martedì 30 novembre 2010

SIESTA MADRILENA in Il Foglio primo dicembre

SIESTA MADRILENA
Giuseppe Pennisi
Lo spread tra i titoli di Stato decennali spagnoli ed i bund tedeschi ha raggiunto il massimo storico di 311 punti di base.Secondo quanto riferito dal Ministro dello Sviluppo Economico, Paolo Romani, Silvio Berlusconi avrebbe commentato la notizia , durante il CdM, sottolineando che il dato mostra che la Spagna “sta peggio di noi”. Eppure il dato cruciale di finanza pubblica spagnola non pare tale da terrorizzare i mercati: lo stock di debito pubblico rispetto al Pil sfiora il 70 percento (mentre quello dell’Italia è sul 116 per cento). Tuttavia, il deficit d’esercizio minaccia di toccare il 10 per cento nel 2010 (rispetto al 5 percento dell’Italia) Di questo passo, lo stock tra debito pubblico e Pil arriverà, secondo l’Economist Intelligence Unit al 90 per cento del Pil nel 2013 (mentre era appena il 38 per cento nel 2007). La tendenza fa tremare le piazze..
C’è molto di più di questi dati come rivela un rapporto del Banco de España, la banca centrale spagnola, diramato ieri in versione Il documento ha il crisma del servizio studi dell’istituto che, a sua volta, lo ha commissionato a Cesar Alonso Borrego della Università Carlos III di Madrid.
La ricerca scava nelle determinanti di economia reale che hanno reso la Spagna molto fragile. In particolare, l’analisi esamina l’andamento della produttività e della competitività nel periodo 1983-2006 – ossia da quando il Paese stava per entrare in quella che ora è la UE (l’ingresso avvenne il primo gennaio 1986) alla vigilia della crisi finanziaria (un 2006 euforico in cui il Governo Zapatero mostrava i muscoli).
Il lavoro documenta quali sono i fattori determinanti di economia reale che hanno causato, dalla nascita dell’euro (ossia negli ultimi dieci anni) un aumento dell’85 per cento del disavanzo dei conti con l’estero. La perdita di quote di mercato internazionale è ha radici in politiche industriali e del lavoro che hanno funzionato come un boomerang, concludono gli autori: avevano l’obiettivo di rendere la Spagna più produttiva e più competitiva ma la hanno appesantita ed infiacchita.
L’analisi pone in primo luogo l’accento sulla politica del lavoro, che negli Anni Ottanta e Novanta ha destato attenzione (ed anche ammirazione) in diversi Paesi UE per la flessibilità di una regolazione minima. Lo studio afferma che “l’alta percentuale di lavoratori a termine ed interinali ha ridotto la produttività sia nel manifatturiero sia nei servizi, anzi specialmente nei servizi che hanno utilizzato tali tipologie di rapporti di lavoro come la norma”; hanno inciso negativamente sulla fidelizzazione dei lavoratori alle imprese e hanno frenato incentivi a migliorarsi tramite la formazione. Lo studio rileva gli effetti tutt’altro che positivi della regolazione- spesso di competenza di enti locali - su prodotti e servizi intermedi - quali quelli pubblici locali- poiché rappresenta un costo pesante aggiuntivo sulla produzione dell’output finale. L’analisi è severa nei confronti dell’outsourcing : i servizi trasferiti al di fuori dell’azienda manifatturiera sovente finiscono in comparti protetti e dove la concorrenza è limitata. Interessante notare che la Germania ha seguito la strategia opposta: integrare i servizi nel manifatturiero per aumentare la catena del valore ed il grado d’internazionalizzazione.
L’analisi non fa riferimento ad un aspetto essenziale: avere ritardato di venti anni (con poche eccezioni quali l’istituzione del Politecnico di Barcellona) la riforma dell’Istruzione e dell’Università messa a punto con Unesco e Banca Mondiale all’inizio degli Anni Settanta. Un ritardo nella formazione di capitale umano che pesa ancora.

lunedì 29 novembre 2010

Lirica, il “Moise” che darà la svolta al Teatro dell’Opera di Roma Il Velino 29 Novembre

Il Velino presenta, in esclusiva per gli abbonati, le notizie via via che vengono inserite.

CLT - Lirica, il “Moise” che darà la svolta al Teatro dell’Opera di Roma


Roma, 29 nov (Il Velino) - Il “Moïse et Pharaon” di Gioacchino Rossini, con cui quest’anno viene inaugurata la stagione lirica del Teatro dell’Opera di Roma, dovrebbe dare la svolta a una fondazione da molti anni poco radicata nella Capitale e afflitta da difficoltà finanziarie. Si sono impegnati in tal senso tanto il sindaco Gianni Alemanno quanto il nuovo management dell’istituzione. La serata inaugurale è il 2 dicembre, ma è preceduta il 30 novembre da un’anteprima di beneficienza a favore della Comunità di Sant’Egidio. La direzione musicale dell’opera è stata affidata al maestro Riccardo Muti il quale, pur non assumendo un incarico formale, si è impegnato a tenere un occhio vigile sul teatro lirico della città. Il cast è molto simile a quello che ha avuto successo nel 2009 a Salisburgo. Allora in buca Muti concertava i Wiener Philarmoniker e il coro era quello dell’Opera di Vienna. Essenziale l’allestimento atemporale di Jurgen Flimm che accentuava i contrasti politico-religiosi più che l’intreccio d’amore. Al Teatro dell’Opera verrà presentata l’edizione francese integrale nella partitura dell’editore Troupenas. Una novità per Roma, dove l’opera non è stata messa in scena nell’originale ma, o è stato rappresentato più volte il rossiniano “Mosé in Egitto”, concepito per Napoli (non per Parigi) e di alcuni anni precedente al rifacimento e all’ adattamento per la Francia, oppure una versione “mista” delle due opere, in italiano, seguendo la prassi della prima metà del secolo scorso.

Muti preferisce la versione francese che ha già concertato, oltre che a Salisburgo, per l’inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala (allora agli Arcimboldi) nel 2003, in quanto promotrice di quello che sarebbe stato il teatro in musica europeo (non solo italiano) dell’Ottocento. “Moïse et Pharaon”, in tal senso, può essere considerata tra le opere davvero europee di Rossini, quelle che lo consacrano come musicista di grande impatto su tutte le scuole del continente. L’edizione Truoupenas è stata eseguita altre volte. Oltre a numerose esecuzioni in concerto, se ne ricordano quelle dirette da Sarah Caldwell a Boston e Philadelphia negli anni Settanta e quella, diretta dall’allora giovanissimo Vladimir Jurowski, a Pesaro nel 1997. L’edizione presentata da Muti alla Scala non era filologica: tagliava il “cantico” di ringraziamento finale (mentre, per ragioni di durata complessiva dello spettacolo, si sarebbe potuto molto più saggiamente sforbiciare, in tutto o in parte, il balletto del terzo atto). In secondo luogo, “Moïse” è opera importante per l’afflato e l’impatto “europeo”, ma non è uno dei veri capolavori rossiniani. Così come “Le siège de Corinthe” è una pallida copia del “Maometto II” napoletano, “Moïse” mostra una vena stanca rispetto al di gran lunga superiore, sotto il profilo sia drammaturgico sia musicale, “Mosé in Egitto”, anch’esso partenopeo. All’epoca del “Moise”, Rossini aveva 35 anni, ma era già affaticato da una vita artistica troppo veloce, afflitto dalla morte della madre (a cui era attaccato morbosamente), in preda ai prodromi dell’ipocondria che lo avrebbe tormentato per almeno due lustri, alla ricerca di nuovi percorsi. “Le conte Ory”, opera erotica di un 36enne pieno di brio e “Guillaume Tell”, capolavoro lanciato verso l’avvenire, tracciarono, però, il solco verso il futuro. Dopodiché, a 37 anni, si mise di fatto e di diritto in pensione e ci restò per circa un quarantennio.

Tutto ciò che nel “Mosé” era compatto (e perciò efficace), in “Moïse” viene dilatato, a momenti strascicato. La mirabile scena iniziale viene annacquata e trasportata al secondo atto. L’intreccio amoroso acquista, inutilmente, preminenza. Una sola innovazione di rilievo: come in “Le Siège” e in linea con l’usanza francese dell’epoca, il popolo (e quindi il coro) diventa protagonista, anticipando il “Guillame Tell” ma rendendo ancora più monocorde la figura del comandante supremo degli ebrei. Però, l’orchestrazione è di raro spessore (ai livelli del mozartiano’”Idomeneo” di undici anni prima e ben più raffinata del “Mosè” napoletano). Questa, con la ricchezza delle parti corali (vere protagoniste dell’opera), è probabilmente una delle determinanti che affascinano Muti e che toccheranno il cuore del pubblico. Nel 2003 Muti presentò alla Scala un’edizione di lusso. Accurata, e tradizionale, la regia di Luco Ronconi in un Egitto stilizzato e dominato da un immenso organo (scene di Carlo Diappi e costumi e costumi di Gianni Quaranta). L’orchestra svelò sfumature magiche, grazie alla bacchetta di Muti, che allargò ieraticamente i tempi (195 minuti senza il “cantico” finale rispetto ai 184 di Jurowski che invece lo include). Nel cast vocale, la palma andava a Giuseppe Filianoti, che nei panni e nella passione di Aménophis, si rivelò come uno dei migliori e più duttili tenori della giovane generazione e a Sonia Ganassi, una Sinaïde al tempo stesso dolce e feroce). Barbara Frittoli superò egregiamente le difficoltà dell’aria finale di Anaï. Erwin Schott era un Pharaon tutto d’un pezzo. Tutto d’un pezzo anche il Moïse di Ildar Abdrazakov, il giovane basso russo che, dopo il debutto a Pesaro nel 2000 è diventato una delle star dei teatri italiani. I punti di forza dell’edizione di Salisburgo, a parte l’ouverture, furono le grandi scene corali o gli ensemble, come l’inizio dell’atto II ( la cosiddetta scena delle Tenebre ), la successiva grande preghiera di Moise, “O toi dont la clémence”, oppure quella al IV atto, “Des cieux où tu résides ”, o il finale dell’opera, con la cavalcata dei cavalieri egiziani travolti dalle onde del Mar Rosso. Muti nulla ha tolto alla solenne monumentalità di queste pagine di Rossini, assecondandone e amplificandone l’aspetto mistico o descrittivo, ora con tempi larghi e cantabili, ora con grandiosa drammaticità (finale), mentre le arie sono state accompagnate con il vigore tragico di sempre (scena di Sinaïde, scena di Anaï) finalmente prive delle nevrosi e degli scatti furibondi che avevano caratterizzato gli accompagnamenti dell’edizione di Milano. In generale, però, il cast vocale fu meno brillante che nel 2003 a Milano.

(Hans Sachs) 29 nov 2010 12:46

venerdì 26 novembre 2010

Roma, l'opera da camera è in stile British Milano Finanza 27 novembre

Roma, l'opera da camera è in stile British
di Giuseppe Pennisi


Un'esilarante commedia di 40 anni fa era intitolata No Sex, Please, We are British e raccontava di un impiegato di banca travolto da materiale pornografico per aver incautamente risposto a un annuncio pubblicitario. Ora, le due ultime opere da camera giunte dalla Gran Bretagna, ossia Powder her face di Thomas Adès, in scena a Bologna, Lugo e altrove in Emilia e For you di Ian McEwan e Michael Berkeley, il cui tour in Italia ha debuttato a Roma il 25 novembre, invertono la tendenza.
Le opere trattano infatti di letto e lenzuola, di amore e sesso. Mentre Powder her face ha già completato il tour italiano, For you è ancora in scena e sorprende. Mc Ewan è uno degli scrittori britannici di maggior successo e Berkeley il suo compositore preferito. La vicenda riguarda un ricco e famoso compositore e direttore d'orchestra sciupafemmine, anche se ancorato all'amore per la propria moglie, uccisa dalla sua ultima innamorata, la cameriera polacca. È un'opera concisa e arguta. McEwan infilza i protagonisti di questa storia d'umorismo nero col suo stile stringato. La tavolozza musicale è fatta di febbrile cromatismo, ostinati carichi di suspense e linee vocali violente ma cantabili. Semplice ma efficace l'allestimento di Pamela Hunter e Andreas Becker. Buoni i sei cantanti. Puntuale Vittorio Parisi alla guida della Ensemble Roma Sinfonietta. (riproduzione riservata)

Ma non possiamo rischiare un "8 settembre" economico in Ffwebmagazine del 26 novembre

L'INTERVENTO


Anche le previsioni del ministero dell'Economia destano preoccupazione
Ma non possiamo rischiare
un "8 settembre" economico
di Giuseppe Pennisi Le vicende degli ultimi giorni sembrano indicare che si sta andando in vario modo verso quello che Il Foglio di Giuliano Ferrara ha acutamente definito “un 25 luglio”, ossia la fine, dopo un po’ più di tre lustri, della centralità di Silvio Berlusconi nel sistema politico italiano. Non è detto che ciò avverrà necessariamente il 14 dicembre, ma anche se il Governo otterrà la fiducia il processo di smottamento in atto pare, ai politologi, irreversibile. Lascio naturalmente a loro le analisi in proposito.
Da semplice economista, la mia preoccupazione centrale è che un 25 luglio politico non sia seguito da un 8 settembre economico – un “tutti a casa” proprio in una fase in cui l’economia internazionale trema, le monete traballano , i soccorsi vengono destinati a questo o a quello e le prospettive dell’economia italiana non sono le migliori.
Sul webmagazine del 18 novembre abbiamo ricordato i punti salienti delle difficoltà dell’economia italiane sulla base dell’Economic Outlook dell’Ocse. Da allora si sono aggiunti altri documenti che suscitano timore e tremore: il Global Outlook dell’Istituto Affari Internazionali e previsioni interne del Ministero dell’Economia e delle finanze. Il primo tratteggia una lunga fase di aggiustamento dell’economia mondiale in cui i Paesi detti “emergenti” acquisteranno progressivamente maggiori quote del mercato internazionale (a spese di esportatori tradizionali come l’Italia); è una fase tanto più difficile in quanto il finanziamento degli squilibri dei conti con l’estero nell’area Atlantica e tra Usa e Oriente premono al ribasso la domanda aggregata e poiché ci sono segni sempre più concreti di sfaldamento del Sistema monetario internazionale e di ritorno a forme aggressive di protezionismo.
Le previsioni interne del Ministero dell’Economia e delle finanze sono eloquenti: nell’ipotesi che l’economia italiana torni su un percorso di crescita lento ma continuo (1,5%-2% l’anno) per essere in linea con i trattati dell’Unione monetaria come rivisti in queste settimane, è necessario un saldo primario di cassa pari al 5% del Pil per i prossimi dieci-quindici anni. I mercati lo sanno: se la barra non è dritta, o se lo è ma imperversa il disagio sociale (con relativamente manifestazioni di piazza), gli operatori internazionali potranno prendere di mira i titoli italiani, tornando a una situazione analoga a quella dell’estate autunno 1992.
Una “vacatio” politica - con un lungo percorso verso nuovi assetti di governo contrappuntato da campagne elettorali, urne, e alcuni mesi per la formazione di un nuovo esecutivo - potrebbe accelerare e aggravare gli aspetti negativi di questo quadro. E trasformare lo spettro di un 8 settembre economico, un’amara realtà per tutti gli italiani.
Agli occhi di un economista, la strada sensata dovrebbe essere quella di un ampliamento della maggioranza e un rilancio dell’azione di governo alla luce della situazione interna o internazionale attuale. Oppure come nell’Olanda della prima metà degli Anni Ottanta un Governo arcobaleno – ossia di tutte le forze politiche volenterose (al di là delle etichette) e decise a evitare quello che potrebbe essere un baratro.

26 novembre 2010

giovedì 25 novembre 2010

Perché i campioni nazionali del futuro parleranno spagnolo Il Foglio 25 novembre

Perché i campioni nazionali del futuro parleranno spagnolo
Chi saranno i campioni nazionali del futuro? E chi li finanzierà? Non si tratta di conglomerati industriali (fabbriche e ciminiere) o di finanziarie “troppo-grandi-da-poter-fallire” con gnomi di Zurigo o di Singapore annidati in varie parte del mondo nel “gran casinò” dei tassi di cambio. Ma di gambe e muscoli da conquistare a suon di valuta pregiata.

Il tema è stato sviscerato da Javier Santiso che, con in tasca due passaporti (spagnolo e francese), è stato a lungo direttore del paludato Centro per lo Sviluppo dell’Ocse, dopo un periodo da enfant prodige a Telefònica prima di approdare alla maggiore Business School di Barcelona, dove guida il dipartimento di Economia internazionale e geopolitica. In un saggio in corso di pubblicazione, Santiso prende l’avvio da una constatazione: il ciclista spagnolo Alberto Contador ha vinto il Tour de France per la seconda volta nel 2010, soprattutto in quanto la squadra aveva le spalle robuste poiché finanziata da Samruk-Kazina, il fondo sovrano del ricco Kazakhtan, e dotata quindi di tutto il supporto tecnico-logistico più moderno.

Uno dei fondi sovrani cinesi (il CIC) starebbe per rilevare la squadra di calcio del Liverpool; d’altronde, già adesso fondi russi e medio-orientali sono azionisti di varie squadre della Premier League. Attenzione, Samrurk-Kazina ha concorrenti: si starebbe risvegliando l’interesse per il Liverpool (e per il Newcastle) del fondo sovrano degli Emirati, il Dubai International Capital, che aveva già tentato un’Opa prima della crisi 2008-2009 e ha nel proprio portafoglio azioni del Milan, dell’Olympiakos, dell’Amburgo, dell’Arsenal e del Paris Saint Germain – in breve un bel giardinetto di squadre di calcio. Il fondo sovrano libico punta, naturaliter, sulla Juventus (è da tempo azionista della Fiat e di Unicredit). Dal canto loro, gli oligarchi russi controllano la Zenit di San Pietroburgo, ma fanno sentire la loro voce (ossia i loro denari) nella tedesca Scjalke04; grazie alla Grazprom, Raul ha lasciato il Real Madrid e firmato un ingaggio quadriennale con Schalke04. Un altro nuovo ricco, il fondo della coreana Samsung, ha investito 14 milioni di dollari nel Chelsea controllato dal russo Roman Abramovich.

E’ un mercato molto dinamico: l’analisi di Javier Santiso conferma un’intuizione di Xavier Sala i Martin (altro economista di rango) il quale alcuni anni fa sottolineò come la finanza dei paesi emergenti cerca “simboli” che certifichino come i governi dei paesi in questione sono non solo alla pari ma anche superiori agli altri: le Olimpiadi in Cina – argomentò anni fa Xavier Sala i Martin – sono state una prova consistente del “miracolo economico” del Celeste Impero come quelle a Roma nel 1960 furono la dimostrazione di quello italiano.

Quale traiettoria per il futuro? Lo studio della Deloittle sull’economia e le finanze delle squadre di calcio europee nel 2010 sottolinea che quelle spagnole sono l’investimento potenzialmente migliore: si possono controllare a costi comparativamente contenuti e hanno calciatori e capitani tra i migliori del mondo. Si sussurra di una gara tra Adia (il fondo sovrano di Abu Dhabi) e Temasek (quello di Singapore) per conquistare il Real Madrid. Starebbe entrare alla grande nel settore (con il cannocchiale puntato sulla Spagna ed i suoi stadi) il maggior fondo cinese, Safe. E' probabile che i campioni del futuro parleranno castiliano.

© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi

mercoledì 24 novembre 2010

Col porno-soft torna di moda l’opera da camera (da letto) Il Velino 24 novembre

CLT - Musica/ Col porno-soft torna di moda l’opera da camera (da letto)
Roma, 24 nov (Il Velino) - L’opera da camera torna di moda: richiede un piccolo organico, mai più di sei- sette cantanti (a volte in differenti ruoli), scene semplici e, quindi, trasportabili da un teatro all’altro e da una città all’altra. Ciò che ci vuole in tempi di crisi e di bilanci magri. Alcuni ironizzano sui titoli proposti e la chiamano “opera da camera da letto” in quanto spesso a tema erotico-sessuale e con momenti molto espliciti. L’esatto opposto del melodramma verdiano, che conosceva la passione (raramente carnale) ma scansava l’eros e ancor di più il sesso. Non è sempre stato così. Per questo si tratta di un ritorno. Nella Venezia del Seicento, sotto il dominio plumbeo dell’Inquisizione, a teatro si mostrava tutto ciò che altrove non si poteva neanche menzionare. Si pensi al trasbordare di eros in alcuni momenti de “L’Incoronazione di Poppea” di Claudio Monteverdi (80enne e sacerdote) o ancora di più alle opere di Francesco Cavalli , la cui “La Calisto”, nella splendida realizzazione di Herbert Wernicke (regia) e René Jacobs (direzione musicale) scandalizzò La Monnaie di Bruxelles ma gira ancora tutto il mondo. Attualmente sono in giro per l’Italia due opere “porno soft”. La prima è “Powder her face”, composta quando Thomas Adès aveva meno di 25 anni, da tempo un grande successo, itinerante da teatro a teatro. Applaudita a Roma nel 2002, si è appena vista a Bologna e a Lugo di Romagna.

È un’opera da camera di impianto fortemente erotico; la “fellatio aria” che occupa quasi tutta la terza scena del primo atto è il pezzo più famoso. In due atti e otto scene, con un piccolo organico (17 elementi), quattro voci in vari ruoli e un allestimento scenico essenziale, si basa sulle reali vicende della Duchessa di Argyll e dei suoi 88 amanti. Raffinata la scrittura orchestrale, prevalentemente timbrica, a cui si dà risalto in virtuosi intermezzi; astute le parti vocali, con il declamato che si trasforma in arie pure di coloratura, duetti e pezzi concertati a quattro voci più che quartetti veri e propri. Il tutto velato da una buona dose d’ironia e di auto-ironia. Debutta domani a Roma, invece, (al teatro Olimpico) “For You” di Ian McEwan e Michael Berkeley il cui sottotitolo dovrebbe essere: “Sex, Please. We are British”, mutuato da una commedia inglese degli anni Settanta. McEwan è uno degli scrittori britannici di maggior successo e Berkeley il suo compositore preferito. La vicenda riguarda un ricco e famoso compositore e direttore d’orchestra sciupafemmine, pur se sempre innamorato della propria moglie, uccisa dalla sua ultima innamorata, la cameriera polacca. È opera concisa e arguta. McEwan infilza i protagonisti di questa storia d'umorismo nero col suo stile stringato: essenziali i sottotitoli, utilizzati anche nel Regno Unito. La tavolozza musicale è fatta di febbrile cromatismo, ostinati carichi di suspense e linee vocali violente ma cantabili. Semplice ma efficace l’allestimento di Pamela Hunter e Adreas Becker.
(Hans Sachs) 24 nov 2010 14:18

Chi ha paura del contagio irlandese? Il Velino 24 novembre

ECO - Roma, 24 nov (Il Velino) - Le Borse hanno accusato un tonfo alla notizia della conclusione dell’accordo tra autorità europee e Fondo monetario internazionale (Fmi), da un lato, e Governo di Dublino, dall’altro, per un consistente programma di aiuti (90 miliardi di euro in tre anni) alla ex-“tigre celtica” – un tempo lodata per le sue virtù ed ora, spennacchiata, biasimata per stravizi che (celati dietro le apparenti virtù) paiono mettere a rischio l’intera struttura dell’unione monetaria europea (Ume), se non la stessa Unione Europea che, a 60 anni, comincia a mostrare acciacchi.
Molti esperti di economia e finanza si aspettavano, invece, che, all’annuncio dell’accordo, i mercati finanziari avrebbero stappato bottiglie di champagne. Non pochi operatori hanno comprato (lo dicono i dati) il giorno prima dell’intesa, anche “allo scoperto”, rimettendoci le penne. Lezione amara, ma utile. Il vostro “chroniqueur” è rimasto immobile, come Jenny (il figlio di Guglielmo Tell) nella leggenda e nel terzo atto della mirabile opera rossiniana. E consiglia ai lettori di muoversi, se ritengono, con grandissima cautela, nei prossimi giorni. E’in ballo la sorte dell’euro, e forse anche quella dell’Unione Europea.

Pablo Jimenez, un economista spagnolo che insegna all’Università Nazionale dell’Australia (e che con il cannocchiale riesce a vedere le faccende europee meglio di noi), nella notte tra il 23 ed il 24 novembre ha inviato ai suoi amici per osservazioni la bozza di un saggio in cui, dati alla mano, argomenta che pochissimi europei sarebbero pronti “a morire per l’Ue (o soltanto a pagare più tasse) perché il progresso d’integrazione non si fermi” ed invita a ripensare i paradigmi soprattutto dell’euro.
La crisi della Grecia, prima, e dell’Irlanda, poi, hanno messo a nudo l’esigenza di tale ripensamento prima che sia troppo tardi o che ci si balocchi con nuove “cinture di sicurezza” analoghe a quella messa in piedi il 9 maggio e che non sarebbe sufficiente a fare da barriera se, oltre a Grecia ed Irlanda, Spagna e Portogallo volessero avvalersene. Lo avevano scritto a chiare lettere, e con forti argomentazioni, Christian Fahrholz dell’Università di Iena e Cezary Wojcik dell’Università di Varsavia (nessuno dei due alla corte di Angela Merkel) l’estate scorsa: la cintura di sicurezza sarebbe dovuta da servire da deterrente invece ha innescato, come un condono od una sanatoria, un “azzardo morale”, la convinzione che, dato che la difesa esiste, si può razzolare male ed utilizzarla. Proprio l’impiego fattone per l’Irlanda ha messo a serio rischio la credibilità del marchingegno europeo: finito il breve sogno di diventare (anche grazie a fiscalità di vantaggio) la Silicon Valley dell’Ue (e non solo), la ex-“tigre celtica” ha attirato capitali per buttarsi nell’immobiliare: costruttori ed immobiliaristi sono stati i principali finanziatori dei partiti (sia di maggioranza sia d’opposizione); in attesa di plusvalenze da sogno le banche si sono indebitate sino al collo, la notte tra il 23 ed 24 novembre sono state annunciate ricapitalizzazioni da parte di Pantalone con la provvista di aiuti frutto degli accantonamenti dei Paesi virtuosi. Al di là del giudizio etico su tal genere di operazione, occorre sottolineare che essa non può che avere il fiato corto: i risparmiatori tedeschi in primo luogo si ribelleranno nei confronti di bluff di questa natura. Specialmente se ora Spagna e Portogallo si vorranno avvalere della medesima strumentazione poiché dato che i mercati hanno risposto sfiduciando e Irlanda e Ue i loro titoli sono oggi più a rischio di quanto non lo fossero ieri. Nel 1927 l’unione monetaria latina finì per queste ragioni. Un’altra mezza dozzina di unioni monetarie è andata a gambe all’aria negli ultimi 50 anni. I mercati sanno che i peani alla solidarietà europea sono ormai onanismi. E il contagio fa paura.

(Giuseppe Pennisi) 24 nov 2010 11:04

martedì 23 novembre 2010

QUEI TIGROTTI D’EUROPA RIDOTTI A PULCINI SPIUMATI in Avvenire 23 novembre

QUEI TIGROTTI D’EUROPA RIDOTTI A PULCINI SPIUMATI

Giuseppe Pennisi
In una prima fase (all’inizio degli Anni Novanta) si era ironizzato, chiamandoli il “club Med”: si pensava che Grecia, Portogallo e Spagna non ce la avrebbero mai fatta ad entrare nell’area dell’euro (allora in via di creazione) e che l’Irlanda ne sarebbe rimasta schiacciata dall’accresciuta concorrenza. In una seconda fase , tra il 1998 ed il 2008, hanno sorpreso vari osservatori per l’elevato tasso di crescita (vero in due casi, presunto negli altri due): in quei dieci anni, i Pil pro capite dell’Irlanda, della Spagna, della Grecia e del Portogallo sono passati rispettivamente dal 106,1% della media dell’area dell’euro al 123,8%, dall’83,3% al 94,5%, dal 72,3% all’86,2% e dal 69,3% al 71,6%. La contabilità economica nazionale della Grecia, però, lascia desiderare tanto quanto la finanza pubblica ellenica. Il Portogallo ha avuto una crescita più mediatica (il ponte sul Tago, l’abbellimento di Lisbona) che effettiva. Oggi, la comunità internazionale ha appena completato una prima azione di salvataggio della Grecia ed è al capezzale dell’Irlanda. Spagna e Portogallo rischiano il pronto soccorso.
Cosa è successo? In parte, lo ha spiegato Avvenire del 14 novembre: la nascita dell’unione monetaria è stata percepita come una fase di “grande moderazione” caratterizzata da bassi tassi d’interesse ed ampio credito dal resto dell’area; ne è seguito un forte indebitamento che ha, a sua volta, causato una rapida ascesa del credito totale interno collocato verso investimenti (per lo più immobiliari) a basso rendimento , mentre, in aggiunta, le produttività ristagnava. In questo quadro generale, ci sono caratteristiche specifiche. In Irlanda si è tentato di attirare investimenti diretti esteri in alta tecnologia con una tassazione molta bassa sugli utili, ma , a conti fatti, pochi si sono spostati verso una piccola “tigre celtica” la cui regolamentazione pareva lasca e la cui crescita era al traino della Gran Bretagna (mai entrata nell’euro). Quando,per l’Isola Verde, l’alta tecnologia si è rivelata un’illusione, ci è buttati sull’edilizia: i costruttori sono stati, dati alla mano, i principali finanziatori delle campagne elettorali dei vari partiti della Repubblica.
In Spagna, la liquidità è corsa verso l’immobiliare (anche perché c’erano poche alternative concrete) mentre altre politiche pubbliche incoraggiavano la denatalità. Ora il Paese dispone di un patrimonio di case edificato con indebitamento estero e tale da soddisfare tre generazioni: quindi , la bolla esplode all’interno e nei conti con il resto del mondo. I tecnici dell’Eurostat avevano espresso serie perplessità sui conti della Grecia e sulla loro compatibilità con le regole di Maastricht: sono stati sostituiti per fare entrare gli eredi dell’Ellade (considerata la culla della civiltà europea) nell’areopago del continente. E il Portogallo? “La grande moderazione” ha portato conti in rosso senza crescita a ragione dei forti investimenti, oltre che nell’edilizia, nell’arido Nord del Paese.
Ora o si rattoppa l’euro o si va tutti a gambe all’aria: il Presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy parla di “crisi di sopravvivenza”. Rattoppare, però, non deve vuole dire una sanatoria per politiche errate. I primi a pagarne le spese sarebbero gli stessi “tigrotti” che tra qualche anno si ritroverebbero come adesso, ove non peggio di adesso. Alla lunga, poi, la stessa unione monetaria non resisterebbe: farebbe la fine di una dozzina di unioni monetarie costituite negli ultimi 60 anni.
Quindi, è necessario che i salvataggi (a spese dei contribuenti di Paesi virtuosi) siano accompagnati da condizioni in merito a cambiamenti di rotta. E da un rigoroso monitoraggio.
Giuseppe Pennisi
In una prima fase (all’inizio degli Anni Novanta) si era ironizzato, chiamandoli il “club Med”: si pensava che Grecia, Portogallo e Spagna non ce la avrebbero mai fatta ad entrare nell’area dell’euro (allora in via di creazione) e che l’Irlanda ne sarebbe rimasta schiacciata dall’accresciuta concorrenza. In una seconda fase , tra il 1998 ed il 2008, hanno sorpreso vari osservatori per l’elevato tasso di crescita (vero in due casi, presunto negli altri due): in quei dieci anni, i Pil pro capite dell’Irlanda, della Spagna, della Grecia e del Portogallo sono passati rispettivamente dal 106,1% della media dell’area dell’euro al 123,8%, dall’83,3% al 94,5%, dal 72,3% all’86,2% e dal 69,3% al 71,6%. La contabilità economica nazionale della Grecia, però, lascia desiderare tanto quanto la finanza pubblica ellenica. Il Portogallo ha avuto una crescita più mediatica (il ponte sul Tago, l’abbellimento di Lisbona) che effettiva. Oggi, la comunità internazionale ha appena completato una prima azione di salvataggio della Grecia ed è al capezzale dell’Irlanda. Spagna e Portogallo rischiano il pronto soccorso.
Cosa è successo? In parte, lo ha spiegato Avvenire del 14 novembre: la nascita dell’unione monetaria è stata percepita come una fase di “grande moderazione” caratterizzata da bassi tassi d’interesse ed ampio credito dal resto dell’area; ne è seguito un forte indebitamento che ha, a sua volta, causato una rapida ascesa del credito totale interno collocato verso investimenti (per lo più immobiliari) a basso rendimento , mentre, in aggiunta, le produttività ristagnava. In questo quadro generale, ci sono caratteristiche specifiche. In Irlanda si è tentato di attirare investimenti diretti esteri in alta tecnologia con una tassazione molta bassa sugli utili, ma , a conti fatti, pochi si sono spostati verso una piccola “tigre celtica” la cui regolamentazione pareva lasca e la cui crescita era al traino della Gran Bretagna (mai entrata nell’euro). Quando,per l’Isola Verde, l’alta tecnologia si è rivelata un’illusione, ci è buttati sull’edilizia: i costruttori sono stati, dati alla mano, i principali finanziatori delle campagne elettorali dei vari partiti della Repubblica.
In Spagna, la liquidità è corsa verso l’immobiliare (anche perché c’erano poche alternative concrete) mentre altre politiche pubbliche incoraggiavano la denatalità. Ora il Paese dispone di un patrimonio di case edificato con indebitamento estero e tale da soddisfare tre generazioni: quindi , la bolla esplode all’interno e nei conti con il resto del mondo. I tecnici dell’Eurostat avevano espresso serie perplessità sui conti della Grecia e sulla loro compatibilità con le regole di Maastricht: sono stati sostituiti per fare entrare gli eredi dell’Ellade (considerata la culla della civiltà europea) nell’areopago del continente. E il Portogallo? “La grande moderazione” ha portato conti in rosso senza crescita a ragione dei forti investimenti, oltre che nell’edilizia, nell’arido Nord del Paese.
Ora o si rattoppa l’euro o si va tutti a gambe all’aria: il Presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy parla di “crisi di sopravvivenza”. Rattoppare, però, non deve vuole dire una sanatoria per politiche errate. I primi a pagarne le spese sarebbero gli stessi “tigrotti” che tra qualche anno si ritroverebbero come adesso, ove non peggio di adesso. Alla lunga, poi, la stessa unione monetaria non resisterebbe: farebbe la fine di una dozzina di unioni monetarie costituite negli ultimi 60 anni.
Quindi, è necessario che i salvataggi (a spese dei contribuenti di Paesi virtuosi) siano accompagnati da condizioni in merito a cambiamenti di rotta. E da un rigoroso monitoraggio.

lunedì 22 novembre 2010

I “viaggi di note”: quando la musica può incentivare il turismo Il Velino 22 novembre

CLT - I “viaggi di note”: quando la musica può incentivare il turismo


Roma, 22 nov (Il Velino) - Arriva una prima ricostruzione, con un lessico accessibile a tutti, dei viaggi compiuti nel Belpaese dai grandi musicisti. E’ il volume di Marisa Malvasi “Viaggi di note, note di viaggio. L’Italia vista dai musicisti stranieri dal Gran Tour al Novecento” (Zecchini Editore). Nessun altro Paese ha mai manifestato come il nostro una così potente e tenace attrattiva per i musicisti provenienti da altre terre: da quelli notissimi come Mozart, Wagner, Berlioz, Liszt, Chopin, Menhelssohn, Schumann, Brahms, a quelli meno conosciuti quali Bielinski, Sibelius, Gounod , Marechal, Debussy, Ciakovski e Stravinski (nel cui testamento chiese di riposare in terra italiana e, infatti, è sepolto nel cimitero di Venezia). Anche un musicologo settecentesco, Charles Burney, affrontò un pesante e faticoso (ma soddisfacente) viaggio nella Penisola per meglio comprendere non solo la musica ma quella che, tramite principalmente il teatro d’opera, sarebbe diventata la lingua franca europea del Settecento e dell’Ottocento. Di fatto sino al 1950 si parlava italiano pure alla corte reale d’Egitto.

Il libro è ben scritto ed è indispensabile per comprendere perché i grandi musicisti stranieri venivano “a risciacquar i loro panni” in Italia. Aiuta anche a comprendere il “turismo musicale” che è una realtà importante alla base del lavoro sia di agenzie internazionali, come “Euridice”, sia di singoli, come l’ex direttore generale dell’Opera della California del Sud, ora in pensione nei pressi di Aix en Provence, che integra la propria rendita organizzando tour in Italia, sia di un’agenzia turistica giapponese, con sede a Milano, che in inverno organizza viaggi legati alle “stagioni” operistiche e in estate collegati, invece, ai festival. Si tratta di un ramo che va potenziato con la collaborazione degli attori del settore, principalmente alberghi e ristoranti. Verona, ad esempio, un tempo fiorente per il turismo musicale, è stata abbandonata non soltanto perché è peggiorata l’acustica dell’Arena, ma anche in virtù dei prezzi di alloggio e pasti mediamente costosi più del doppio di quelli di Salisburgo. La domanda del turista musicale contemporaneo (il melofilo alla ricerca della buona musica che ha preso il posto del grande compositore in cerca d’ispirazione) è molto elastica rispetto ai prezzi. I viaggi di note possono rendere. Fondamentale è non renderli così poco competitivi da fare scappare i clienti.

(Hans Sachs) 22 nov 2010 10:57



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domenica 21 novembre 2010

Quanto costa l'insolvenza sovrana Il Foglio 21 novembre

Quanto costa l'insolvenza sovrana
L'’insolvenza ha un costo pesante per le aziende perché fa scappare chi le finanzia (intermediari finanziari, clienti e via discorrendo) e causa un deprezzamento del capitale sociale d’impresa. Si è spesso pensato che l’'insolvenza sovrana, tutto sommato, costasse poco: il Re era uso a non pagare in propri creditori,– al più dava loro titoli e terre come fecero, ad esempio, i Reali di Francia con i Savoia (capitani di ventura che combattevano, a credito, le guerre del Re Sole: al posto dei franchi d’oro, scritti in cambiali in pergamena, ottennero, a saldo, il Regno di Sardegna con annesso Ducato di Piemonte). In effetti, gran parte delle stime del costo dell’'insolvenza sovrana apparse negli ultimi anni giungono a livelli relativamente contenuti principalmente in quanto basate sull’evidenza empirica di Paesi in via di sviluppo dove di norma (si pensi alla crisi debitoria dell'’America Latina alla fine degli Anni Ottanta o a quella dell'’Asia alla fine degli Anni Novanta) il deprezzamento dei titoli dei paesi debitori (conseguenza immediata di un’'insolvenza) è stata in varia misura compensata dall’'afflusso di capitali agevolati (Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Banche regionali di sviluppo) e di veri e propri flussi a fondo perduto (ossia doni).

L'’eventuale insolvenza “sovrana” di Irlanda, Grecia, Spagna e Portogallo pone problematiche differenti: ciò che conta non è il deprezzamento dei titoli di stato da loro emessi, ma gli effetti sull’'economia reale. Sandro C. Andrade e Vidhi Chhaochharia, ambedue dell’'Università di Miami, hanno costruito un interessante modello in un lavoro in corso di pubblicazione in cui definiscono il costo dell'’insolvenza “sovrana” in termini di perdita di valore del capitale di rischio delle aziende e dei ricavi del paese insolvente per un arco di tre anni (nel corso del quale, ci si augura, verrà attuato un adeguato piano di riassetto). Utilizzano i dati dei mercati finanziari a termine per un quinquennio (1995-2010) per i paesi emergenti e per un triennio per i Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), nonché l'’andamento dei margini operativi lordi in una quarantina di filiere industriali. L’'esito è un costo del 6,1 per cento l'’anno per i paesi emergenti e del 5,7 per cento l'’anno per i Piigs:– stime molto più elevate di quelle apparse in studi recenti (ad esempio (ad esempio il lavoro di Levy-Yeyati e Panizza, The Elusive Costs of Sovereign Default, pubblicato in degli ultimi numeri del Journal of Development Economics).

Lo studio si proponeva di analizzare, con un metodo innovativo, i costi dell’'insolvenza “sovrana”. Ma essa può avere anche benefici, come sa chi ha visto la commedia di Edoardo De Filippo “"Non ti pago!”". Ma di questo, alla prossima puntata del tormentone dell’'euro a pezzi e rattoppi.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi

venerdì 19 novembre 2010

Con questa crisi economica, ci vorrebbe un Governo solido Ffwebmagazine 19 novembre

FOCUS


Le stime economiche non sono buone. E se si andasse alle une...
Con questa crisi economica,
ci vorrebbe un governo solido
di Giuseppe Pennisi
Secondo le stime pubblicate ieri, 18 novembre, dall’Ocse nell’Economic Outlook, la crescita italiana sarà nel 2010 all'1%, nel 2011 all'1,3% e nel 2012 all'1,6%. Occorre leggere queste cifre con cura. Chi conosce le procedure ed il modus operandi dell’organizzazione con sede a Château de la Muette, in quel di Rue André Pascal di Parigi, sa che il lavoro è stato effettuato con il modello econometrico Multimod, circa due mesi fa, per essere esaminato da comitati di esperti nazionali (oltre che in seno all’Organizzazione). Prima quindi della crisi dell’area dell’euro. Stime econometriche più recenti (elaborate da 20 istituti econometrici internazionali, secondo modelli che, come il Multimod, sono impiantati sul lavoro pioneristico di Lawrence Klein) vedono invece un decremento della crescita italiana nei prossimi due anni in quello che definiscono lo scenario “più probabile” (nell’assunto che l’area dell’euro tenga e tenga bene). Tuttavia, pongono in risalto il rischio di crescita zero od anche negativa, specialmente nell’eventualità di estendersi delle difficoltà nell’area dell’euro.

In queste condizioni “esterne”, andare a nuove elezioni, vuol dire, in primo luogo, la probabilità di un aumento del differenziale (in gergo lo spread) tra i tassi d’interesse sui titoli di stato a medio termine rispetto a quelli più favorevoli nell’area dell’euro (oggi quelli della Germania federale) e, quindi, di un aumento e dello stock di debito pubblico e degli oneri per fare fronte alle sue scadenze. Prima degli ultimi sussulti politici, i tassi d’interesse sui titoli di Stato italiani a dieci anni erano il 4.,09 per cento l’anno rispetto al 2,43 per cento di quelli tedeschi; nell’arco di una settimana sono aumentati di 23 punti di base – un brutto segnale. Potrebbero arrivare facilmente al 5 per cento in caso di scioglimento delle Camere.

Al fine di mantenere i saldi di cassa quali definiti nella “decisione di finanza pubblica”, ciò comporterebbe nuove misure, di una portata simile a quella effettuata dal Governo Dini nella primavera del 1995 (a fronte di una situazione analoga). Allora, l’operazione venne effettuata dal lato delle entrate. Oggi si dovrà operare, esclusivamente sul fronte della spesa pubblica non solo perché tanto il Governo quanto l’opposizione si sono impegnati a non aumentare la pressione tributaria contributiva (la seconda più elevata al mondo), ma anche perché nessun Esecutivo vorrà presentarsi alle urne sulla scia di un aggravio fiscale.

Anche se non fortissimo – 8-9 miliardi di euro –, l’”aggiustamento” sarà tale da richiedere tagli selettivi e da innescare, quindi, una battaglia su chi soffrirà di più e metterà lo scompiglio nelle amministrazioni che stanno già faticosamente dedicando tempo ed energia a riassestare i proprio programmi in seguito alla “decisione di finanza pubblica”e ai “tagli” ad essa conseguenti. La battaglia sarà tanto più pesante con l’avvicinarsi delle elezioni. Lo scenario diventerebbe ancora peggiore se dalle urne usciranno (con l’attuale legge elettorale) maggioranze differenti nei due rami del Parlamento e la prospettiva di una fase convulsa alla ricerca di qualche intesa per dare al paese la governabilità di cui tanto più sente l’esigenza in un contesto come l’attuale.

Non ci si devono aspettare conseguenze pesanti dal lato dei prezzi (il cui tasso di aumento è, ora, attorno all’1,6 per cento l’anno). Grave, invece, l’impatto sull’occupazione. Il tasso di chi cerca lavoro senza trovarlo viaggia verso il 10 per cento di tutti coloro che possono e vogliono lavorare. L’incertezza derivante dalla crisi aumenterà l’isteresi, termine che l’economia ha mutuato dalla fisica per indicare i tempi perché le imprese riprendano, dopo una crisi, a riassumere.

A queste conseguenze macro-economiche a breve e medio termine si aggiungono quelle, più difficilmente, quantizzabili del mancato avvio delle riforme.

Gli economisti non possono fare altro che analizzare fenomeni: ora l’esigenza è quella di un Governo con una base ampia e solida ed in grado di affrontare non solo una congiuntura difficile ma anche riforme non affatto semplici.

18 novembre 2010

giovedì 18 novembre 2010

Growing Up in Music & Vision 30 ottobre

Growing Up
Hans Werner Henze's 'Pollicino'
thrills children and adults in Florence,
by GIUSEPPE PENNISI

Some thirty years ago, Hans Werner Henze found the subject of his opera 'Pollicino' ('The little thumb boy') in fairy tales written by Carlo Collodi (the Italian author best known for his book 'Pinocchio') in the second half of the nineteenth century. On his own account, Collodi had been working on the basis of tales by the Brothers Grimm and Charles Perrault and adapted them to his time and age. The project also had a 'social' objective, that Henze shared with the Italian writer Giuseppe Di Leva, author of the libretto: to bring the Montepulciano children to a music theatre experience not only as part of the audience but also as singers and actors.
Montepulciano is lovely small town in the Tuscan hills. There Henze had started a Cantiere d'Arte (an artistic work place), where, for a week, artists from several countries participate in opera, concert and ballet performance without receiving any fee and the entire population joins in. The Cantiere d'Arte is still operational -- a week every July and entails several weeks of preparation.

Patrizia Orciani as the mother and the children in Scene I of Hans Werner Henze's 'Pollicino' in Florence. Photo © 2010 G Luca Moggi
Thus, the basic concept was to let the children also have a role in the Festival. Initially, the idea was that it would a once in a lifetime experience; the opera was not designed to go any further than Montepulciano. As things go, Pollicino (twelve scenes forming a total of ninety minutes without interruptions) was translated into several languages. It is a precious little delight; for this reason, it became Henze's most performed opera worldwide.

Patrizia Orciani as the mother and the children in Scene II of Hans Werner Henze's 'Pollicino' in Florence. Photo © 2010 G Luca Moggi
However, it is not frequently staged in the very country where it was conceived -- Italy -- for two reasons. Firstly, in Italy there is no tradition of 'fairy' operas or Zauberopern like in Germany, the United Kingdom or Russia: the only 'fairy opera' of some repute is Turandot -- not at all stuff for children.

Patrizia Orciani as the mother, Marcello Lippi as the father and the children in Scene IV of Hans Werner Henze's 'Pollicino' in Florence. Photo © 2010 G Luca Moggi
Secondly, the last Italian operas conceived especially for children date back to the seventeenth century. As a matter of fact, Gian Carlo Menotti's Amahl and the Night Visitors and Help, Help the Globolinks were thought up for an American audience. Recent attempts, such as Nicola Colabianchi's Mandrake and Raffale Sargenti's Lupus in Fabula have had only a few performances before disappearing from the theatres' programs.

Marcello Lippi, now as the ogre, with the children in Scene IV of Hans Werner Henze's 'Pollicino' in Florence. Photo © 2010 G Luca Moggi
The Teatro del Maggio Musicale in Florence had the excellent idea to provide a new production. There are morning performances for children -- from kindergarden to high school -- as well as an evening production for adults. This review is based on the first morning performance on 21 October 2010.

The children in Scene V of Hans Werner Henze's 'Pollicino' in Florence. Photo © 2010 G Luca Moggi
Pollicino is not mere entertainment for children, youths or adults. It is also a bildungsroman in the German tradition -- ie a 'growing up' morality novel or play. Pollicino and his brother mature by fighting with nasty old people, finding their way in the forest, escaping an ogre wishing to eat them up and, eventually, finding the right number of girls with whom to cross the river to adult life. It is also a tale of change; the old ruling class is fading away whilst Pollicino, his brothers and the girls are forming the new one.

Patrizia Orciani as the mother and the children in Scene VII of Hans Werner Henze's 'Pollicino' in Florence. Photo © 2010 G Luca Moggi
The stage direction by Dieter Kaegel, the sets and costumes by Italo Grassi and the lighting by Gianni Paolo Mrenda provide, with a basic single set, props and projections, the right atmosphere at a quick pace. The small orchestra (mostly percussion but also strings and a piano) is gently conducted by Francesco Bonnin.

The children and forest animals in Scene IX of Hans Werner Henze's 'Pollicino' in Florence. Photo © 2010 G Luca Moggi
The score is a marvel: almost a short course in the history of music from the eighteenth century to the twelve note row style (including quotations from well known operas, like Rigoletto), wholesomely blended together with even a chamber music piece for a violin soloist (Ladislao Horvat).

The children in Scene IX of Hans Werner Henze's 'Pollicino' in Florence. Photo © 2010 G Luca Moggi
The cast is necessarily large; a baritone (in two different roles), a soprano, a mezzo, fourteen children and quite a number of minor characters disguised as the animals of the forest. They all did quite well. I trust they also had fun when singing and acting.
Copyright © 30 October 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

HANS WERNER HENZE
FLORENCE
ITALY
GERMANY
<< M&V home Concert reviews Boris Godunov >>








Growing Up
Hans Werner Henze's 'Pollicino'
thrills children and adults in Florence,
by GIUSEPPE PENNISI

Some thirty years ago, Hans Werner Henze found the subject of his opera 'Pollicino' ('The little thumb boy') in fairy tales written by Carlo Collodi (the Italian author best known for his book 'Pinocchio') in the second half of the nineteenth century. On his own account, Collodi had been working on the basis of tales by the Brothers Grimm and Charles Perrault and adapted them to his time and age. The project also had a 'social' objective, that Henze shared with the Italian writer Giuseppe Di Leva, author of the libretto: to bring the Montepulciano children to a music theatre experience not only as part of the audience but also as singers and actors.
Montepulciano is lovely small town in the Tuscan hills. There Henze had started a Cantiere d'Arte (an artistic work place), where, for a week, artists from several countries participate in opera, concert and ballet performance without receiving any fee and the entire population joins in. The Cantiere d'Arte is still operational -- a week every July and entails several weeks of preparation.

Patrizia Orciani as the mother and the children in Scene I of Hans Werner Henze's 'Pollicino' in Florence. Photo © 2010 G Luca Moggi
Thus, the basic concept was to have also the children to have a role in the Festival. Initially, the idea was that it would a once in a lifetime experience; the opera was not designed to go any further than Montepulciano. As things go, Pollicino (twelve scenes forming a total of ninety minutes without interruptions) was translated into several languages. It is a precious little delight; for this reason, it became Henze's most performed opera worldwide.

Patrizia Orciani as the mother and the children in Scene II of Hans Werner Henze's 'Pollicino' in Florence. Photo © 2010 G Luca Moggi
However, it is not frequently staged in the very country where it was conceived -- Italy -- for two reasons. Firstly, in Italy there is no tradition of 'fairy' operas or Zauberopern like in Germany, the United Kingdom or Russia: the only 'fairy opera' of some repute is Turandot -- not at all stuff for children.

Patrizia Orciani as the mother, Marcello Lippi as the father and the children in Scene IV of Hans Werner Henze's 'Pollicino' in Florence. Photo © 2010 G Luca Moggi
Secondly, the last Italian operas conceived especially for children date back to the seventeenth century. As a matter of fact, Gian Carlo Menotti's Amahl and the Night Visitors and Help, Help the Globolinks were thought up for an American audience. Recent attempts, such as Nicola Colabianchi's Mandrake and Raffale Sargenti's Lupus in Fabula have had only a few performances before disappearing from the theatres' programs.

Marcello Lippi, now as the ogre, with the children in Scene IV of Hans Werner Henze's 'Pollicino' in Florence. Photo © 2010 G Luca Moggi
The Teatro del Maggio Musicale in Florence had an excellent idea in providing a new production. There are morning performances for children -- from kindergarden to high school -- as well as an evening production for adults. This review is based on the first morning performance on 21 October 2010.

The children in Scene V of Hans Werner Henze's 'Pollicino' in Florence. Photo © 2010 G Luca Moggi
Pollicino is not mere entertainment for children, youth and adults. It is also a bildungsroman in the German tradition -- ie a 'growing up' morality novel or play. Pollicino and his brother mature by fighting with nasty old people, finding their way in the forest, escaping an ogre wishing to eat them up and, eventually, finding the right number of girls with whom to cross the river to adult life. It is also a tale of change; the old ruling class is fading away whilst Pollicino, his brothers and the girls are forming the new one.

Patrizia Orciani as the mother and the children in Scene VII of Hans Werner Henze's 'Pollicino' in Florence. Photo © 2010 G Luca Moggi
The stage direction by Dieter Kaegel, the sets and costumes by Italo Grassi and the lighting by Gianni Paolo Mrenda provide with a basic single set, props and projections the right atmosphere at a quick pace. The small orchestra (mostly percussion but also strings and a piano) is gently conducted by Francesco Bonnin.

The children and forest animals in Scene IX of Hans Werner Henze's 'Pollicino' in Florence. Photo © 2010 G Luca Moggi
The score is a marvel: almost a short course in the history of music from the eighteenth century to the twelve note row style (including quotations from well known operas, like Rigoletto), wholesomely blended together with even a chamber music piece for a violin soloist (Ladislao Horvat).

The children in Scene IX of Hans Werner Henze's 'Pollicino' in Florence. Photo © 2010 G Luca Moggi
The cast is necessarily large; a baritone (in two different roles), a soprano, a mezzo, fourteen children and quite a number of minor characters disguised as the animals of the forest. They all did quite well. I trust they also had fun when singing and acting.
Copyright © 30 October 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

HANS WERNER HENZE
FLORENCE
ITALY
GERMANY
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An Epic Opera In Music and Vision 17 ottobre

An Epic Opera
Rossini's 'William Tell',
from Rome to the BBC Proms,
by GIUSEPPE PENNISI

On 16 October 2010, at the 2,800 seat Santa Cecilia Auditorium in Rome, Antonio Pappano unveiled a new production of Rossini's Guillaume Tell in a concert version without sets, costumes or corps de ballet. The production will travel to the BBC Proms in London and will be recorded by EMI. It is a nearly complete version of the opera because Pappano has re-introduced much of the music from the 'traditional cuts' -- the only significant cut remaining is the long third act ballet. The forthcoming EMI recording will most likely become a 'reference edition', taking the place of the 1973 production conducted by Lamberto Gardelli, one of the rare recordings of the French philological or nearly philological version. For decades, Guillaume Tell had become Guglielmo Tell, in Italian, in the 'Calisto Bassi version', also frequently performed, in German translation, in German Theatres.
In 1988, Riccardo Muti opened La Scala's season with a new almost complete version, but in Italian (the 'Paolo Catetellan version'); the resulting DVD shows that it was half a disaster, also due to the poor stage sets and direction by Luca Ronconi. To the best of my memory, in modern times, the full Guillaume Tell has been staged only at the Rossini Opera Festival (ROF) in 1995; Gianluigi Gelmetti was the conductor, Pier Luigi Pizzi the stage director and also responsible for the sets and costumes, the cast was good (Pertusi Kunde, D'Arcangelo, Olsen, Austin-Kelly, Dessì, Bacelli, Norberg-Shulz) and one of the best Italian ballet companies had been called for the dances. There is no recording of that production. It lasted over six hours, including a ninety minute intermission for a set dinner; the four performances were never revived and badly damaged the ROF finances.
Pappano loves Guillaume Tell : three years ago, he offered a production in Rome, but the 16-20 October performances are based on a score much closer to the full version composed by Gioacchino Rossini under a commission from the Académie Royale de Musique (then the French Royal Opera House).
Guillaume Tell is Rossini's last opera. After this tremendous effort, he retired from the theatre at the age of thirty-seven. He had a long depression, and a tiresome legal fight with the French authorities, to have the 'Royal pension' as stated in his contract with the Académie Royale de Musique. After five years, he won the legal controversy and retired in Paris, where he died thirty-seven years after the triumphal opening night of Tell. During those long years, his musical silence was interrupted only by the composition of religious and piano scores.
Thus, Guillaume Tell is, in a way, a mysterious opera. Is it the last will and testament of one of the most prolific composers of the beginning of the eighteenth century? Is it the final effort of an artist who thought that his time was up, and music theatres were going toward avenues very different from his? Is it the demonstration to himself and to the world of music to be able to successfully challenge grand-opéra, then prevailing on the French scene? What road would Rossini have taken if he had not decided to call it quits and retire at the age of thirty-seven? Would Rossini have become a grand-opéra composer or would he have followed the melodrama à la mode of Verdi?
All these questions have been left unanswered. The 'Calisto Bassi version' applauded by our parents and grand-parents and even frequently recorded, tilts between the Donizetti-Verdi melodrama, the Meyerbeer grand-opéra, and the Weber-Marschner Romantic opera. In short, it is a strange mixed soup. The Gardelli 1973 recording places emphasis on the similarity with grand-opéra, as did the 1995 Pesaro production.

From left to right: Elena Xanthoudakis, Marie-Nicole Lemieux, Malin Byström, Antonio Pappano, Gerald Finley and John Osborn with, behind, the Orchestra e Coro dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Photo © 2010 Riccardo Musachio
The main novelty of the Pappano production -- more evident in the current version that in that of 2007 -- is that it shows how Rossini, albeit very Italian and living in Paris for the longest part of his life, was close to German Romantic opera and nearly anticipated Wagner. Under Pappano's baton, Guillaume Tell is a choral work in its very essence, like Weber's Der Freischütz, Marshner's Hans Heiling and Wagner's masterpieces (especially Die Meistersinger). Nature is also fundamental to the score (like in La Donna del Lago). Pappano and the chorus master Ciro Visco place emphasis on these aspects -- not only on the number of choruses but also on the fact that every other musical number in the score contains a reference to, or manifests a connection with, the choral inspiration of the whole. As relevant as the chorus is the musical description of the landscapes, the hills, the mountains, the lake, the valleys and of natural events (the storm in the lake).
Mostly due to Guillaume Tell, even in the abridged versions then circulating in Switzerland and Germany, Rossini's only emulator and greatest admirer would be Wagner -- who never had access to La Donna del Lago, the other opera where Rossini's genius delved into the mystery of nature, and where the chorus is the protagonist. Wagner knew that he was indebted to Rossini: who, listening to Siegfried Idyll, is not reminded of the far-off sounds of the hunt in the opening scene of Guillaume Tell? Who listening to the last choral scene of Die Meistersinger is not reminded of the final scene of Guillaume Tell? Finally, the well-known and very popular overture. The first passage -- the lyric andante with the divided cellos, the tremendous storm and the idyllic pastoral with cor anglais and flute -- exudes mountain air (as in the second act of Siegfried). After this, the brisk march seems quite conventional, but its rhythm and sparkle are always effective. This juxtaposition of dazzling inspiration and slight, trivial routine is also in Wagner's overture to Rienzi -- an oft-performed concert piece whilst the full opera is seldom on stage.

Antonio Pappano and the Orchestra e Coro dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Photo © 2010 Riccardo Musachio
Pappano is known as one of the greatest Wagner conductors; his Brussels Ring is still memorable -- and he was quite young then! In short, his reading of Guillaume Tell shows that it is an epic opera -- distant from the French grand-opéra and the Italian melodrama but on the way to German later epic operas. Thus, Rossini appears under his right and well-deserved light: a real European composer, not necessarily linked to a small town on the Adriatic shore in the reactionary Papal Kingdom.

John Osborn and Malin Byström. Photo © 2010 Riccardo Musachio
The vocal cast is almost completely changed as compared with the 2007 performances. The opera requires eleven soloists. I focus only on the principals. The American agility tenor, John Osborn, is the only main singer in both the 2007 and 2010 productions; three years ago, he was hesitant in the first act but gained depth and ease as the opening night performance proceeded. Now, he coped skillfully with a terrifying role, dense with high Cs and B naturals, and always in the high register. He unveiled his vocal means in the first act, and showed them fully in the fourth Act aria Asile héréditaire, after which he received five minutes of applause.

Gerald Finley and Elena Xanthoudakis. Photo © 2010 Riccardo Musachio
Tall, attractive (indeed, sexy) and a vocally perfect Mathilde, Malin Bryström is a young Swedish soprano with a lot of experience with Mozart operas, and recently at La Scala in Gounod's Faust; it is easy to foresee Wagner in her future. She is an 'absolute soprano' with a range from lyric to dramatic, with a pure and very clear timbre and perfect phrasing. Very sweet in Sombre forêt, she acquires an Imperial stand in her confrontation with Gesler (Carlo Cigni). It is useful to recall that the tenor and the soprano (Arnold and Mathilde) are the two characters with real psychological development: tormented between love and loyalty to their different status -- he a Swiss, she is an Austrian-German aristocrat. The other nine are symbolic characters without nuances or psychological development.

Marie-Nicole Lemieux and Elena Xanthoudakis. Photo © 2010 Riccardo Musachio
This is the case of the protagonist, Guillaume Tell: he has an important aria Soi, immobile and he is almost always on stage, but he is one-dimensional -- a 'do-gooder' constantly aiming at freedom for his oppressed Fatherland. The Canadian baritone Gerald Finley gave him substance with his crystal clear voice, perfect French diction and well molded acute. Of the others, it's worth mentioning Elena Xantoudakis, a well-rounded Jenny, Marie-Nicole Lemieux, a passionate Edwige, and Celso Albelo in the short role of the fisherman (but with a very difficult aria).
Copyright © 18 October 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

GIOACCHINO ROSSINI
ANTONIO PAPPANO
ROME
ITALY
GERALD FINLEY
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An Icy Reception in Music & Vision 16 ottobre

An Icy Reception
GIUSEPPE PENNISI describes
the 2010 Parma Verdi Festival's
stormy beginning

Gianandrea Gavazzeni used to say that there is no need for a 'Verdi Festival' because a 'Verdi Festival' is held almost every day in more than one of world's five continents. As a matter of fact, Parma, the capital of the province where Giuseppe Verdi was born in 1813, has been organizing a top-notch festival for several decades. It used to take place in early June -- that is, strategically after the Maggio Musicale Fiorentino and before the many summer opera festivals (forty in 2010) flooding Italy from late-June until mid-September.
Since 2005, Mauro Meli has been Superintendent of Parma's Teatro Regio and also of the Verdi Festival, and he invited Yuri Temirkanov to be both organizations' musical director. In 2006 a program was undertaken to make Parma 'the European music capital' by commissioning a new auditorium (for symphony and chamber music) and using the many precious small theatres in the surrounding towns and even villages. (The first of these is the Teatro Verdi in Busseto, near Le Roncole, the hamlet of only a few homes where Verdi was actually born.) International collaborations were developed through co-productions and tours. Finally, the festival was moved from early June to October, Verdi's birth month. The Parma Verdi Festival has an event on every day in October: from a fully staged opera to highlights in concert and screenings of films based on Verdi's work. The whole town has become a part of the Festival, with exhibitions, shows and performances everywhere.

Marcelo Álvarez as Manrico and Mzia Nioradze as Azucena in Act I of 'Il Trovatore' at the Parma Verdi Festival. Photo © 2010 Roberto Ricci
All this activity requires a great deal of financing, and the money had been forthcoming for a few years from central and local government, a major state-owned company, and from local enterprises. But recently, the economic crisis has put a major halt on funding. This year, Meli has had to make do with a much smaller budget, resulting in a lean program (see Festival Verdi 2010) consisting of three fully-staged new productions -- Il Trovatore, I Vespri Siciliani and Attila. I attended the 9 October afternoon performance of Il Trovatore and the opening night of I Vespri Siciliani on 10 October, both at Parma's splendid Teatro Regio. Unfortunately, I was unable to reach Busseto, where in the small, cozy Teatro Verdi, a new but hyper-traditional Attila is being staged by a company of young singers.

Marcelo Álvarez as Manrico and Mzia Nioradze as Azucena in Act IV of 'Il Trovatore' at the Parma Verdi Festival. Photo © 2010 Roberto Ricci
From the outset, this 2010 Verdi Festival has been quite stormy. On 1 October, the inaugural Trovatore was booed not only by the upper tier but also by the boxes. The boos were directed mostly at the mezzo singing Azucena (Marianna Tarasova), but also at the stage sets and directions, in the middle of the chaos, and also the conductor, Yuri Temirkanov, received some boos at the end of the performance. On 10 October 2010 the premiere of the new production of I Vespri Siciliani had a cold, icy reception. After the first part, long unexpected intermissions made me think that the performance might not be concluded because of the audience's reactions to the tenor (Fabio Armiliato). Before the last scene, a loudspeaker informed all in the theatre that the tenor had been ill from the beginning of the performance but would sing until the end, nonetheless.

Mzia Nioradze as Azucena and Romano as Leonora in Act IV of 'Il Trovatore' at the Parma Verdi Festival. Photo © 2010 Roberto Ricci
I was fortunate in that the 9 October performance of Trovatore had been preceded by a good running-in, and two singers had been replaced (Azucena, then, was Mzia Nioradze, and Leonora, Teresa Romano). Also, problems of coordination between the pit and the stage -- an oft-repeated criticism of the 1 October performance -- had been solved. I can say that the 9 October Parma Trovatore was among the performances I've most enjoyed in over fifty years of opera going, beginning at the age of twelve.

Marcelo Álvarez as Manrico and Teresa Romano as Leonora in Act IV of 'Il Trovatore' at the Parma Verdi Festival. Photo © 2010 Roberto Ricci
As we all know, Trovatore is based on a plot of passion and violence; Verdi wrote a score of such inspired dramatic power, wealth of melody and brilliant use of radiant top Cs that it has outlived generations of operas with more carefully developed plots. Salvatore Cammarano's libretto has all the conventions of the mid-nineteenth century melodrama: literally, it is nearly impossible to either understand or consider credible. Lorenzo Mariani's stage direction and William Orlandi's stage set, with the lighting of Christian Pinaud, take an unconventional but very intelligent path: they disregard all the (rather silly) complications of the plot and focus on the real crux: two men are in love with the same woman, without knowing that they are two brothers and -- like in the 1946 King Vidor blockbuster Duel in the Sun -- take their passion to the extreme. The stage set is almost bare, with the exception of the Moon (the size and color of which change according to the atmosphere). A few essential props indicate the different places at which the plot evolves. Briefly, it was very effective to focus on the real 'core' of the opera -- that about which Verdi felt most strongly. Also, stage sets and lighting are in line with the music and the singing. It may appear, of course, as an unusual production to the most traditional part of the audience, but it produces the blood and gutter tragedy of Trovatore well, and is easily transferred to stages of different dimensions. Finally, its costs are contained: not a secondary consideration under the current financial stringency. Although this Trovatore is not a co-production, willing 'buyers' appear to have been found for future performances: it will travel to Venice (La Fenice) and then as far as Tokyo and Hong Kong. Other theaters also appear to be interested.

The full company at the end of 'Il Trovatore' at the Parma Verdi Festival. Photo © 2010 Roberto Ricci
Yuri Temirkanov's conducting is new to traditional ears. The Russian conductor is a symphonic rather than an opera specialist, and delves into the score to discover a new tint, not merely to accompany the singers in their vocalizing. The protagonist was a superb Marcelo Álvarez who excelled in the well-known stretta with its strirring rhythm and long top C, and in the somber, oppressive Miserere. His adversary/brother was Claudio Sgura, a good Verdian baritone, eve though I would have liked a more velvet approach to Il Balen del Suo Sorriso. Teresa Romano, twenty-five years old, was called to sing all the performances, not just to be Leonora in the second cast. She has a good timbre and plenty of volume, but still requires study; she did well, with an imperfection only in D'Amor sull'Alii Rosee. The Georgian Mzia Nioradze was a very professional Azucena and Deyan Vatchov a good Ferrando. The chorus (directed by Martino Faggioni) deserves a special mention, especially in the third Act, where it glows with ardor.
I Vespri Siciliani is the Italian adaptation of the French grand-opéra Les Vêpres Sicilennes, originally conceived by Verdi under a commission from the Paris Imperial Opera House in 1855. The first Italian translation, with the title Giovanna da Guzman, was performed in Parma in 1856. At a festival, it would be normal to expect the original French version. However, Les Vêpres Sicilennes is staged even more rarely than I Vespri Siciliani due to its sheer length, and because it requires a full corps de ballet. I Vespri Siciliani too is not often performed because of the very vast vocal extension demanded of the soprano and, especially, the tenor. The differences between Les Vêpres Sicilennes and I Vespri Siciliani / Giovanna da Guzman are not significant, with the exception of major cuts to the long ballet scenes. Giovanna da Guzman moves the action from Sicily in 1282 to Portugal in the seventeenth century. On the other hand, for Les Vêpres Siciliennes, Eugene Scrive and Charles Duveyrier used a libretto written for Donizetti's opera Il Duca d'Alba, the score of which had been left almost unfinished and which was performed, for the first time, in Rome in 1882. The Il Duca d'Alba plot took place at the time of the Flemish insurrections against the Spaniards.

Fabio Armiliato as Arrigo and Daniela Dessì as Elena in Act I of 'I Vespri Siciliani' at the Parma Verdi Festival. Photo © 2010 Roberto Ricci
This may seem erudite nitpicking. It is, however, quite fundamental to understand that neither Les Vêpres Siciliennes nor I Vespri Siciliani can be considered a patriotic opera. The French Emperor Napoléon II would never have commissioned an operatic manifesto of the Italian National Unification process. Indeed, I Vespri Siciliani is a grand-opéra with a complicated plot good for any season but with a lot of opportunities for extravagant stage sets and ballet.

Massimo Zanetti conducting 'I Vespri Siciliani' at the Parma Verdi Festival. Photo © 2010 Roberto Ricci
Thus, the first error in the production was the stage direction: the plot is moved forward to 1855-1860 and the Sicilians are dressed like in Cavalleria Rusticana, and Giovanni da Procida is made up as Giuseppe Mazzini back home, to stir revolutions, after a long exile in London. The stage set is almost bare, with the exception of a few props. But the whole plot seems to develop at night, whereas Verdi composed some very sunny music (after all, we are in Sicily!), in particular for Acts I and V. The situation was not improved by Massimo Zanetti's lax conducting or by a vocal cast which left a lot to be desired.

Giacomo Prestia as Giovanni da Procida in Act II of 'I Vespri Siciliani' at the Parma Verdi Festival. Photo © 2010 Roberto Ricci
The chorus was superb. (The Act III concertato has some of the best choral music ever composed by Verdi.) The baritone (Leon Nucci) and the bass (Giacomo Prestia) fared quite well, but the soprano (Daniela Dessì, who had been the protagonist of the Rome Les Vêpres Siciliennes in 1997) and the tenor (Fabio Armiliato, debuting the role) had difficulties in their first duet. And the upper tier made its voice heard. There on, the situation did not improve. There was a long intermission (forty minutes) between the first and the second part; the rumor spread that the soprano and the tenor did not want to continue the performance. A new long break between the first and the second scene of the second part. Then a loudspeaker announced that the management was grateful to Mr Armilliato, who would conclude the performance, even though he was ill. There was an icy reception at the end.

Fabio Armiliato as Arrigo, Leon Nucci as Guy de Montfort, Daniela Dessì as Elena and Giacomo Prestia as Giovanni in Act IV of 'I Vespri Siciliani' at the Parma Verdi Festival. Photo © 2010 Roberto Ricci
Many issues will need to be faced by the festival management. Why program I Vespri Siciliani / Les Vêpres Siciliennes unless there is financing for a sumptuous show (as called for by any grand-opéra) and there are the right singers (now very hard to find)? There are several other rarely performed Verdi operas (Stiffelio, Alzira) that deserve to be staged and do not entail analogous difficulties.

Daniela Dessì as Elena with the chorus in the final scene of Act V of 'I Vespri Siciliani' at the Parma Verdi Festival. Photo © 2010 Roberto Ricci
They should especially avoid transforming the festival itself into a melodrama.
Copyright © 16 October 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

GIUSEPPE VERDI
PARMA
ITALY
IL TROVATORE
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Superb from the word 'go' in Music & Vision del 4 ottobre

Superb from the word 'go'
Donizetti's last Tudor Queen returns to Rome,
and Carmela Remigio enchants GIUSEPPE PENNISI

Gaetano Donizetti composed four operas about the Tudor Queens during a seven year time span, from 1830 to 1837. The texts were written by different librettists; three of the four operas (Anna Bolena, Maria Stuarda and Roberto Devereux) form a tragic trilogy. As such, they were staged and sung by Beverly Sills at New York City Opera in the mid-1970s, toured all over the United States and recorded by EMI (on a small boxed set that's now hard to find). The fourth opera (Elisabetta al Castello di Kenilworth) was performed only once in modern times, in Bergamo in 1989. It is an opera seria with a happy ending which features a very difficult cavatina (the aria with which the singer enters the stage) full of technical fireworks; Mariella Devia sang it in Bergamo and on the ensuing recording.
Of the 'trilogy', Maria Stuarda and Anna Bolena (in this order) are staged quite often; they were favorite hits of, for example, Maria Callas, and they are still loved by many coloratura sopranos (such as Mariella Devia). They are also based on excellent librettos by Felice Romani and Giuseppe Bardari (who borrowed heavily from Schiller's play). Roberto Devereux was frequently staged in Italy and in the rest of Europe from 1837 until the mid-1880s. In those years, one of the elements of its fortune was that among Donizetti's work, it is one of the most similar to Verdi's melodramas, then at the peak of their success. It disappeared during verismo to have a renaissance in the 1960s, mostly associated with important sopranos such as Leyla Gencer, Monserrat Caballé, Raina Kabaivanska and, of course, Beverly Sills. Now, Dmitra Theodossiou and Edita Gruberova are especially fond of the opera. In a recent Munich production (and its related DVD), the plot is set in modern times, in the UK (of course) and Edita Gruberova is made up as Margaret Thatcher.
Even though Roberto Devereux is the least staged opera of the 'trilogy', this reviewer has a particular affection to it: the first time I saw it fully staged was in September 1973 in Seoul, South Korea, in a huge cinema-theatre with an oversized screen but a narrow stage, normally used for vaudeville in between film performances. The stage sets were mostly props and the Italian diction left a lot to be desired, but the singers were quite exceptional. It was moving to see how the Koreans were engrossed by Queen Elisabeth's tragic love for the Earl of Essex, and her abdication, after the devious plot that caused the Earl's beheading.

A scene from 'Roberto Devereux' at Teatro dell'Opera di Roma. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
In Rome, Roberto Devereux has not been staged for nearly twenty-three years. As the Teatro dell'Opera is recovering from a financial crisis, the twenty-three-year-old Alberto Fassini was brought back by Joseph Franconi Lee (direction) and David Walker (sets and costumes). Fassini had been Luchino Visconti's assistant. Thus, there is no Maggie Thatcher on stage. A very traditional production broadly based on the Hollywood movie by Michael Curtis -- The Private Lives of Elisabeth and Essex -- with Bette Davis in the main role.
As William Ashbrook rightly comments, in Donizetti and his Operas (Cambridge University Press, 1982), Salvatore Cammarano's rather poor libretto has the advantage of being, at least partly, derived from Felice Romani's Il Conte d'Essex for Saverio Mercadante. The dominant figure is Elisabetta, but neither Mercadante nor Donizetti could name the opera after her because Rossini's Elisabetta, Regina d'Inghilterra was, at that time, popular and touring Italian towns.

Carmela Remigio as Elisabetta in 'Roberto Devereux' at Teatro dell'Opera di Roma. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
In Roberto Devereux, Elisabetta is aged and weary but still a loving woman. She becomes a furious queen when traumatized by the sense of betrayal, both as a sovereign and as a woman. In the final scene, she almost disintegrates as she is consumed by remorse and beset by an avenging vision. The part has been generally taken up by sopranos mature in terms of age, not only of experience. On the 1 October 2010 opening night, the role was played by the young but experienced, attractive -- indeed sexy -- Carmela Remigio, mostly known abroad for her Mozart interpretations. She is made up as an old, frustrated lady and no longer sexually appealing.

Carmela Remigio as Elisabetta and Massimiliano Pisapia in the title role of 'Roberto Devereux' at Teatro dell'Opera di Roma. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
Remigio is superb from the word 'go', for example from the cavatina, where she sets her dual role as lover and as Queen; her energy is expressed in a scalar sweep to a high A descending quickly to middle C -- a difficult passage that few sopranos sing well. She was perfect in the duet Un tenero core (andante, 3/8, D major) whilst her Roberto (Massimiliano Pisapia) was still warming up and sounded rather stiff. In the second act trio, Pisapia had sufficiently warmed up for the initial melody. Then, at the heart of the scene Alma infida ingrate core (largo, in E flat major) with Remigio and Alberto Gazale (as Nottingham), the double (yet false) betrayals exploded in the wide ranging line which encompasses top C. Where Remigio excelled was, however, the final scene, Vive Ingrato; coloratura had no flavor of being a decorative addition to show the singer's ability but was, as it should be, the means to transmit torment and suffering.

Sonia Ganassi as Sarah in 'Roberto Devereux' at Teatro dell'Opera di Roma. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
The Queen's rival is the innocent Sarah (Sonia Ganassi), a character of limited psychological development. Ganassi is a well-known mezzo and sang well -- both in her romanza with cabaletta at the start of the opera, and in her duet with Roberto.
A few more words on the singers. After warming up, Pisapia exploded in Act 3 with cabaletta and received a strong open stage applause; nonetheless, Donizetti is not his main strength. He has sung Puccini and Giordano for several years; thus his timbre is thicker than it should be. In contrast, Gazale is very much at ease with his role, a velvet baritone.
From the outset, I have emphasized that Roberto Devereux is a bridge leading towards Verdi's melodrama. Thus the orchestral score does not serve as a support to the singers. From the overture, it is clear that it has a relevance on its own (such as in the fifteen measures of orchestral introduction which sets the whole climate surrounding the drama). Bruno Campanella's baton was particularly skilled in underlining some of the solo and almost chamber music moments, such as the orchestral E major melody in the second act, and the powerful measures setting the Queen's downfall in the final scene.
Copyright © 4 October 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

GAETANO DONIZETTI
TEATRO DELL'OPERA
ROME
ITALY
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L'Alice moderna diventa una social opera Il Foglio 18 novembre

18 novembre 2010

L'Alice moderna diventa una social opera
A Palermo va in scena il romanzo di Lewis Carroll destinata soprattutto agli spettatori di domani
L’opera lirica, creata in Italia, nonché strumento essenziale per forgiare l’unificazione nazionale, nell’anno delle celebrazioni per i 150 anni rischia di sparire proprio nel belpaese, mentre fiorisce non solamente in Europa centrale ma anche negli Stati Uniti ed in Asia. Prima che di fondi (e della loro gestione) il problema è di pubblico: pantere grigie, capelli bianchi, pensionati di buon reddito oppure fruitori di biglietti omaggio a vario titolo. La fondazione lirica più attiva nel formare le nuove generazioni al teatro in musica è quella del Massimo di Palermo: non solo ha ogni anno oltre trentamila ragazzi tra i suoi spettatori ma commissiona nuove opere proprio per i giovani, come Alice nel Paese delle Meraviglie di Francesco Micheli e Giovanni D’Aquila.

Non è la prima volta che Alice arriva a Palermo. Nel 1993 per esempio fu eseguita al Politeama Garibaldi, in prima rappresentazione assoluta, l’opera in tre atti Alice di Giampaolo Testoni su libretto di Danilo Bramati. La nuova Alice nel paese delle meraviglie, scritta da Francesco Micheli e Giovanni D’Aquila e in programmazione sino al 19 novembre, non è soltanto composta per Palermo, ma scritta e messa in musica su Palermo e con Palermo. Su Palermo, perché l’azione si svolge nel capoluogo siciliano e Alice è una bambina palermitana d’oggi; con Palermo, perché i primi destinatari sono i bambini, che fanno parte del pubblico ma anche di un gigantesco coro di trecento voci bianche selezionato in tutte le scuole cittadine per affiancare i complessi stabili del teatro. 

Alice però non è stata pensata unicamente per un pubblico di bambini. Già il romanzo di Lewis Carroll è un libro apparentemente per bambini ma diretto (anche nelle sue trasposizioni cinematografiche) principalmente agli adulti.

L’opera in scena è un atto unico di circa un’ora e mezza che, per utilizzare il lessico anglosassone, può essere definita una “social opera”. E’ uno specchio stilizzato e allegorico della società in cui il pubblico della platea, dei palchi e del loggione, vive, lavora, ama e fa, così come La Traviata di Giuseppe Verdi e Francesco Maria Piave. In quanto “social opera” destinata al pubblico di domani, il libretto è attualissimo (pur seguendo il filone del romanzo di Lewis Carrol e mostrandone interi episodi) e pure la partitura è densa di citazioni dalla storia del teatro in musica (dall’Orfeo di Claudio Monteverdi alla Turandot di Giacomo Puccini, passando per Vivaldi, Gluck, Bellini, Rossini, Mozart e ovviamente Verdi, nonché alcune canzoni popolari siciliane e un pizzico di Fabrizio De Andrè). Tutto questo stuzzica la memoria dell’ascoltatore “colto”, ma per quello giovane rappresenta il primo gradino di ciò che potrà gustare più tardi nella vita.


Come appare la Palermo moderna nel sogno di Alice, figlia di un portalettere? Come un mondo dove tutto è superlativo e iperbolico, “ bigger and better”, dalle folle di bambini, conigli, cappellai, regine e carte (la politica). E’ anche il luogo metaforico dove ci sente al centro dell’universo perché ciascun palermitano ha un parente o un amico all’estero. Un omaggio alla città, quindi, e un modo per amarla ancora di più (nonostante i suoi problemi). Vale la pena farla circolare in modo che altri ragazzi e adulti capiscano la magia di Palermo e del teatro in musica contemporaneo.

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© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi

L'euro a pezzi e rattoppi Il Velino 17 novembre

Il Velino presenta, in esclusiva per gli abbonati, le notizie via via che vengono inserite.

ECO - L'euro a pezzi e rattoppi

Roma, 17 nov (Il Velino) - Come esce l’Unione Monetaria da questa ultima crisi (peraltro ancora in corso)? Giuliano Amato direbbe “con il vestito d’Arlecchino”, citando un suo libro di circa venti anni fa a proposito del bilancio dello Sato. In termini più popolari si può dire che la moneta unica è “a pezzi e a rattoppi”. Ancora non sappiamo come terminerà la vicenda del pericolo d’insolvenza da parte dell’Irlanda, dei programmi d’aiuto dell’Ue e del Fmi non solo per evitare che la Repubblica vada fondo ma anche che il suo malessere contagi Grecia, Spagna e Portogallo. Occorre, infine, tener presente che dalla riunioni internazionali di questi giorni è parso chiaro che a) la cintura di sicurezza di fondi pubblici europei non sarebbe sufficiente a tenere a galla i quattro Paesi (in caso di epidemia e crisi simultanea) e b) non c’è chiarezza tra i Paesi dell’unione monetaria sull’apporto che il capitale privato dovrebbe dare ai “salvataggi” al fine di evitare il fenomeno dell’”azzardo morale” (ossia che si continui a razzolare male). All’inizio degli Anni Novanta, furono molti a prevedere che l’unione monetaria sarebbe potuta finire “a pezzi e rattoppi”. Un saggio su questo tema venne scritto da uno dei maggiori economisti americani, Martin Feldstein, per non ricordare che una delle voci più autorevoli. È antipatico citare se stessi, ma scrissi anche io un saggio di questo tenore su La Rivista di Politica Economica n.1, 1999 e venni per anni tacciato di essere anti-europeo. In effetti, l’unione monetaria è stata creata non per esigenze economiche o perché il grado d’integrazione dei mercati dei beni, dei servizi e dei fattori avesse raggiunto un grado tale da richiedere una moneta unica ma a ragione dell’unificazione tedesca – e del pericolo che il costo venisse posto sulle spalle di europei privi di voce in capitolo.

Avrebbe causato – come è avvenuto – un rallentamento della crescita complessiva(a ragione delle politiche della moneta e di bilancio ad essa associate) e anche squilibri all’interno dell’area. Per esempio, pochi sanno che da quando è nato l’euro, i disavanzi delle partite correnti di Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia hanno accumulato aumenti pari rispettivamente al 19 per cento, 90, 85, e 13 per cento dei rispettivi Pil mentre le bilancia dei pagamenti di Germania, Paesi Bassi, Finlandia e Francia hanno rispettivamente accumulato saldi attivi pari al 32 per cento, 54,60 e 3 per cento del Pil. Ciò è una conseguenza, in parte, del ristagno della produttività del lavoro (e per occupato e per ora lavorata) dei Paesi con i conti con l’estero in rosso. A sua volta, l’afflusso di capitali essenziale per saldare la bilancia dei pagamenti, ha causato un aumento del credito totale interno, la cui proporzione rispetto al Pil in Irlanda, Grecia e Spagna è raddoppiata, in Portogallo aumentata del 50 per cento in Italia, grazie alla prudenza della nostra banca centrale e degli intermediari finanziari, cresciuta solo del 20 per cento. L’aumento del credito totale interno, infine, ha causato un’inflazione strisciante (anche se “nascosta”) in tutti i settori dei Paesi in deficit e in alcuni di loro (specialmente Spagna) una crescita iperbolica di comparti – come l’immobiliare – a basso rendimento.

Si è verificata, su base regionale, una “grande moderazione apparente” (bassi tassi d’interesse, crescita contenuta ma costante), per utilizzare il lessico di Hyman Minsky, con tutti i germi di crisi ben descritti dall’economista di Chicago. Illusorio pensare che le tre nascenti agenzie di regolazione e controllo risolvano il problema. Senza dubbio occorre pensare, nel breve periodo, a misure collegiali di controllo del credito totale interno nonché a procedure di fallimento finanziario di Stati Sovrani come quelle delineate da Leskek Balcerowicz in un bel libro appena edito dall’Istituto Bruno Leoni. Soprattutto, occorre ripensare le fondamenta dell’unione monetaria ed andare ad un sistema analogo, su base regionale, a quello detto “di Bretton Woods”, rinegoziando le parità centrali delle monete nazionali con l’euro (bloccate a quelle in vigore nel 1989) e prevedendo se del caso aggiustamenti.

(Giuseppe Pennisi) 17 nov 2010 20:17

mercoledì 17 novembre 2010

Musica, applausi a Santa Cecilia per la celebrazione di Mahler Il Velino 17 novembre

Il Velino presenta, in esclusiva per gli abbonati, le notizie via via che vengono inserite.

CLT - Musica, applausi a Santa Cecilia per la celebrazione di Mahler


Roma, 17 nov (Il Velino) - Pullulano nelle maggiori città della musica le iniziative per celebrare i 150 anni dalla nascita e i 100 dalla morte di Gustav Mahler. Roma è l’unica città europea in cui è in atto una vera e propria “concorrenza” tra due grandi orchestre sinfoniche: quella, poco più che centenaria, dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (per il calendario completo www.santacecilia.it) e quella della più giovane (non ancora dieci anni di vita e un’età media degli orchestrali sulla trentina) Orchestra sinfonica di Roma ( www.orchestrasinfonicadiroma.it). Entrambe programmano una quasi-integrale del compositore boemo. “Quasi”, perché l’Osr non ha in cartellone l’ottava sinfonia che richiede almeno 500 esecutori, mentre Santa Cecilia non prevede la decima (incompleta) e numerosi lieder. A tre dei quattro direttori ascoltati sino ad ora sono affidati gran parte dei 15 concerti ancora in programma sino a novembre 2011: Antonio Pappano, Valery Gerviev e Francesco La Vecchia. L’ultimo concerto allestito è la quinta sinfonia, la cui direzione è stata affidata a Gergiev. E’ una delle sinfonie mahleriane più spesso eseguite a Roma con i complessi dell’Accademia. Nel 2008 la diresse Christian Arming, nel 2003 Gary Bertini, nel 2002 Myung Whung Chung. E’ stata ascoltata anche con due orchestre giovanili (una statunitense e una latino-americana) guidate rispettivamente da Michael Timpson Thomas e Gustavo Dudamel. E’ ancora vivo il ricordo di Giuseppe Sinopoli nel 1999, all’Auditorium di via della Concilazione, alla guida dell’Orchestra nazionale della Rai.

Sinfonia nota, in tre parti e cinque movimenti di cui uno, il terzo, è conosciutissimo: l’“Adagietto”, fu proprio Mahler a chiamarlo così, è un idillio per archi. E’ con i “Ruckert lieder”, uno dei lavori più dichiaratamente lirici del compositore di Kalischt, nonché uno dei più noti anche al pubblico che non frequenta le sale da concerto. E’ stato, infatti, usato (e spesso abusato in arrangiamenti vagamente sentimental-popolari) come accompagnamento di film: si pensi, ad esempio, a “Morte a Venezia” di Luchino Visconti, dove al lirismo dell’“Adagietto” venivano date improbabili intonazioni morbide, mentre si tratta di un omaggio del maturo compositore alla giovanissima moglie. Gergiev sottolinea con passione il distacco tra l’“Adagietto” e il resto della sinfonia, dai tre movimenti che lo precedono (la “marcia funebre” iniziale, il “tempestosamente mosso” e lo smisurato “scherzo”) al travolgente “rondò” conclusivo con cui Mahler esprime l’incredibile e vitalità dell’umanità. Il pubblico, che come si è detto, conosce bene la sinfonia grazie alle numerose esecuzioni negli ultimi anni, ha salutato con circa 10 minuti di applausi i 75 minuti del lavoro.

(Hans Sachs) 17 nov 2010 13:12



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edizione completa

POLITICHE ATTIVE: ECCO QUELLE EFFICACI in Avvenire del 17 novembre

POLITICHE ATTIVE: ECCO QUELLE EFFICACI
Giuseppe Pennisi
Sul futuro dell’Europa e degli Stati Uniti si staglia lo spettro della disoccupazione di massa : la crisi scoppiata nel luglio 2007 ha comportato una forte contrazione della produzione e dell’occupazione, e l’opinione generalizzata degli economisti del lavoro è che l’”isteresi” –l’effetto di trascinamento di un fenomeno- questa volta sarà molto più duratura di quella sperimentata in fasi analoghe del recente passato.. Negli Usa ed in Europa, il tasso di disoccupazione supera già mediamente il 10%, in Grecia e Belgio viaggia verso il 13% e in Spagna è oltre il 20%.
Per individuare cosa fare, particolarmente utile un lavoro di David Card (Università della California a Berkeley), Jochen Kluve (Iza, ossia istituto federale tedesco per lo studio del lavoro) e Andrea Weber (Università di Mannhein) pubblicato sul numero di Novembre di The Economic Journal . Il lavoro copre un periodo lungo – dal 1995 (massima diffusione delle politiche ”attive”) al 2007 (lo scoppio della crisi)- ed esamina l’impatto di 199 programmi sulla base di 97 studi empirici al fine di trarne implicazioni di politica legislativa e di allocazione di risorse. Copre , quindi, un arco di tempo molto più ampio ed un campione di “casi di studio” molto più vasto di quelli di solito utilizzati in analisi di centri di ricerca nazionali (come, in Italia, Isfol) o negli stessi studi comparati di organizzazioni internazionali come l’annuale Employment Outlook dell’Ocse. Inoltre , nel lavoro, viene impiegata una metodologia statistica piuttosto elaborata per ricavare una tassonomia (ossia una casistica di politiche) tramite la quale categorizzare i 1999 programmi e giungere a stime quantitative omogenee di impatti. La conclusione è che le politiche “attive” meno efficaci sono quelle imperniate su programmi d’occupazione nel settore pubblico (per intenderci, i lavori socialmente utili o di pubblica utilità). Abbastanza efficaci , invece, le misure di assistenza alla ricerca di un impiego. Mentre, nel breve periodo, la formazione e la riqualificazione sembrano avere impatti modesti, dopo due-tre anni paiono avere risultati significativi.
Ciò ha implicazioni significative pure per l’Italia . Nonostante il Libro Bianco sul Futuro Modello del Modello Sociale del Paese (e lavori che ne hanno costruito il sostato, quali i saggi La Società Attiva di Maurizio Sacconi, Paolo Reboani e Michele Tiraboschi e Flessibilità e Sicurezze curato da Salvatore Pirrone per l’Arel) mostrino una convergenza su strategie quali quelle riassunte (anche da parte di “culture politiche” differenti”), in pratica gran parte della spesa pubblica per ammortizzatori occupazionali è per politiche “passive” di sostegno del reddito, nel cui ambito hanno assunto un ruolo sempre maggiore quelle “in deroga” (ossia per categorie tradizionalmente al di fuori dal “comparto” degli ammortizzatori). Ciò è il risultato della crisi iniziata nell’estate 2007 e di cui – come si è detto- in materia di occupazione e di lavoro non si vede ancora la luce alla fine del tunnel. Siamo, però, riusciti a smaltire una percentuale molto significativa dei programma d’occupazione del settore pubblico: ItaliaLavoro SpA , la principale agenzia in questo campo, ha ri-tarato la propria attività da gestore di lavoratori socialmente utili e di pubblica utilità (tramite società miste) a supporto tecnico dei centri per l’impiego, la cui efficacia viene riportata in graduale ma progressivo miglioramento. Non fanno difetto le risorse per la formazione, e riqualificazione ; tuttavia, dati recenti indicano che le Regioni dove le esigenze sono maggiori (quelle del Sud e delle Isole) sono in grande ritardo nell’utilizzazione di fondi europei (che rischiano di essere convogliati verso altri Stati dell’Ue). Inoltre, qualità, rilevanza ed efficacia spesso lasciano a desiderare, come suggerito tra l’altra da un serie di saggi nel n. 46 della Rassegna Italiana di Valutazione (il periodico dell’Associazione Italiana di Valutazione) in uscita in queste settimane. C’è, quindi, ancora molto da fare.

lunedì 15 novembre 2010

COME LIBERARSI DALLA GABBIA EUROPEA SENZA FARSI TROPPO MALE IN Il Foglio 16 novembre

COME LIBERARSI DALLA GABBIA EUROPEA SENZA FARSI TROPPO MALE
Giuseppe Pennisi
Alla luce della crisi finanziaria dell’Irlanda , la provocazione di Paolo Savona su Il Foglio del 10 novembre diventa di grande attualità ed ha un indubbio merito: riapre quello che dal 1992 è considerato un dibattito “proibito”, appropriato per libri e saggi da mettere nel vecchio Indice e da non farsi in ambienti politically correct. Parte delle stime di allora (bassa crescita, difficoltà di politiche di espansione della produzione e della produzione, una gabbia di vincoli nuovi in aggiunta della ragnatela di quella “nostrana” già in vigore) si sono, purtroppo, verificate. L’uscita dalla moneta unica da parte di uno o più Paesi d’Eurolandia è una strada molto costosa, il cui onere viene aggravato dalla recessione degli ultimi tempi. Per questo motivo, da un lato, la Germania ed altri Paesi cercano di attivare la cintura di difesa definita il 9-10 maggio scorso (sulla scia della crisi greca); da un altro, proprio alcuni tra i Paesi in maggiori difficoltà (oggi l’Irlanda) resistono ai finanziamenti del resto dell’Eurogruppo per il timore di essere considerati i “paria” del Club e per il tremore delle reazioni interne alle drastiche misure di risanamento necessariamente connesse agli aiuti.
Una valutazione approssimativa del costo di uscire dal Club (la provocazione di Savona) può essere effettuata per analogia con quello pagato da altri Paesi- il più significativo è il crollo dell’area della sterlina nel novembre 1967, seguito poco dopo da quello dell’unione monetaria tra gli Stati della Federazione malese e Singapore e cinque anni più tardi dalla East African Common Service. Allora il costo a breve termine venne valutato tra due e cinque punti percentuali del Pil. Ove l’Italia volesse scegliere questa ipotesi o vi fosse costretta, il costo si aggiungerebbe ad una recessione che è ha comportato un calo di sei punti percentuali di Pil dopo oltre dieci anni di crescita zero.
Il percorso diventerebbe meno costoso in caso di un riassetto dell’unione monetaria a ragione dello smottamento in corso, di cui la situazione dell’Irlanda oggi, della Grecia ieri e del Portogallo o Spagna forse domani sono sintomi eloquenti. Tale smottamento viene analizzato da un lavoro ancora in progress di Francesco Giavazzi e Luigi Spaventa in cui si prende lo spunto dall’accumularsi di disavanzi con l’estero di alcuni Paesi dell’euro e di saldi attivi in alti. Tale divergenza riflette non solo differenze crescenti di produttività tra i Paesi dell’area, ma anche di credito totale interno (innescato dai deficit con l’estero), e, quindi, d’inflazione “nascosta”. Già oggi l’euro ha valori differenti a seconda della banca centrale nazionale emittente (chiaramente indicata da una sigla su ciascuna banconota. Il differente valore dell’euro in varie parti dell’unione monetaria è comunque dimostrato dall’ampliarsi dello spread. Giavazzi e Spaventa auspicano che le nuove agenzie europee di regolazione (appena approvate dall’Ue) riescano a porre ordine mentre paventano, a ragione, la confusione aggiuntiva che provocherebbe il burocratico scoreboard (una pagella colma di indicatori anche di dubbia validità) proposta dalla Commissione Europea per premiare, o sanzionare, i i Governi degli Stati dell’unione monetaria. ’esito complessivo non potrebbe non essere una revisione dell’unione monetaria con una rinegoziazione delle parità centrali sottostanti l’euro (quando un euro spagnolo o greco vale in termini dell’euro tedesco), bloccate (per motivi di convenienza tatticas- facilitare il negoziato di Maastricht) a quelle sottostanti il vecchio ECU (European Currency Unit) dello SME nel 1989 (mentre produttività, credito totale interno, prezzi hanno preso percorsi divergenti). Ne risulterebbe, su scala europea, un sistema analogo a quello di Bretton Woods sempre che se ne affidasse il funzionamento ad una Bce riformata.