Storia di un successo economico, tra rigore e sviluppo
Forse è il caso
di imparare dalla Corea...
di Giuseppe Pennisi Una politica di crescita è possibile mantenendo il rigore finanziario e valorizzando capitale umano, ricerca e innovazione. Ne abbiamo un esempio concreto in questi ultimi giorni in cui la Repubblica della Corea del Sud ha ospitato il G20. Sono stato per diverse settimane in Corea nel Sud nell’autunno 1973 - allora il paese aveva un reddito pro-capite analogo a quello dello Zambia e pari all’80% di quello della Basilicata (all’epoca la Regione più povera d’Italia).
Lavoravo per la Banca Mondiale e all’epoca, grazie al fatto che godevo della piena fiducia di Robert S. McNamara (diventato presidente dell’istituto dopo essere stato a lungo ministro della Difesa degli Stati Uniti e prima ancora presidente e amministratore delegato della Ford Motor Co.) mi era stato affidato, a 31 anni appena compiuti, il compito di guidare un team interdisciplinare per allestire quello che sarebbe diventato il primo prestito al paese per la scienza e la tecnologia. Alcuni anni prima, in un volume pubblicato dalla Johns Hopkins University Press, la stessa Banca Mondiale aveva definito la Corea: un caso di sottosviluppo maltusiano crescente- ossia un paese senza speranze in cui la crescita demografica avrebbe inghiottito qualsiasi aumento dell’output a ragione della povertà di materie prime. La Corea stava cominciando a smentire , con i fatti, queste previsioni. E McNamara (con pochi altri) aveva deciso di scommettere sulla penisola.
Oggi il reddito pro-capite della Corea sfiora quello dell’Italia; alcuni anni fa, la Fiat tentò, senza esito, di vendere il reparto auto a un’industria del paese. Quale è stata la ricetta del successo? Già nel 1973, la politica di bilancio era guidata dal rigore, a ragione principalmente della continua minaccia di un attacco dal Nord (o di un’insurrezione fomentata da oltre-confine). Tuttavia, visitando per due mesi università, centri di ricerca e scuole, io e i miei colleghi rimanemmo impressionati dalla disciplina e dalla passione con cui, pur con pochissima strumentazione , si studiava e si faceva ricerca. Ancora oggi, mentre un occupato italiano o francese lavora, in media, 1450 ore l’anno, un coreano ne lavora 2400.
Nella spesa pubblica le priorità erano chiare: scuola, università, ricerca e soprattutto innovazione adattiva (ossia come “importare” nelle aziende e nelle cultura coreana il frutto di ricerche di base fatte altrove).
È un caso su cui riflettere nel rimodulare la nostra politica economica.
13 novembre 2010
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