Il comitato congiunto Banca centrale europea (Bce)- Banca centrale cinese (Bcc) potrebbe smentire i numerosi commentatori secondo cui la maxi-delegazione europea in trasferta a Pechino sarebbe tornata nel Vecchio Continente a mani (quasi) vuote. E smentirebbe pure la “teoria dei comitati” di Daniel Bell secondo la quale quando non si è in grado di trovare una soluzione si insedia un comitato (allo scopo di gettare fumo negli occhi). Ma questa volta il comitato potrebbe avere successo. Il che vorrebbe dire dare vita inaugurare una diplomazia trilaterale, quindi un coordinamento delle politiche monetaria sull’euro, sullo yuan e sul dollaro.
Ci sono aspetti politici ed economici che giocano in favore di una conclusione positiva delle negoziazioni. I primi sono i meno apparenti per chi non conosce la cultura e le tradizioni cinesi. Tanto la Cina imperiale quanto la Cina di Hu Jintao (Presidente della Repubblica Popolare e Segretario del Partito Comunista cinese) si considerano, a ragione, una civiltà molto antica (con radici molto profonde). Accetta, quindi, il dialogo con una civiltà relativamente antica come quello che negli Usa viene chiamato il Vecchio Continente. Il Paese di Mezzo ha serie difficoltà a mettersi sullo stesso piano degli americani, pur rendendosi conto del loro peso economico, finanziario e militare. Li considera un popolo di nuovi ricchi. Il fattore ha più importanza di quanto non si creda. Henry Kissinger raconta che riuscì a portare Richard Nixon in Cina a ragione del proprio forte accento tedesco (poiché era sbarcato a New York a 15 anni) per il quale le suo controparti del Nuovo Impero non lo consideravano alla stregua degli altri “yankees”.
Chiara che non è soltanto una questione di accento. Una delle ragioni che finora hanno spinto la Cina a non toccare che debolmente il valore internazionale dello yuan è stato il timore che un apprezzamento della valuta contrarrebbe una crescita economica che galoppa al 10% l’anno. Un’analisi di Jianhai Shi dell’Università di Pechino (stretto collaboratore della Bcc) non solo smentisce questa ipotesi ma sostiene che, se si tiene conto dei flussi finanziari internazionali da e verso la Cina, un apprezzamento della moneta avrebbe effetti trascurabili (e molto minori di quelli dei movimenti dei tassi d’interesse Usa) su produzione e occupazione nella Repubblica popolare. Un’altra analisi all’attenzione della Bcc viene dalla Ucla (Università delle California a Los Angeles) tradizionalmente molto attenta ad economia reale e finanziaria nel bacino del Pacifico; ne è autore Sebastian Edwards, a lungo in Banca Mondiale. La conclusione è l’esigenza di forti riallineamenti dei cambi (ad una riduzione dell’attivo commerciale della Cina) per mettere ordine negli squilibri dell’economia internazionale. Una notazione interessante viene da uno studio tedesco (tra le carte della delegazione Bce al tavolo del dialogo con la Bcc): la politica valutaria cinese ha molti punti in comune con quella dell’Europa degli Anni 70 ed 80 (principalmente poca chiarezza in materia di priorità tra molteplici obiettivi e strategie): ciò è controproducente, in primo luogo, proprio per la Cina. Nessuno di questi lavori fornisce indicazioni puntuali di quanto dovrebbe essere la rivalutazione: è l’oggetto del tavolo Bce-Bcc . Le decisioni potrebbe essere accelerate dai timori di un crollo del dollaro e delle loro implicazioni sulle riserve della Bcc.
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