Vendere, vendere, vendere: così fan tutti
Mentre quando la crisi finanziaria era al suo apice, la preoccupazione principale dei Governi consisteva nel comprare per evitare fallimenti a catena, adesso l’obiettivo prioritario è ridurre lo stock di debito pubblico in rapporto al pil: stime Ocse e Fmi suggeriscono che nel 2014 quello dei Paesi industrializzati toccherebbe, nell’aggregato, il 115 per cento del pil. Si andrebbe in recessione o, nell’ipotesi più ottimistica, a crescita zero per circa trenta anni se si tentasse di ridurre uno stock operando sui flussi di valore aggiunto: stime relative all’Italia indicano che l’avanzo primario dovrebbe essere pari al 5 per cento del pil sino al 2027 per portare lo stock del nostro debito pubblico al 60 per cento del reddito nazionale. Ciò comprimerebbe la già gracile domanda privata di consumi ed investimenti. Quindi, occorre vendere parte dello stock di beni e servizi sotto il controllo pubblico. Per vendere ci vogliono compratori che valutino con cura i potenziali rendimenti. Di solito, non si compra per far beneficienza; il Buon Samaritano dona non entra in una transazione commerciale.
A livello di quanto controllato dalle amministrazioni centrali dello stato, c’è rimasto ben poco di appetibile dopo le privatizzazioni degli ultimi dieci anni: in sostanza, la Rai (per la quale ci sono già ipotesi concrete), e quote di Enel ed Eni. Altre attività (Tirrenia, Trenitalia) non solo tali da invogliare potenziali investitori. Men che meno SpA di nome più che di fatto (come ItaliaLavoro o Anaspa) caratterizzate da forti obiettivi sociali e pubblicistici. Molto si può fare – lo mostrano ad esempio recenti lavori di Astrid – in materia di servizi pubblici locali, specialmente dove il “capitalismo municipale” si è aggregato in grandi imprese, anche per rispondere alle direttive europee che l’Italia ha fatto proprie con la “legge Ronchi”.
Alcune lezioni si possono mutuare da quello che fanno gli altri. Ciò è tanto più necessario in quanto “vendere, vendere, vendere” è l’obiettivo di molti Paesi industriali – la principale eccezione è la Francia – con la conseguenza sono molti a mettere attività simili in un mercato in cui i principali compratori sono o i fondi “sovrani” di Paesi con lunghe storie di saldi attivi dei conti con l’estero oppure da quello che una volta era “il popolo dei BoT” (o titoli di Stato analoghi in altri Paesi) ed ora è alla ricerca di collocare i propri risparmi in impieghi “di tutto riposo” e con rendimenti che non siano impercettibili. Lo sottolinea, tra gli altri, il Working Paper No.803 del Dipartimento Analisi Economica dell’Ocse.
Tra la letteratura più recente, particolarmente utile una rassegna condotta dalla Banca mondiale (con la Rutgers University) , lo Nber Working Paper No.W16126. La ricerca studia i cicli di nazionalizzazione e denazionalizzazione in Paesi con una ricca dotazione di risorse, quindi i potenziali acquirenti di ciò che Paesi industriali maturi (sotto il profilo demografico e di impianti manifatturieri). Dalla rassegna si evince che i cicli di nazionalizzazioni e denazionalizzazioni (e quindi di appetito per acquisire in tutto od in parte imprese straniere in via di privatizzazione) dipende da un trade off (equilibrio) tra efficienza ed equità che come un pendolo oscilla in seguito a determinanti esterne (ad esempio, i corsi delle materie prime) ed interne (quali la pressione fiscale). Nel contesto attuale, il pendolo non starebbe oscillando a favore delle denazionalizzazioni – quindi, è il lato della domanda (internazionale) a dover destare preoccupazioni, più ancora di quanto non sia quello di cosa mettere in vendita.
Ciò nonostante, ci sono comparti chiaramente appetibili all’investitore internazionale. Un’analisi comparata della Università di Tokio (distinta e distante dalle nostre beghe), l’Iser Discussion Paper No.792 documenta che gli aeroporti sono un comparto che fa gola, specialmente in quanto, nei raffronti internazionali, quelli privatizzati oppure nati privati mostrano un elevato livello d’efficienza per la collettività e utili soddisfacenti per gli azionisti. Meno promettente, invece, la privatizzazione delle carceri, spesso uno slogan degli “ultras” delle privatizzazioni. Esiste una valutazione ex post dell’esperienza australiana, pubblicata sul numero di settembre del trimestrale economico “Abacus”. L’analisi raffronta due tipologie di privatizzazioni (con relative licenze di concessione): quelle varate prima del 2000 e quelle, invece, attuate dopo il 2000. La conclusione è che i risultati dipendono dalle specifiche clausole contrattuali; in breve, in questa materia, prima del 2000, lo Stato di Vittoria (negli antipodi) ha toppato, ma da allora si sta gradualmente rimettendo in sesto.
Curiosamente, infine, il Paese le cui denazionalizzazione (a livello tanto centrale quanto provinciale e perfino municipale) paiono più studiate sono quelle della Polonia nel quadro di un programma a lungo termine tra l’Università di Berkeley in California e l’Istituto di Management di Varsavia. La lezione principale è l’efficacia di “vendere, vendere, vendere” a livello locale, Anche perché lì si trova chi compra (nel caso specifico costruttori diventati facoltosi dopo il 1989).
A questo link puoi leggere tutti gli interventi del dibattito su "vendere, vendere, vendere" avviato dal Foglio.
di Giuseppe Pennisi
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