in una conferenza all’Università Roma Tre l’8 novembre 2007, precisando che senza tale aggiornamento non sarebbe stata possibile la Legge Obiettivo e che un ulteriore aggiornamento (al 2020) sarebbe stato presentato da lì a pochi mesi. A quel che è dato di sapere siamo ancora ai prolegomeni. Speriamo di essere smentiti e che un piano di qualità internazionale appaia sul tavolo del prossimo Consiglio dei Ministri.
Nel contempo, mentre si sognano “le autostrade del mare”, è stato bloccato il potenziamento del traffico ferroviario (fermando o frenando il quadruplicamento di assi come Milano-Verona, Milano-Genova, Verona-Padova e l’alta velocità Torino-Lione). Le ferrovie, pur se malconce, sono l’unica alternativa ad un trasporto su gomma altamente inquinante e tramite micro-aziende (con mediamente meno di tre addetti ciascuna). Per quanto riguarda il vettore aereo, dopo avere messo in atto tutto l’accanimento terapeutico consentito dall’Ue, ci si è incartati in un processo di privatizzazione che all’estero desta ilarità ma da noi dovrebbe fare piangere. Si è promessa un’asta, ma si è invece lanciato (come rivelato da Il Tempo il 31 gennaio scorso) un beauty contest (sperando di avere così mano libera). Tutti i potenziali contendenti si sono poco a poco sfilati tanto che AZ pareva l’acronimo di Air Zitella. E’, quindi, iniziata, sostanzialmente, una trattativa privata, assistendo pure al rientro di chi al beauty contest se la era data. Con due concorrenti in lizza (ma ne sbucano ed escono altri quasi ogni giorno), Prodi invoca “vinca il più bravo!”. Mancando il contesto da cui ricavare parametri di valutazione e criteri di scelta oggettivi e trasparenti (per l’appunto un piano generale dei trasporti), Alitalia rischia di finire su un Tir di polemiche partitiche e particolaristiche. Sino a quando, sarà terminato quel po’ di ossigeno ancora in cassa.

sabato 15 dicembre 2007

MUSSI PREFERISCE L’UNIVERSITA’ALLA BORSA

Nei suoi sogni, il Ministro dell’Università e della Ricerca, Fabio Mussi crede di essere a Friburgo, sui testi di Theodor Adorno. Ah, les beax jours! Adesso è alle prese con un sistema universitario attaccato tanto da dentro quanto da fuori. Pochi si rendono conto che l’istruzione universitaria rende più della Borsa (anche se i rendimenti risultano maggiori ai datori di lavoro dei laureati che a chi ha faticato per completare il ciclo universitario): per i primi il tasso di rendimento finanziario è il 18%, per i secondi il 10% circa – ritorni comunque di tutto rispetto. Lo documenta un’analisi dell’Istituto di Studi sul Lavoro tedesco (IZA Discussion Paper No. 3058) di cui sono autori Justin van der Sluis, Mrjam van Praag e Aaren van Wittleloostujin su dati della Repubblica federale e dei Paesi Bassi.
Lo rincuora anche un lavoro di Tommaso Agasisti del Dipartimento di Ingegneria, Economia e Gestione del Politecnico di Milano e di Carmen Pérez Esparrells in cui si raffronta l’efficienza delle università italiane e spagnole. Contrariamente alle geremiadi di rettori, professori, studenti, genitori (e congiunti vari), lo studio dimostra un buon grado di efficienza in ambedue i Paesi ma con un tasso migliore nelle Università italiana che in quelle spagnole. Conclusione che dovrebbe essere divulgata nonostante il muro di maldicenze (contro le università) della stampa nostrana. Il miglioramento dell’efficienza delle università italiana dipende, secondo il lavoro, dal “cambiamento tecnologico” effettuato dai nostri atenei- con la frase si intende la tanto vituperata struttura 3 + 2 . In ambedue i Paesi ci sono, però, marcate differenze regionali.
Come superarle? Un saggio di Robert Schwager del Centro di Ricerca Economica Europea (Zew) della Università di Magdeburgo (il quaderno di ricerca Zew n. 07-056, disponibile in inglese oltre che in tedesco) lo riporta ancora una volta agli anni di Friburgo, quando lo studio di Adorno comportava anche conoscenze di alta matematica applicata). Schwager propone un modello di competizione tra università pubbliche: le rette riflettano la qualità (e la reputazione) dei differenti atenei e le università competano per due categorie di studenti: quelli “immobili” (che vogliono restare sottocasa) e quelli “mobili” (pronti a spostarsi). Il modello mostra come si potrebbe coniugare efficienza con equità (pur mantenendo il sistema interamente nelle mani pubbliche)..
Un’altra idea viene dalle Fiandre. La analizzano Stjin Kelchtermans e Frank Verboven (Università Cattolica di Lovanio) in una ricerca su come migliorare l’efficienza interna “riducendo la diversità del prodotto delle Università”, in breve concentrando i corsi . Nel Belgio un sistema di incentivi porta a risparmi nei costi fissi ma può essere non desiderabile sotto il profilo sociale se gli studenti non sono pronti a spostarsi da una città ad un'altra Suggerimenti su cui lavorare per la prossima finanziaria. Se saremo ancora nel Palazzo, pensa il Ministro.
Ex Libris

METTI CHE LA RAI DAVVERO DIVENTASSE DI TUTTI E DI PIU’ DA IL DOMENICALE 14 DICEMBRE

Privatizzare la Rai – argomento lanciato con forza alcune settimane fa dal “Dom” – è una missione coraggiosa ma non impossibile. Nella situazione attuale – è vero – la Rai avrebbe difficoltà a trovare altri acquirenti che non fossero la Croce Rossa, la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas o simili (sempre che la avessero a prezzo zero e con mani libere nel rimettere in sesto ciò che resta di un’azienda per decenni in monopolio e desiderosa di tornare ad essere la sola del settore in Italia, in Europa e – perché no?- nell’universo mondo).
Un modo, però, c’è. Occorre utilizzare immaginazione, esperienza e fegato. Il primo passo può sembrare bizzarro: collegare la privatizzazione della Rai alla nascita di una vera previdenza complementare per gli italiani. Il secondo consiste nel renderla una vera public company . Il Presidente del Consiglio Romano Prodi tanto si è speso per il secondo pilastro previdenziale e per le public company che dovrebbe esserne lieto. C’è un precedente importante: il modo in cui sono state realizzate le privatizzazioni ed i fondi pensioni in Bolivia negli Anni Novanta, seguendo i suggerimenti di Steve H. Hanke, Direttore del Centro di Economia Applicata della Università Johns Hopkins di Baltimore e Senior Fellow del Cato Institute.
In pratica, ciò vuol dire dare azioni Rai a tutti gli italiani. Seguendo quale metodo? Uno semplicissimo: l’età anagrafica, quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Santoro, Baudo e quant’altro), avendo, dunque, titolo ad un risarcimento con azioni da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo – ad esempio, cinque anni – a non essere poste sul mercato ma ad essere destinate ad un fondo pensione aperto (ed ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato il quale, però, manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: pareggio di bilancio. Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riesce sarebbe passabile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, se l’indebitamento supera certi parametri la liquidazione diventerebbe obbligatoria.
Ed il “servizio pubblico”? Nell’età della rete delle reti, ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro-informazione pullulano – tanto generalisti quanto specializzati. Non siamo più ai tempi dell’Eiar , anche se il Partito Rai vorrebbe tornare al passato, come la protagonista del film “Good bye, Lenin”.
E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In secondo, si potrebbe prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor.
E’ un miraggio? No. E’ la modernizzazione, bellezza!