SIESTA MADRILENA
Giuseppe Pennisi
Lo spread tra i titoli di Stato decennali spagnoli ed i bund tedeschi ha raggiunto il massimo storico di 311 punti di base.Secondo quanto riferito dal Ministro dello Sviluppo Economico, Paolo Romani, Silvio Berlusconi avrebbe commentato la notizia , durante il CdM, sottolineando che il dato mostra che la Spagna “sta peggio di noi”. Eppure il dato cruciale di finanza pubblica spagnola non pare tale da terrorizzare i mercati: lo stock di debito pubblico rispetto al Pil sfiora il 70 percento (mentre quello dell’Italia è sul 116 per cento). Tuttavia, il deficit d’esercizio minaccia di toccare il 10 per cento nel 2010 (rispetto al 5 percento dell’Italia) Di questo passo, lo stock tra debito pubblico e Pil arriverà, secondo l’Economist Intelligence Unit al 90 per cento del Pil nel 2013 (mentre era appena il 38 per cento nel 2007). La tendenza fa tremare le piazze..
C’è molto di più di questi dati come rivela un rapporto del Banco de España, la banca centrale spagnola, diramato ieri in versione Il documento ha il crisma del servizio studi dell’istituto che, a sua volta, lo ha commissionato a Cesar Alonso Borrego della Università Carlos III di Madrid.
La ricerca scava nelle determinanti di economia reale che hanno reso la Spagna molto fragile. In particolare, l’analisi esamina l’andamento della produttività e della competitività nel periodo 1983-2006 – ossia da quando il Paese stava per entrare in quella che ora è la UE (l’ingresso avvenne il primo gennaio 1986) alla vigilia della crisi finanziaria (un 2006 euforico in cui il Governo Zapatero mostrava i muscoli).
Il lavoro documenta quali sono i fattori determinanti di economia reale che hanno causato, dalla nascita dell’euro (ossia negli ultimi dieci anni) un aumento dell’85 per cento del disavanzo dei conti con l’estero. La perdita di quote di mercato internazionale è ha radici in politiche industriali e del lavoro che hanno funzionato come un boomerang, concludono gli autori: avevano l’obiettivo di rendere la Spagna più produttiva e più competitiva ma la hanno appesantita ed infiacchita.
L’analisi pone in primo luogo l’accento sulla politica del lavoro, che negli Anni Ottanta e Novanta ha destato attenzione (ed anche ammirazione) in diversi Paesi UE per la flessibilità di una regolazione minima. Lo studio afferma che “l’alta percentuale di lavoratori a termine ed interinali ha ridotto la produttività sia nel manifatturiero sia nei servizi, anzi specialmente nei servizi che hanno utilizzato tali tipologie di rapporti di lavoro come la norma”; hanno inciso negativamente sulla fidelizzazione dei lavoratori alle imprese e hanno frenato incentivi a migliorarsi tramite la formazione. Lo studio rileva gli effetti tutt’altro che positivi della regolazione- spesso di competenza di enti locali - su prodotti e servizi intermedi - quali quelli pubblici locali- poiché rappresenta un costo pesante aggiuntivo sulla produzione dell’output finale. L’analisi è severa nei confronti dell’outsourcing : i servizi trasferiti al di fuori dell’azienda manifatturiera sovente finiscono in comparti protetti e dove la concorrenza è limitata. Interessante notare che la Germania ha seguito la strategia opposta: integrare i servizi nel manifatturiero per aumentare la catena del valore ed il grado d’internazionalizzazione.
L’analisi non fa riferimento ad un aspetto essenziale: avere ritardato di venti anni (con poche eccezioni quali l’istituzione del Politecnico di Barcellona) la riforma dell’Istruzione e dell’Università messa a punto con Unesco e Banca Mondiale all’inizio degli Anni Settanta. Un ritardo nella formazione di capitale umano che pesa ancora.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento