sabato 31 marzo 2012

I fondi sovrani vogliono l’industria in Avvenire 1 aprile

I fondi sovrani vogliono l’industria


DI GIUSEPPE PENNISI

Cosa potremo trovare nella bi­saccia del presidente del Con­siglio Mario Monti al rientro dall’Asia? Il motivo del viaggio è stato quello di attirare investimenti di fondi sovrani asiatici verso «l’Italia-che­riforma » in modo da con­tribuire a quella crescita che dopo quindici anni di stagnazione e tre di re­cessione sembra un’ara­ba fenice. Anche soltan­to per immaginare il con­tenuto della borsa, oc­corre avere un’idea di quale è la consistenza dei fondi sovrani, quanti so­no, cosa fanno.

I fondi sovrani gestisco­no circa 3000 miliardi di dollari, sono oltre un mi­gliaio, non hanno un’associazione mondiale di coordinamento, ma si scambiano informazioni su strategie in incontri regionali oppure in seno a 'club' creati da alcuni di loro. Pochi sanno, ad esempio, che esiste un Long Term Investors Club (LTIC) di cui la Cassa Depositi e Prestiti Italiana è uno dei quattro soci fondatori ed a cui ha aderito, tra gli altri, uno dei fondi so­vrani cinesi. Il documento più completo è il Working Paper n.58 /2012 della Banca per i Re­golamenti Internazionali. Il volume contiene gli atti della Terza Conferen­za Internazionali degli Investitori Pub­blici tenuta a Basilea circa un anno fa: 80 partecipanti di 50 istituzioni si sono confrontati sulle strategie di investi­mento dei fondi sovrani. La conferen­za è stata organizzata dalla Banca mon­diale, dalla Banca centrale europea e dalla Banca per i regolamenti interna­zionali. Il tema centrale della riunione è stato il mutamento nell’allocazione delle attività dei fondi a ragione del cambiamento delle condizioni di mer­cato nel primo scorcio di questo de­cennio: in particolare da portafogli che davano la priorità all’investimento nei servizi finanziari (banche, assicurazio­ni) ed anche al mercato monetario (contribuendo ad apprezzare alcune valute) si sta passando ad una mag­giore attenzione al manifatturiero ed alla sua diversificazione settoriale e ter­ritoriale.

I fondi sovrani della Repubblica Popo­lare Cinese hanno fatto da battistrada. Un documento di Ming Zhang e Fan He analizza in dettaglio come già nel 2007 (ossia cinque anni fa) la China In­vestment Corporation abbia cambiato direzione di marcia, principalmente a ragione della crescente volatilità di col­locamenti finanziari. Lo illustra in det­taglio, uno studio dell’Università di Harvard, del M.I.T. e della Harvad Bu­siness School. I fondi condotti da ge­stori professionali tendono ad investi­re in industrie caratterizzate da rap­porti tra prezzi delle azioni e valori del­la partecipazione (in gergo la P/E ratio) bassi ma che promettono di crescere, mentre quelli controllati da politici ca­dono spesso su indicatori P/E elevati nella speranza (spesso non soddisfat­ta) che crescano ancora di più.

Molto interessante lo studio, pubbli­cato nell’ultimo fascicolo dell’ Austra­lian

Journal of Management del fondo sovrano di Singapore (la cui popola­zione è al 90% di origine cinese), Te­masek Holdings: utilizzando un cam­pione di 150 società (nazionali e stra­niere) quotate alla Borsa di Singapore in un lasso di cinque anni, c’è una mar­cata tendenza a collocamenti in società per azioni di grandi dimensioni, con pochi azionisti o gruppi di azionisti che possano bloccare decisioni e con si­stemi di incentivi (opzioni ai manager) ad aumentare fatturato e profitti.

Una notazione da tener presente vie­ne da uno studio ancora in fase di com­pletamento del Canergie Center. Ri­guarda i fondi dei Paesi del Golfo Per­sico più che quelli dell’Estremo Orien­te: fuga dalla volatilità vuole dire an­che certezza di regolamentazione e speditezza delle vertenze. Lo si pensa anche nel Bacino del Pacifico. Sono ca­ratteristiche che l’Italia è in grado di of­frire?

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venerdì 30 marzo 2012

McVicar, Il flauto magico ritorna giovane in Milano Finanza 31 marzo

McVicar, Il flauto magico ritorna giovane di Giuseppe Pennisi


Per comprendere il successo del pluripremiato allestimento de Il flauto magico di Mozart curato da David McVicar, in scena al Teatro dell'Opera di Roma fino all'1 aprile, è utile leggere Tutte le lettere di Mozart, pubblicate di recente in italiano. Lo spettacolo di McVicar, ripreso al Covent Garden quasi ogni stagione dal 2003 e ora per la prima volta in trasferta Oltremanica, fa piazza pulita di buona parte della simbologia massonica e propone una favola a colori sgargianti e ritmo spedito incentrata sul tema che allora più preoccupava Mozart: accelerare il passaggio di potere dalle vecchie alle giovani generazioni.

Per il Principe Tamino e la Principessa Pamina, e per la coppia buffa (Papageno e Papagena) che li interfaccia, il percorso di iniziazione è all'eros, all'amore e, soprattutto, al potere. Nel quadro finale, il Re e Grande Sacerdote (Sarastro) cede mantello e scettro a Tamino, ma anche Pamina ha la sua parte (l'epistolario mostra un Mozart più femminista dei suoi librettisti). Sotto il profilo musicale, Erik Nielsen concerta con brio. Di livello le due giovani coppie (Juan Francisco Gatell e Hanna-Elisabeth Müller, da un lato, e Marcus Werba e Sibylla Duffe, dall'altro) sotto il profilo sia della vocalità sia della recitazione. Leggermente deludenti Peter Lobert (Sarastro) e Hulkar Sabirova (la Regina della Notte). Buon il resto della numerosa compagnia. (riproduzione riservata)

IL RISVEGLIO DEL MAGGIOR EDITORE EUROPEO: LEZIONI PER L'ITALIA da Il Velino del 30 Marzo

IL RISVEGLIO DEL MAGGIOR EDITORE EUROPEO: LEZIONI PER L'ITALIA
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Roma - In una fase in cui dal mondo dei “media” arrivano solamente cattive notizie – la decisione di iniziare la procedura di liquidazione de il Riformista minaccia di essere l’anteprima della chiusura di molte altre testate - arriva una buona notizia dal maggiore editore europeo. E nessun giornale italiano pare accorgersene e cogliere il significato. L’editore tedesco Bertelsmann – guidato dal quarantacinquenne Thomas Thomas Rabe, lussemburghese di nascita ma che parla ugualmente bene il tedesco, l’inglese, il francese, l’olandese e lo spagnolo – sta cambiando pelle: da azienda grande ma strettamente controllata dalla famiglia Mohn nella piccola città di Gütersloh (meno di 100.000 abitanti nella Renania Occidentale - sta diventando una multinazionale e prevede di aumentare il proprio capitale sociale anche tramite offerte pubbliche di acquisto di quote azionarie. L’aumento di capitale non ha l’obiettivo di tappare falle di bilancio: nel 2011 l’azienda ha riportato 1,75 miliardi di euro di utili operativi, con appena una leggera diminuzione rispetto all’1,83 miliardi registrati nel 2010. Ma quello di varare un vasto programma di espansione – tutto nell’editoria- verso i nuovi mercati, specialmente quelli dell’Asia ed il Brasile.


La Bertelsmann – come è noto – possiede una della maggiori reti televisive europee, la RTL, che opera in Germania, Francia, Olanda ed altri Paesi; anni fa voci di un suo eventuale sbarco in Italia fecero tremare editori del settore. La RTL e la FreemantleMedia (un produttore di “reality”) sono macchine per utili. Mentre altri rami della complicata struttura aziendale - ad esempio la casa editrice Random House – danno prestigio ed autorevolezza ma hanno difficoltà a chiudere in pareggio. La Berstelsmann è anche, tramite la Gruner & Jahr, il maggior editore europeo di periodici, nonché editore dell’edizione tedesca del “Financial Times” Ed opera alla grande nel settore dell’informazione Internet. Si sa ancora poca dei programmi di espansione in corso di messa a punto. È stato annunciato che verranno presentati in autunno in parallelo con l’aumento di capitale e con una nuova organizzazione aziendale. È dato di sapere, tuttavia, che l’obiettivo è di potenziare la presenza in India, Cina e Brasile (che oggi rappresentano il 10% dei ricavi) e i servizi d’informazione telematica (oggi pari al 2% solamente degli utili). L’espansione è, quindi, rivolta specialmente al mercato internazionale e riguarda non solo televisione e internet ma anche l’editoria cartacea (i periodici e forse anche partecipazioni a quotidiani).


Questi i dati essenziali. Si collocano in un contesto in cui alcuni dei maggiori editori tedeschi di quotidiani – come Axel Springer – macinano utili (nonostante la crisi economica e gli alti costi della carta). Lezioni per l’Italia. Troppo ovvio notare come l’editoria tedesca non solo non è polverizzata come quella italiana ma si compone di molti quotidiani popolari e pochi quotidiani di qualità, tutti con forti basi locali. E più interessante sottolineare il processo di internazionalizzazione verso mercati dove c’è una forte domanda di informazioni anche tramite stampa tradizionale cartacea. Ciò richiede giornalisti addestrati all’uopo ed in grado di lavorare in più lingue. Quando nel lontano 1968 terminai i miei studi a Johns Hopkins, un caro amico americano voleva fare il giornalista; dopo avere lavorato a “Stars and Stripes” (il giornale delle forze armate Usa) fece domanda per entrare al “Washington Post” (dove fece tutta la sua carriere professionale e a 35 anni ebbe il Premio Pulitzer). I requisiti minimi per partecipare alla selezione richiedevano una laurea specialistica e la conoscenza, oltre all’inglese, di altre due lingue di cui almeno una a livello operativo. Phil McCombs (questo il nome del mio compagno di studi) aveva studiato un anno a Digione , incontrato là la futura moglie ed il francese era (anche negli Usa) la sua lingua tra le pareti domestiche. In Italia, molti giornalisti si oppongono a che la laurea sia un requisito per entrare nella professione e sono rare le scuole di giornalismo dove si imparano bene le lingue. La professione si condanna con le sue proprie mani al declino. (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 30 Marzo 2012 16:43

giovedì 29 marzo 2012

“INNOVAZIONE FRUGALE “ PER LA CRESCITA in Il Riformista 30 marzo

I LIBRI DEI MINISTRI- MASSIMO VARI
“INNOVAZIONE FRUGALE “ PER LA CRESCITA
Giuseppe Pennisi

Il Sottosegretario allo Sviluppo Economico è un giurista a tutto campo: avvocato, Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale, Presidente onorario della Corte dei Conti e già componente della Corte dei Conti Europea. E’ in gran parte sulle sue spalle, tuttavia, che grava l’onere della politica economica per la tecnologia, come si è visto dalla sua partecipazione, a nome del Governo, al recente seminario in cui è stato presentato il rapporto della Fondazione “Think” sul “Cloud Computing” .
E’ un “laico” dell’economia della tecnologia ma tre testi recenti lo hanno interessato: il settimo volume delle “Foundations of Evolutionary Economics” di Carsten Herrmann-Pillath della Scuola di Management di Francoforte, il volume “Reverse Innovation” di Vijay Govindarajan e Chris Trimble, e il libro “Jugaad Innovation” di Navi Radjou, Jaideep Prabhu e Simone Ahuja . Cosa hanno in comune questi studi di un teutonico e meticoloso economista che lavora sulla riva del Meno ed economisti-tecnologici indiani ed anglosassoni che dividono il loro tempo tra la madrepatria e la costa orientale degli Usa (non solo per insegnare e fare ricerca ma anche come consulenti di alcune delle maggiori multinazionali, quali la General Electric)?
L’analisi di Hermann-Pillath (in corso di pubblicazione presso Edward Elgard) è dedicato all’evoluzione della tecnologia da semplice a complessa ed al contesto istituzionale necessario per facilitarli. Gli altri due volumi circolano da tempo negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna (nonché in India) ma non sono di facile reperimento in Italia. Hanno una matrice comune: sottolineano il ruolo dell’”innovazione frugale” basata su “improvvisazioni brillanti” (Jugaad, in Hindi, vuol dire “svelto, furbo, brillante”) . I lavori citano una vasta gamma di esempi di innovazioni che , nate in Paesi in via di sviluppo come frutto di ricerche a basso costo (quindi, frugali), hanno conquistato vaste quote di mercato in Paesi ad alto reddito medio in campi dalla diagnostica medica alla meccanica . Fin’anche alla gestione del risparmio.
L’Europa ha di fronte a sé una lunga fase di austerità in cui tutti dovremo abituarci a spendere meno. Il motto che dovrebbe guidarci potrebbe essere “combattere la frugalità con la frugalità .

In Italia, peraltro, lo dovremmo sapere sulla nostra pelle: negli anni del “miracolo economico”, le nostre innovazioni furono “frugali” (dalla 500 alla lambretta, dalle nuove combinazioni chimiche ai primo modelli di minicomputer portatili) . Anche nei nostri distretti industriali si è privilegiate l’innovazione “frugale”. Pure le piccole imprese la hanno privilegiata; tra i tanti esempi la fabbrica di molle nei pressi di Frosinone diventata un modello per il resto del mondo.

’l’analisi La «bolla» indiana, uno tsunami in agguato in Avvenire 30 marzo

l’analisi La «bolla» indiana, uno tsunami in agguato


DI GIUSEPPE PENNISI

Q uietata per il mo¬mento la crisi greca, e mentre montano i timori d’insolvenze del debito estero della Penisola iberica, ci sono altre aree che cominciano a preoccupare. Gli specialisti cominciano a chiedersi se la prossima cri¬si debitoria potrà arrivare dall’Asia, in particolare da quella India che, seconda molta pubblicistica (anche italiana), sarebbe uno degli astri ascendenti dell’econo¬mia mondiale di un futuro non troppo lontano.

Ad un’occhiata superficiale, l’India sembra non in buo¬na ma in ottima salute (no¬nostante che nel suo mi¬liardo di abitanti, secondo la Oxford Poverty and Hu¬man Development Initiati¬ve, in solo otto Stati ci sono 421 milioni di poveri, una cifra che supera la popola¬zione aggregata delle 26 na¬zioni a più basso reddito dell’Africa a sud del Saha¬ra): il Pil cresce a tassi tra il 6% ed il 7% l’anno, e grazie all’espansione del denomi¬natore il rapporto tra stock di debito pubblico e prodotto nazionale resta stabi¬le attorno al 70%. L’India, tanto le pubbliche ammini¬strazioni federali e dei sin¬goli Stati, quanto, soprat¬tutto, il settore “corporate” delle grane imprese è tornato da qualche anno sui mercati internazionali dei capitali. Tuttavia, nono¬stante il governo indiano prema da anni per avere un miglior “rating” (che avreb¬be l’effetto immediato di ri¬durre i tassi d’interesse a cui ottenere provvista sul mercato mondiale), le maggiori agenzie danno risposte ben educate ma negative. Moody’s, ad esempio, attri¬buisce un “rating” Ba1 al de¬bito sovrano indiano in ru¬pie (analogo a quelli dell’Indonesia e del Marocco) e Baa3, il più basso nella clas¬sifica, a quello in valuta e¬stera (il 43% del totale). Fitch e Standard & Poor affib¬biano un BBB – al debito sovrano in rupie – lo scalino in fondo alle loro procedure di classificare obbligazioni.

Quali le ragioni? In primo luogo, il “rischio India” è mostrato dalla svalutazione progressiva ed incessante della rupia: mentre nel 2000 un dollaro Usa valeva circa 40 rupie ora ne vale oltre 50 e le previsioni sono che ne verrà circa 60 all’inizio del prossimo anno (ancora maggiore il deprezzamento rispetto all’euro). In secon¬do luogo, quasi un terzo del debito pubblico indiano in valuta scade nei prossimi mesi; data la situazione dei mercati mondiali e le tensioni politiche all’interno del Paese, il rifinanziamen¬to si prospetta costoso. In terzo luogo – e questo è l’a¬spetto più importante – il settore “corporate” sia pri¬vato sia a partecipazione statale si è indebitato alla grande (all’interno ed all’e-stero) ma numerose grandi imprese (dalla compagnia aerea di bandiera Air India alla maggiore concorrente privata Kingfisher Airlines, dal gigante dei grandi lavo¬ri Hindustan Construction alle aziende pubbliche nel comparto dell’elettricità) sono sull’orlo del fallimen¬to. Secondo un’inchiesta condotta dalla Reserve Bank of India (l’istituto di e¬missione) tra cento ban¬chieri indiani «prestiti ine¬sigibili ed insolvenze rap¬presentano il maggior ri¬schio per la crescita del Pae¬se ». Per evitare le falle più gravi, Pantalone sta intervenen¬do: per questo motivo a fi¬ne marzo, il disavanzo di bi¬lancio sta toccando il 6% del Pil rispetto al 4,8% di 12 me¬si prima. All’origine delle crisi ci sono sia errori a-ziendali (quali quello della Tata che ha puntano su una superutilitaria, la Nano, che si è rivelata piena di difetti ed è stata respinta del mer¬cato) sia politiche pubbli¬che che non hanno tenuto conto dei cambiamenti nella struttura economica e nel contesto internazionale.

Questo è, ad esempio, il ca¬so dell’aereonautica civile (afflosciatasi dietro una for¬te barriera protezionistica) e dei servizi pubblici : le fer¬rovie, che trasportano ben sette miliardi di passeggeri l’anno non hanno ritoccato le tariffe da nove anni e quando, per evitarne il col¬lasso, il ministro dei Tra¬sporti ha suggerito che fos¬se giunto il momento di un adeguamento, tutte le forze politiche e sindacali ne han¬no chiesto le dimissioni. Non si hanno dati aggregati completi sul debito estero “corporate” e sulla sua struttura. I mercati si ram¬mentano che questo fu 15 anni fa il caso della Corea. E, quindi, tremano.

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Preoccupano gli analisti la svalutazione progressiva della rupia e la scadenza, tra pochi mesi, di quasi un terzo del debito pubblico Secondo un’inchiesta condotta dalla Reserve Bank of India «prestiti inesigibili ed insolvenze sono il maggior rischio per la crescita»

mercoledì 28 marzo 2012

IL RITORNO DI THOMAS ADÈS in Il Velino 28 marzo

il Velino/AGV presenta, in esclusiva per gli abbonati, le notizie via via che vengono inserite.
IL RITORNO DI THOMAS ADÈS

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Roma - Thomas Adès è uno dei maggiori compositori contemporanei. A 41 anni, si è gi meritato un posto nella National Portrait Gallery di Londra dove il suo ritratto occhieggia tra quelli di Benjamin Britten e di Edward Elgar. Giunto alla ribalta internazionale, sia come pianista sia come direttore d’orchestra sia come compositore, già a 22 anni con lavori complessi per grande organico orchestrale, suscitò scandalo quando a 24 compose e realizzò un’opera da camera insolitamente lunga (due ore e venti minuti di musica) sugli exploit sessuali della Duchessa di Argyll, Margaret, denominata “The Dirty Duchess” ed al centro (a causa delle sua avventure) di vari processi. Il lavoro, rappresentato per la prima volta in Gran Bretagna (con grande successo) nel 1995, arrivò a Roma nel novembre 2002 per iniziativa della Filarmonica Romana e dell’Istituzione Universitaria dei Concerti. Allora venne chiamata “porno-opera” (ma la seicentesca “La Callisto” di Giovanni Cavalli, nell’edizione di Herbert Wernicke presentata negli Anni Ottanta a La Monnaie a Bruxelles e disponibile in DvD, è sessualmente molto più esplicita). I tempi sono cambiati; in queste settimane si può ascoltare a La Fenice in un allestimento di Pier Luigi Pizzi, che si è già vista al Teatro Rossini di Lugo di Romagna, al Teatro Comunale di Bologna, ed al Teatro Dante Alighieri di Ravenna. Una più recente opera di Adès (“The Tempest” tratta dall’ultimo lavoro per la scena di William Shakespeare) è stata commissionata dal Covent Garden ed è stata già vista a Copenhagen, Strasburgo, Santa Fè e Lubecca; questa stagione è in programma al Metropolitan di New York ed alla Quebec Opera.

In attesa che “The Tempest”, acclamata come il “Peter Grimes” di questo primo scorcio di Ventunesimo Secolo, arrivi in Italia (con i tempi che corrono, i sovrintendenti amano puntare su titoli sicuri), l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, ne ha presentato una sintesi (ossia alcune scene particolarmente eloquenti sia dell’inizio che della conclusione) in un concerto (replicato tre volte) diretto da Adès in persona e preceduto da un incontro al Maxxi (il museo di arte contemporanea) unitamente ad una proiezione dell’opera (ne esiste un DvD in commercio). Il concerto, intitolato “Tempeste” è stato aperto dalla fantasia sinfonica di ajkovsky “La Tempesta” e dopo la prima esecuzione a Roma di “Asyla” di Adès (una sinfonia in quattro parti commissionata da Berliner Philarmoker) e la suite “La Tempesta” di Sibelius, è stato chiuso con scene da “The Tempest”.

Soffermiamoci sui lavori di Adès. “Asyla” è una sinfonia classica in quattro movimenti per un vasto organico articolata su un abile contrasto tra percussioni ed il resto dell’orchestra in una logica di trasformazioni continue. Il pubblico della stagione sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è tradizionalista , ove non conservatore; una parte è rimasta affascinata, un’altra perplessa. Sulla base delle scene presentate, “The Tempest” presente molte differenze rispetto alla scrittura eclettica di “Powder Her Face” (molto imperniata su numeri di bravura e su Sprechgesang). In “The Tempest” il canto caratterizza i personaggi: una linea solenne per Prospero (il baritono Christopher Maltman), virtuosismo di coloratura per Ariel (il mezzosoprano Audrey Luna) e teneri duetti per Miranda (il soprano Rosita Frisani) e Ferdinando (il tenore David Portillo). Un concerto davvero affascinante. (ilVelino/AGV)
(Hans Sachs) 27 Marzo 2012 16:50

IL “FLAUTO” MAGICO”DI MCVICAR, UNA FAVOLOSA INIZIAZIONE SENTIMENTALE in Il Riformista del 29 marzo

IL “FLAUTO” MAGICO”DI MCVICAR, UNA FAVOLOSA INIZIAZIONE SENTIMENTALE
Beckmesser
E’ approdata al Teatro dell’Opera (dove si replica sino al primo aprile) il pluripremiato allestimento de “Il Flauto Magico” di Wolfgang A. Mozart curato da David McVicar nel 2003 per il Covent Garden e già ripreso tre volte a Londra, nonché disponibile in DvD. E’ la prima volta che lo spettacolo traversa la Manica.
Nonostante McVicar mantenga, specialmente nella seconda parte, gli elementi essenziali della simbologia massonica del Singspiel (lavoro in cui i numeri musicali i alternano a parti recitate), la regia (come quella del film di Ingmar Bergman del 1974) presenta “Il Flauto” essenzialmente come una bella favola, in un Settecento dai colori sgargianti. In breve una storia di iniziazione all’eros ed all’amore sia per il Principe Tamino e la Principessa Pamina sia per la coppia “buffa (Papagino e Papagena) che interfaccia la prima. La vicenda si dipana speditamente (in uno spettacolo di circa 3 ore) grazie all’abile recitazione di tutti i cantanti ed ai numerosi cambi scena a vista. Sotto il profilo musicale, Erik Nielsen, americano ma di formazione tedesca, tiene bene l’insieme e concerta con brio. Di alto livello le due giovani coppie (Juan Francisco Gatell e Hanna-Elisabeth Müller, da un canto, e Marcus Werba Sibylla Duffe, dall’altro). Sottotono, invece, i due “anziani”, Peter Lobert (Sarastro) e Hulkar Sabirova (la Regina della Notte). Buon il resto della numerosa compagnia, specialmente i “tre fanciulli” e le “tre dame”.

lunedì 26 marzo 2012

Le "carte" di Amato e Dini tra i promemoria del Premier in Il Sussidiario 27 marzo

Le "carte" di Amato e Dini tra i promemoria del Premier
Giuseppe Pennisi
martedì 27 marzo 2012
Mario Monti (Infophoto)
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VIAGGIO IN CINA/ Monti, impariamo dal flop di Prodi, int. a F. Sisci
FINANZA/ Da Cina e Usa un "avvertimento" per l’Italia, di U. Bertone
Il Presidente del Consiglio Mario Monti è partito per un “road show” di una decina di giorni con l’obiettivo, meritorio, di contribuire ad attivare investimenti verso l’Italia da paesi dell’Estremo Oriente e dell’Asia Centrale i cui conti con l’estero sembrano essere strutturalmente in sovrappiù. È probabile che i suoi interlocutori gli chiederanno che fine hanno fatto le riforme e in particolare quel Piano nazionale di riforme (Pnr) la cui bozza era stata annunciata per metà marzo e che comunque dovrà essere consegnato all’Unione europea entro il 30 aprile. Il Cnel ha già predisposto un documento di osservazioni e proposte e sono in dirittura d’arrivo i contributi dell’Osservatorio per le strategie europee per la crescita e l’occupazione (Oseco).
È chiaro che il Pnr non si sarebbe potuto completare senza il capitolo sul riassetto del mercato del lavoro. È anche chiaro che sarebbe stato prudente attendere il completamento dell’iter parlamentare del decreto sulle liberalizzazioni soprannominato “Cresci-Italia”. Occorre, però, chiedersi se il disegno di legge sul mercato del lavoro non rischia di essere fortemente riduttivo (rispetto alle attese suscitate). È una domanda più che naturale dato che il “Cresci-Italia” è stato, in gran misura, ridimensionato. È così difficile fare le riforme essenziali a far decollare un Paese la cui crescita è da quindici anni rasoterra?
Un testo di culto della sinistra riformista - “Come fare passare le riforme” di Albert Hirschmann (scritto negli anni Sessanta ma pubblicato in italiano da Il Mulino nel 1990) - sostiene che le riforme necessitano di anni di vacche grasse, in quanto i riformatori devono disporre di risorse con cui compensare le categorie danneggiate (anche quando il danno altro non è che una perdita di privilegi). La bassa crescita economica dell’Italia e le severe restrizioni finanziarie che sono state addotte - si dice - sono stati ostacoli alle riforme proprio perché, nel mercato della politica, non c’erano strumenti per “comprarle”. Con la crisi finanziaria e una recessione che si sta aggravando siamo in una situazione analoga?
Non necessariamente. Già nel 1991, in un libro a quattro mani (G. Pennisi e G. Scanni, “Debito, crisi, sviluppo”, Marsilio) venne dimostrato che in numerosi paesi la crisi del debito estero dell’ultima fase degli anni Ottanta è stata la molla per riforme, spesso coraggiose, quasi sempre predisposte da anni; documentammo anche che tali riforme avevano successo se “socialmente compatibili”. Pochi mesi dopo, tra il settembre 1992 e il marzo 1993, a fronte di una crisi tale da comportare il deprezzamento del 30% della lira, il Governo Amato attuò un programma di riforme drastiche (previdenza, mercato del lavoro, pubblico impiego).
Analogamente, nella primavera 1995, quando la lira traballava e si temeva per l’ingresso dell’Italia nell’euro, il Governo Dini riuscì a fare salpare la riforma della previdenza in cantiere sin dal 1978 (Commissione Castellino). Ancora, le riforme del mercato del lavoro, degli incentivi industriali, del bilancio dello Stato e l’inizio di quelle della scuola e università sono state varate negli “anni difficili” che hanno fatto seguito all’11 settembre 2001. Recentemente le nuove riforme della previdenza sono state con il “Salva-Italia” quando lo spread sembrava impazzito.
Per Governo e Parlamento, quindi, la crisi finanziaria ed economica dovrebbero - come affermava una vecchia pubblicità - mettere un turbo del motore delle riforme, specialmente di quelle “socialmente compatibili”. In primo luogo, tornare allo spirito iniziale del riassetto della previdenza, utilizzando eventuali risparmi per ammortizzatori sociali per i più deboli. In secondo luogo, attuare a pieno la modernizzazione della Pa per renderla più efficiente e più efficace, utilizzando il cloud computing. In terzo luogo, rivedere, una volta per tutte, contabilità speciali e fuori bilancio (spesso fonte di privilegi corporativi) e, se del caso, chiuderle. In quarto luogo, rompere le barriere tra i precari e gli altri.
È un disegno troppo ambizioso? Il documento Cnel (da due settimane nel sito web del Consiglio) suggerisce di andare verso un grande patto sociale per migliorare l’efficienza adattiva del Paese e modernizzarlo. Questo afflato di politica economica a medio e lungo termine, con un’attenta analisi dei costi e dei benefici di lungo periodo per le principali categorie sociali (principalmente le più deboli), è forse la cornice che è mancata e ha fatto sembrare le singole iniziative come azioni puntiformi, per frenare le quali si sono coalizzate le categorie che, a torto o a ragione, si sentivano prese di mira e colpite.
Ci sono anche stati errori tattici: la settimana scorsa, in particolare il 17-18 marzo, alcuni Ministri e Vice Ministri avrebbero fatto meglio a leggere “l’elogio del silenzio” prima di dichiarare a destra e a manca che l’accordo (sul mercato del lavoro) era ormai fatto. Non solo si brinda per l’acquisto di una casa solo dopo la registrazione del rogito, ma parlando troppo si suscitano irrigidimenti non certo favorevoli alle riforme.

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Da oggi a Roma il “Flauto” di McVicar in QuotidianoArte del 27 marzo

Da oggi a Roma il “Flauto” di McVicar
Giuseppe Pennisi
Oggi 27 marzo arriva a Roma “Il Flauto Magico” di Wolfgang A. Mozart, nella edizione curata dal regista scozzese David McVicar per la Royal Opera House di Londra, dove è stato già ripreso tre volte e da cui è stato tratto un pregevole Dvd.
È un appuntamento tra i più attesi della stagione. McVicar racconta di aver scoperto la lirica proprio guardando "Il Flauto Magico" nella versione cinematografica di Ingmar Bergman (1974).
L’allestimento raccoglie, con il sostegno delle scene e i costumi di John MacFarlane, le suggestioni dell’universo fiabesco di Mozart in un grande gioco tra costumi del Settecento e allegorie esoteriche.
“Il Flauto Magico” è stato concepito (come è noto) per un teatro di piccole dimensioni dei sobborghi di Vienna. Con elementi scenici essenziali e giochi di luci e di colori, lo spettacolo riempie tutto il potenziale dei grande palcoscenici della Royal Opera House di Londra e del Teatro dell’Opera di Roma per raccontare una fiaba d’amore (e di confronto tra il Bene e il Male).
Una gioia per gli occhi, oltre che per le orecchie.

domenica 25 marzo 2012

Per chi suona la musica di Boris? in Il Sussidiario del 26 marzo

OPERA/ Per chi suona la musica di Boris?
Giuseppe Pennisi
lunedì 26 marzo 2012
Un momento del Boris Godunov
Approfondisci
OPERA/ I Festival che resistono, nonostante la crisi
L'INTERVISTA/ Andrea Battistoni: la classica? Non è musica per vecchi
La Sicilia ci sorprende sempre. A Palermo è in corso una campagna elettorale confusa e disorientante. L’Isola è in piena recessione; se ne vedono i segni e pare certo che sarà lunga e profonda; ciò nonostante, c’è l’unica fondazione lirica in Italia (e una delle poche in Europa) che da sei anni chiude i bilanci in attivo e presenta, ogni stagione, accanto a repertorio tradizionale titoli da fare tremare i polsi e che neanche La Scala affronta da anni.


Uno di questi titoli è la versione critica in un prologo, quattro anni e nove scene del “Boris Godunov” di Modest Mussorgskij . L’allestimento, coprodotto con il Teatro Municipal di Santiago del Cile, è una grande intrapresa intercontinentale. Argentino il regista Hugo de Ana (autore anche delle funzionali scene, che si cambiano a sipario aperto, e dei lussuosi costumi predisposti da Casa Tirelli), la direzione musicale è dell’americano George Pehlivanian, il coro palermitano è rafforzato da elementi della radio di Cracovia. Nel ruolo del protagonista si alternano Ferruccio Furlanetto e Alexei Tanovitski.


Tra i diciotto solisti spiccano alcune note voci italiane come Marco Spotti e Chiara Fracasso ma sono in gran misura slavi: si scopre un grande tenore Mikhail Gubsy (nel ruolo del co-protagonista, il giovane monaco Grigory che pretende di essere lo zarevich Dmitri, figlio di Ivan il Terrible , fatto trucidare da Boris in culla) e con l’apporto di truppe polacche e lituane si lancia alla conquista della Russia). Gubsy ha la vocalità di tenore spinto , ma dal timbro chiaro e trasparente che nel ruolo aveva Nicolia Gedda. In breve uno spettacolo di gran classe che La Scala, il Teatro dell’Opera ed il San Carlo, nonché i maggiori teatri europei, dovrebbero fare a gara a noleggiare. Spettacolo, poi, di grande attualità a ragione delle tensioni sempre più evidenti in Russia: l’opera – ricordiamolo - si chiude non con la morte dello zar usurpatore ed omicida ma con il canto del povero “innocente”, considerato lo scemo del paese ma chiaroveggente nel delineare mille anni di guerre fratricide sul suolo della Grande Madre Russa.


Nella nota a fondo pagina, si riassumono sia le vicende storico-politiche su cui si basa il dramma di Alekasndr Puškin (una delle maggiori fonti di ispirazione di Mussorgskij) sia le caratteristiche delle varie versioni del “dramma popolare in musica”, per utilizzare la dizione dell’autore. Se ne contano, in effetti, almeno otto e sovente il pubblico meno avveduto assiste a “contaminatio” (con spostamenti di scene ed utilizzazione delle differente orchestrazioni) tra le varie versioni pensando che si tratti di parole e musica quali concepite da Modest Musorgskij. In altra sede, mi sono soffermato sugli aspetti più strettamente musicali che distinguono le versioni.


L’allestimento palermitano dell’opera ne coglie l’afflato shakespeariano che spesso non traspare in altre produzioni del lavoro. Si basa su due delitti politici: l’infanticidio di Dmitri perché Boris ascenda al trono e diversi anni dopo il travestimento del giovane monaco nelle vesti proprio di Dmitri per spodestare Boris. Tanto il primo quanto il secondo delitto politico hanno obiettivi che superano il particolarismo: Boris intende unificare la Russia in mano a clan di boiardi in lotta gli uni che gli altri (tentando così di portare a termine l’opera del suo predecessore, e padre dell’erede al trono da lui fatto uccidere, Ivan il Terribile); il falso Dmitri (un giovane monaco nelle vesti del redivivo legittimo pretendente alla corona) vuole avvicinare la Russia all’Occidente (come Pietro il Grande nella successiva opera di Mussorgskij “Khovanschina”) e per questo motivo si allea non solo con i boiardi insoddisfatti del troppo potere di Boris, ma anche con i polacchi e con i lituani in un disegno di vasto respiro costruito con il supporto tecnico (si direbbe oggi) dei gesuiti.

Con Lavia I Masnadieri vanno on the road in Milano Finanza 24 marzo

Con Lavia I Masnadieri vanno on the road
di Giuseppe Pennisi

Poco rappresentata in Italia I Masnadieri, prima opera di Verdi per un pubblico internazionale, debuttò a Londra nel 1847, alla presenza della Regina Vittoria, e con il più noto soprano drammatico di agilità dell'epoca, Jenny Lind, per cui venne scritta su misura. Tratto da una tragedia di Friederich Schiller, è un fosco dramma familiare: due fratelli (Carlo e Francesco) si contendono la successione al padre Massimliano e alla cugina Amalia.
Fino all'ecatombe finale. L'allestimento in scena al San Carlo fino al 31 marzo (e successivamente a Venezia, Trieste e forse Parma) si avvale della regia di Gabriele Lavia che, nel contempo, porta con una compagnia di giovani la tragedia schilleriana dal Teatro di Roma (dove è in scena fino al primo aprile) in Umbria e Toscana. Lavia dà una lettura politica (ribellione dei giovani contro l'ordine costituito) alla vicenda. Ciò funziona in prosa ma stride con il melodramma di Verdi e Maffei, imperniato sui confitti familiari. La concertazione di Nicola Luisotti mette in risalto gli aspetti innovativi (quali il preludio per violoncello). Lucrecia Garcia è una convincente Amalia (ruolo da far tremare i polsi). Buoni Artur Rucinski nel ruolo di Francesco, Giacomo Prestìa che interpreta Massimiliano e Aquiles Machado che recita Carlo, anche se la parte richiederebbe un tenore più corposo e dal timbro più brunito. Ottimo il coro guidato da Salvatore Caputo. Da augurarsi che questo “road show” riporti l'opera in repertorio. (riproduzione riservata)

venerdì 23 marzo 2012

Al Massimo di Palermo la vera prima di “Boris” 22 marzo

Domani alle ore 18.30

Al Massimo di Palermo la vera prima di “Boris”
Giuseppe Pennisi
Domani 23 marzo alle 18.30 al Teatro Massimo di Palermo si alzerà il sipario su “Boris Godunov” come lo scrisse, compose e orchestrò Modest Mussorgskij.
Si è temuto quasi sino all’ultimo momento che l’atteso appuntamento saltasse a causa di uno sciopero.
È un evento importante perché è la prima volta che in Italia viene eseguita l’edizione critica pubblicata nel 1975, in Gran Bretagna, e curata da David Lloyd-Jones; viene rappresentata regolarmente al Metropolitan di New York (dove ha debuttato nel 1976) e altrove e mostra la potenza dell’orchestrazione originale.
Esistono, infatti, varie edizioni del lavoro in quanto ai contempo nell’orchestrazione di Mussorgsklij parve rozza. Mentre in Russia e in numerosi Paesi dell’Europa orientale si ascoltava la versione Pavel Lamm e Boris Asaf’ev e, dal 1953, quella di Dmitri Šoštakovic, in Europa occidentale e negli Usa si seguiva, per lo più, quella raffinata ma fuorviante di Rimiskij-Korsakov e talvolta si sperimentava con quella di Šoštakovic. In Italia, la revisione critica di Llod-Jones è stata ascoltata a Firenze e Venezia, ma interpolata con altre edizioni.
Quindi, a Palermo la si ascolta per la prima volta in versione integrale. In una versione sontuosa, di forte impatto scenico e rilevante impegno produttivo, che può vantare un protagonista assoluto della scena lirica internazionale come Ferruccio Furlanetto, in un ruolo al quale è molto legato e che ha anche interpretato nel tempio della musica russa, il Teatro Mariinsky di San Pietroburgo. L’ allestimento è firmato da un artista ormai caro al pubblico italiano e apprezzato a Palermo per la sontuosità e l'eleganza dei suoi lavori, il regista scenografo e costumista Hugo de Ana, autore di due recenti apprezzati spettacoli inaugurali del Massimo (“Lohengrin”e “Sensoâ”).Alla guida dei complessi della Fondazione, una bacchetta di esperienza come George Pehlivanian.
INDIET

giovedì 22 marzo 2012

SCOPRIRE CHE ANCHE IN SUD AFRICA C’E’ L’ART. 18 in Il Riformista 23 marzo

I LIBRI DEI MINISTRI- ELSA FORNERO
SCOPRIRE CHE ANCHE IN SUD AFRICA C’E’ L’ART. 18
Giuseppe Pennisi
La fretta del Governo per la riforma del lavoro è dovuta anche alle scadenze imposte dal calendario del “semestre europeo” che comporta un’anticipazione del Piano Nazionale di Riforme (PNR) dal calendario consueto: si sarebbe dovuto presentare entro la fine di aprile ma la stessa Commissione Europea ha anticipato da gennaio a novembre la presentazione del quadro previsionale. E’ noto che il Governo avrebbe voluto portare il PNR al Consiglio dei Ministri il 15 marzo ed inviarlo a Bruxelles il 30 marzo. Ora si spera di presentarlo all’UE prima di Pasqua. In Italia, un PNR che sia silente in materia di mercato del lavoro non è un PNR.
All’interno dell’Esecutivo l’onere principale del confronto con le parti sociali è sulle spalle del Ministro Elsa Fornero, studiosa prestata alla politica. In materia, pare si sappia tutto (almeno sui modelli degli altri Paesi a cui ispirarsi). Più si scava più ci si accorge che ci sono terreni inesplorati. Ad esempio il Potchefstroom Electric Law Journal, un periodo scientifico della Repubblica del Sud Africa, nel Vol. 14, n.7 del 2011 contiene un saggio di Riaz Ismail e Itumeleg Tshoose, due giuslavoristi dell’Università del Sud Africa, di cui si evince che nel lontano Paese esiste una normativa non molto differente (per certi aspetti) dall’Italiano statuto dei lavoratori, con il suo tanto dibattuto art.18. E’ un grattacapo per le corti di appello quanto si è alle prese con licenziamenti che non sembrano necessità da impellenti esigenze operative aziendali. Senza entrare nei dettaglio del Labor Relations Act 66 del 1995 (ed in particolare dell’art.187(1)(i) – certamente ben noto al Vice Ministro Michel Martone), il saggio propone due rimedi: a) un esame dell’onere comparato in capo al lavoratore ed al datore di lavoro e b) l’integrazione delle specifiche della normativa tramite la contrattazione collettiva (come avviene in Canada e nel Regno Unito). Certo, l’Italia non è né il Sud Africa né il Canada né il Regno Unito. Ma forse non esiste unicamente il modello tedesco.
Da Oltre Reno, in particolare dall’autorevole Istituto di Ricerca Economia della Renania e della Wesfalia giunge uno studio non giuslavorista ma econometrico su come i disoccupato cercano lavoro . L’analisi (RWI Dicussion Paper n. 312) si basa sull’indagine UE delle forze di lavoro ed è stata condotta da Ronald Bachman e Daniel Baugmarten. Ad una prima lettura, può sembrare inconcludente dato che conclude che le caratteristiche degli individui e delle famiglie, oltre che il retaggio storico, determinano i modi e le maniere per cercare lavoro. Esaminando , però, le tabelle ed i grafici ci si accorge che l’Italia è preceduta solo dalla Lituania (nell’UE) in termini di scarsa fiducia nei canali e nelle strutture ufficiali preposte a questi compiti. Quindi, in parallelo con nuove norme, non sarebbe essenziale dare un bella ringiovanita e rinfrescata al dicastero? Tema che non è sul tavolo della trattativa ma che forse dovrebbe esserci .

INFORMAZIONE SU CARTA O SU WEB, URGE UN NUOVO MODELLO DI BUSINESS in Il Velino 22 marzo

INFORMAZIONE SU CARTA O SU WEB, URGE UN NUOVO MODELLO DI BUSINESS
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Roma - Il quotidiano Italia Oggi del 21 marzo ha pubblicato dati ufficiali agghiaccianti sul tracollo delle vendite di quotidiani. A febbraio rispetto allo stesso mese del 2011 ci sono stati, da un lato, un calo più accentuato per i giornali che già arretravano a gennaio e, dall’altro, segni positivi più contenuti per quei pochi che crescevano. Segnano, in particolare, contrazioni a doppia cifra il Giornale, giù del 15,6 per cento, e la Gazzetta dello Sport del 15,4 per cento. Repubblica flette del 7,2 per cento con 402.867 copie vendute. Il Corriere della Sera perde il 6,4 per cento rispetto a febbraio 2011 e scende a 459.072 copie. Dalla Rcs MediaGroup, può contare sull’apporto delle edizioni digitali che portano la diffusione complessiva in terreno positivo, su dell’1,1 per cento dalle 506.485 alle 511.971 copie. Libero è infine l’unico quotidiano che, pur rimanendo in territorio negativo, riduce le perdite. A febbraio la variazione percentuale è del -5,4 per cento con 100.409 copie, mentre lo scorso gennaio lo stesso dato era a -8,7 per cento con 100.114.

Il 20 marzo, nelle pagine interne del New York Times, quelle meno lette anche dai giornalisti che lo ricevono in pdf sul Pc o sull’iPad, un servizio non firmato (e proprio per questo meritevole di attenzione) analizzava le tendenze (in valore) della pubblicità su carta stampata e canali di informazione su web negli Usa nel 2011, raffrontati al 2010. Ricordiamo che il 2011 è stato, nell’America del Nord, un anno di espansione economica, di norma la crescita del Pil e dei consumi è un traino per la pubblicità. I dati sono più agghiaccianti di quelli relativi alle vendite dei quotidiani riassunti nel paragrafo precedente. Secondo lo studio “The State of the Nation’s News Media” del Pew Research Center – il maggiore centro di analisi mondiale sui media – per ogni dieci dollari di pubblicità perso dalla carta stampata (quotidiani, periodici), l’informazione su web guadagna un dollaro. Con una perdita netta al settore di nove dollari. In questo contesto, al fine di contenere costi di carta e diffusione, il Pew Research Center stima che nel 2012, cento quotidiani americani offriranno abbonamenti in pdf on line. Già oggi il New York Times ha 400 mila abbonati alla sua versione in pdf. Secondo lo studio, nell’arco di cinque anni, i maggiori quotidiani americani offriranno abbonamenti al cartaceo con consegna a casa (la prassi per decenni negli Usa) unicamente la domenica. Una notizia interessante per il web: guadagnano più pubblicità degli altri, quelli di approfondimento che hanno una conta accorata di “utenti unici” (ad esempio, in Italia questo è l’approccio de “IlSussidiario.net”). Negli Usa, l’informazione web con “utenti unici” ha segnato un aumento del 17 per cento tra il 2010 e il 2011.

Un’altra analisi di rilievo è il saggio di Matthew Gentkow, Jesse Shapiro e Michael Sinkinson pubblicato a pp. 2980-3018 dell’ultimo fascicolo dell’American Economic Review sulla base di un’analisi econometrica dettagliata nell’arco di tempo 1869-2004 concludono che gli effetti della stampa sul gioco democratico della politica sono minimi: incide, a livello locale, sulla partecipazione al voto ma non su per chi si vota. Addirittura nulli quelli della stampa “partisan”, ossia di partito.

Che concludere? “Non è tempo di piagnistei”, come disse Piero Bargellini agli Uffizi, con il fango sino alle ginocchia, dopo l’alluvione del 1966 a Firenze. Urge pensare a un nuovo “modello di business”. Merita attenzione la proposta di trasformare la proprietà di quotidiani, periodici e informazione su web da spa, srl e cooperative in fondazioni no-profit che potrebbero ricevere contributi fiscalmente deducibili dai loro sostenitori.

Altre grandi idee non se vedono. In un mondo in cui i giovani hanno sostanzialmente voltato le spalle alla carta stampata e lo faranno ancora di più man mano che l’iCloud si diffonde e le loro conoscenze di lingue straniere aumentano. Chi protegge l’esistente, perde sempre. In un mondo che cambia velocemente. (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 22 Marzo 2012 12:59

I Masnadieri «metallari» di Lavia in Avvenire 22 marzo

I Masnadieri «metallari» di Lavia


DI GIUSEPPE PENNISI

I Masnadieri, tragedia giovanile di Friederich Schiller è uno dei lavori più amati da Gabriele Lavia. La ha messa in scena quattro volte. L’ultima è quella che ha inaugurato ieri sera al San Carlo di Napoli la direzione musi¬cale di Nicola Luisotti e che andrà a La Fenice, al Verdi di Trieste e forse anche al Regio di Parma.

Lavia vede nella tragedia di Schiller un dramma della ribellione contro una so¬cietà oppressiva. I 'masnadieri' sono «ragazzi disadattati». Anche in questo lavoro, invece, Schiller ha un assunto e¬tico: la ribellione alla società distrugge l’istituzione primaria e più sacra, la fa¬miglia. Ciò è ancora più enfatizzato nel libretto di Maffei e nelle musica di Ver¬di sempre molto attento ai temi della famiglia.

L’opera è poco nota in Italia (ma in re¬pertorio negli Usa ed in Germania). Molti musicologi la considerano supe¬riore e più 'moderna' della più rap¬presentata Luisa Miller . È diseguale ma piena di gemme e innovazioni (come il preludio per violoncello solo e le arie della protagonista – parte prediletta da Montserrat Caballé e Joan Sutherland). Inoltre, è una delle rare opere di Verdi (che persa la fede attorno al 1840, fu per il resto della vita un non credente dubbioso) in cui la religione viene mo¬strata in una luce positiva (la scena del sacramento della confessione nel pri¬mo quadro del quarto atto).

Tanto nella versione 'schilleriana' quanto in quella 'verdiana' l’allesti¬mento scenico e la regia sono, con gli adattamenti necessari, i medesimi. Mentre in un teatro di prosa, vedere 'i masnadieri' come una banda di me¬tallari di un quartieraccio di New York è solo un’interpretazione discutibile, all’opera ciò stride con la scrittura or¬chestrale e vocale che anticipano Il Tro¬vatore,
altro lavoro cupo e centrato su un dramma familiare. Ne I Masnadie¬ri due fratelli (Carlo e Francesco) si con¬tendono tanto la successione al padre (Massimliano) quanto la cugina (A¬malia).

Luisotti tiene egregiamente sia l’equi¬librio tra buca e palcoscenico sia il flus¬so orchestrale che si avverte nono¬stante

I Masnadieri sia un melodram¬ma a numeri chiusi. Nel cast vocale svetta Lucrecia Carcìa (Amalia), sopra¬no drammatico di coloratura, in un ruolo scritto su misura per la svedese Jenny Lind che lo interpretò nel 1847 a Londra (dove l’opera debuttò). Di buon livello Aquiles Machado (Carlo), Artur Rucinski (Francesco) e Giacomo Pre¬stìa (Massimiliano). Ottimo il coro gui¬dato da Salvatore Caputo.

mercoledì 21 marzo 2012

Quei "flop" di Prodi e Berlusconi che spaventano Monti in Il Sussidiario 21 marzo

Quei "flop" di Prodi e Berlusconi che spaventano Monti
Giuseppe Pennisi
mercoledì 21 marzo 2012
Silvio Berlusconi e Romano Prodi (Infophoto)
Approfondisci
SCENARIO/ Pelanda: caro Napolitano, è ora del "Monti 2"
FIAT/ Dove nasce la "simpatia" tra Monti e Marchionne?, di P. Davoli
vai al dossier Crisi o ripresa?
Il settimanale britannico The Economist dedica la copertina e l’articolo di fondo a un tema, per molti aspetti, inatteso: i primi segni di ripresa mondiale. In effetti, tali segni cominciano a percepirsi: a) negli Stati Uniti è in corso un aumento e dell’occupazione e dei consumi; b) nella zona dell’euro spira aria di soddisfazione, ove non di bonaccia, in quanto si è sostituita con un’insolvenza coordinata un’insolvenza disordinata che avrebbe potuto contagiare il resto del continente; c) i mercati borsistici internazionali sembrano respirare profumo di recupero (l’indice mondiale di Morgan Stanley è aumentato del 9% dall’inizio dell’anno e del 20% dal punto di svolta inferiore toccato lo scorso ottobre; d) il rallentamento della caotica crescita cinese, e il disavanzo dei conti con l’estero della Repubblica Popolare, possono essere letti come l’inizio del riequilibrio dell’economia internazionale (senza che ci fosse un accordo politico come il Plaza Agreement del 1985); e) gli aumenti degli indici dei corsi delle materie prime (dalle derrate, ai metalli ferrosi, al petrolio) suggeriscono che sul mercato dei futures (le materie prime vengono vendute e comprate a termine o tramite opzioni più o meno complesse) si scommette su incrementi della produzione, dei redditi, dei consumi e degli investimenti per il 2013.
A un’analisi attenta delle statistiche (non solo quelle riprodotte nelle ultime pagine di The Economist ma anche le stime dei 20 maggiori istituti econometrici internazionali, tutti privati) si percepisce che i segni di recovery sono meno robusti di quanto possono sembrare a una lettura frettolosa: a) negli Stati Uniti si è soliti allentare i freni monetari e di bilancio in un anno elettorale; b) il nodo della Grecia non è del tutto risolto e si avvertono tensioni sui mercati di Portogallo e Spagna; c) Borse e materie prime tendono a essere eccessivamente reattive sia in rialzo, sia in ribasso; e) in Asia incombe la minaccia del debito totale (pubblico e privato) dell’India (che potrebbe scatenare una crisi analoga a quella della fine degli anni Novanta).
Non vogliamo, però, essere le Cassandra di turno (pur se la figlia di Priamo non aveva tutti i torti). E i segni di ripresa vanno valutati pensando positivamente: con le politiche appropriate - ci si augura - si rafforzeranno, tirando l’economia internazionale fuori dalla palude.
Paradossalmente, da un lato, la ripresa internazionale, se ci sarà e tanto più sarà robusta, agevolerà i compiti del Governo Monti, ma, da un altro, li complicherà. Li faciliterà in quanto un Paese (come il nostro) aperto all’economia internazionale necessita di un’espansione nel resto del mondo per essere da esso trainato. Li complicherà perché se continueremo a crescere a tassi rasoterra (o peggio ancora a essere in recessione), il giudizio interno e internazionale sarà impietoso.
È, in parte, ciò che accadde al Governo Berlusconi nel 2006 e al Governo Prodi nel 2008. Le rigidità e le incrostazioni dell’economia italiana impedirono di agganciarsi alla ripresa mondiale del 2004-2007, con gli esiti che conosciamo. Il “Cresci-Italia” ha eliminato tali rigidità e incrostazioni? Non sta a noi rispondere, ma a chi ha la responsabilità di governare.

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lunedì 19 marzo 2012

I Masnadieri itineranti in Quotidiano Arte del 19 marzo

A Roma, Napoli, Parma e Trieste

I Masnadieri itineranti
Giuseppe Pennisi
Poco rappresentata per decenni, I Masnadieri di Friedrich Schiller ora gira l’Italia in due versioni ambedue con la regia di Gabriela Lavia.
La tragedia di Schiller è in questi giorni al Teatro di Roma, al Teatro India sul lungotevere Vittorio Gassman di fronte al Gazometro.
Il rifacimento della tragedia di Andrea Maffei, messo in musica da Giuseppe Verdi nel 1846-47, debutta al San Carlo il 21 marzo e sarà uno dei punti forti del Festival verdiano a Parma (che co-produce lo spettacolo) in ottobre e la prossima stagione a Trieste.
Il tema del lavoro è che la ribellione alla società costituita è dannosa non solo di per sé, ma lo è anche perché mina l'entità etica della famiglia. Nella versione in prosa, I Masnadieri sono una banda di metallari anni ’80. Stivali, pantaloni stretti neri, cappelli o bombette varie, occhi neri e pistole a più non posso.
Per questa prima uscita della compagnia stabile, Lavia ha utilizzato tutto lo spazio che gli era concesso in una delle due sale del Teatro India.
I bozzetti delle scene e dei costumi dello spettacolo allestito per il San Carlo, oggi, e per il Regio di Parma e il Verdi di Trieste,domani, mostrano che un approccio analogo verrà impiegato per il “melodramma in quattro atti” che è stato a lungo uno dei cavalli di battaglia di Dame Joan Sutherland.
Vicenda crudele di vendette fratricide (quasi più truculenta de “Il Trovatore”) avrebbe dovuto lanciare Verdi a livello internazionale.
La prima avvenne il 22 luglio 1847 al Queen’s Theatre alla presenza della Regina Vittoria. La partitura ammorbidisse la violenza e il sangue del lavoro originale di Schiller.
Richiede quattro grandi voci: un soprano drammatico di coloratura (a Napoli, sarà Lucrecia Garcia), un tenore lirico (Aquiles Machado), un baritono (Vladimir Stoyanov), e un basso (Giacomo Prestia), oltre ad alcuni personaggi minori.
È un’opera a numeri chiusi, da considerarsi quasi un anello di congiunzione tra “Ernani” del 1844 e “Il Trovatore” del 1853.
Dimenticata per alcuni decenni, è stata ripresa con successo, inizialmente a San Diego e poi al Metropolitan per giungere in Europa al Covent Garden e al Festival di Baden Baden.
È in repertorio a Zurigo e a Francoforte.

sabato 17 marzo 2012

Democrazia limitata da Boris Godunov a Vladimir Putin in Il Rifornista del 18 marzo

Prima pagina
Democrazia limitata
da Boris Godunov
a Vladimir Putin

di Giuseppe Pennisi
C’è un nesso tra gli avvenimenti in Russia e l’edizione a Palermo del “Boris”, la vicenda dello zar usurpatore basata, sia sulla “tragedia” di Puškin sia sulla “Storia dello Stato Russo” di Karamzin.

Nella foto: Vladimir Putin

Vladimir Putin torna al Cremlino, il 9 marzo l’Istituto Studi di Politica Internazionale (Ispi) ha diramato un dossier sulla Russia a democrazia limitata. E a Palermo va in scena dal 23 al 30 marzo Boris Godunov di Modest Mussorgskij, assente da 25 anni dai palcoscenici della città. Il lavoro è un imponente affresco corale di forte impatto scenico e rilevante impegno produttivo, con un protagonista assoluto come Ferruccio Furlanetto, in un ruolo che ha anche interpretato nel tempio della musica russa, il Teatro Mariinsky di San Pietroburgo. L’allestimento è realizzato in coproduzione con il Teatro Municipal de Santiago del Cile e firmato dal regista, scenografo e costumista Hugo de Ana, da anni di casa in Italia.
La coincidenza è casuale ma c’è un nesso tra l’edizione del Boris a Palermo e gli avvenimenti in Russia. Modest Mussorgskij mise a punto almeno due versioni del testo e della musica del Boris - basate, in parte, sulla “tragedia” in 24 scene di Aleksandr Puškin (scritta nel 1825, ma, dopo notevoli difficoltà con la censura zarista, allestita, con numerosi tagli, solo nel 1870) ed in parte sulla Storia dello Stato Russo di Nikolaj Karamzin (redatta nel 1816-29 e diventata un libro di testo nella Russia dei Romanov).

Puškin e Karamzin vedevano la vicenda di Boris (assurto al potere alla fine del Cinquecento in una terra sterminata ma dilaniata da lotte profonde) con occhiali molto differenti. Puškin guardava a Shakespeare, alla tragedia del potere costruito sul delitto (come in Macbeth e Riccardo III). Per Karamzin la vicenda dello zar usurpatore era solo un episodio nel processo che avrebbe portato alla pacificazione ed alla unità di “tutte le Russie” grazie ai Romanov.
Oppure, per utilizzare il lessico di Sergei Krusciov, stabilizzato una “democrazia limitata” come quella di Putin. Si mette in scena il tentativo di creare (utilizzando pure l’infanticidio) l’unità politica della Russia. Il tentativo fallisce quando un giovane monaco (Grigorij) si rivolta contro lo zar usurpatore (per l’appunto Godunov), proclama di essere lui stesso in persona l’erede al trono sparito in circostanze misteriose (Dimitrij), utilizza la propria avvenenza per conquistare la principessa alla guida della dieta polacca (o essere da lei sedotto) e, con l’aiuto dei gesuiti desiderosi di “cattolicizzare” la Russia, forma un’armata di insorti, di polacchi ed anche di lituani per marciare contro Mosca. Nella versione definitiva del 1874, il protagonista è presente in solo tre quadri su dieci e nella scena finale, armate si susseguono ad armate per dare inizio ad una guerra millenaria.
A rendere tutto più complicato, c’è il nodo dell’orchestrazione giudicata rozza anche dagli amici più cari (come Rimskij-Korsakov) poiché Mussorgskij (auto-didatta in quanto costretto a guadagnarsi il pane da burocrate) non la avrebbe sufficientemente curata.
In aggiunta, Mussorgskij aveva l’abitudine di orchestrare le singole scene delle varie versioni mantenendo inalterata la scrittura a penna delle parti vocali. Sino a tempi recenti si rappresentavano edizioni che non corrispondevano a nessuna delle edizioni curate da Mussorgskij; sino alla fine degli Anni Sessanta veniva eseguita l’edizione “lunga” orchestrata da Rimskij-Korsakov e, più di recente, quella curata da Šostakovi.
Le differenze sono profonde: ottocentesca ma elegante come un arazzo seicentesco la prima, possente ed interamente novecentesca la seconda. Nel 1928 venne predisposta un’edizione critica di Pavel Lamm e Boris Asaf’ev. Mentre in Russia ed in numerosi Paesi dell’Europa orientale, si ascoltava la versione Lamm - Asaf’ev (in particolare sino all’esecuzione scenica della versione di Šostakovi nel 1953; da allora sono state presentate quasi indifferentemente), in Europa occidentale e negli Usa si seguiva quella raffinata di Rimskij-Korsakov e talvolta quella di Šostakovi.

Nel 1975, infine, è stata pubblicata, in Gran Bretagna, una nuova edizione critica a cura di David Lloyd-Jones; viene rappresentata regolarmente al Metropolitan di New York dal 1976 e mostra la potenza dell’orchestrazione originale. A Palermo si ascolterà proprio questa versione, una rarità poiché sino ad ora è stata presentata, per poche sere, unicamente a Firenze e a Venezia (interpolate con le altre versioni)
.
Non è una questione di lana caprina per una conventicola di musicologi. Ha profonde implicazioni politiche. I rapporti di Mosca sia con le varie Repubbliche della Federazione Russa sia con i suoi vicini del mondo slavo sia con l’Occidente ci riportano a situazioni di fine Ottocento-inizio Novecento ed anche ad avvenimenti in vario modo trattati nei due “drammi popolari in musica” di Mussorgskij (oltre a Boris, l’incompiuto Kovancina).
Boris si basa su due delitti politici: il primo per assicurarsi la successione al posto del legittimo erede ed il secondo per assumere l’identità dell’ucciso e diventare, a propria volta, un usurpatore. Tanto il primo quanto il secondo hanno obiettivi che superano il particolarismo: Boris intende unificare la Russia (tentando così di portare a termine l’opera del suo predecessore, e padre dell’erede al trono da lui fatto uccidere, Ivan il Terribile); il falso Dimitrij vuole avvicinare la Russia all’Occidente e per questo motivo si allea non solo con i boiardi insoddisfatti del troppo potere di Boris, ma anche con i polacchi e con i lituani in un disegno costruito con il supporto dei gesuiti. Fallisce Boris ed è destinato al fallimento, dopo pochi anni sul trono, anche il falso Dimitrij. Sino all’avvento di una “pacificazione” e “normalizzazione” da parte dei Romanov, che della modernità occidentale seppero cogliere solo gli aspetti più superficiali tanto da essere loro stessi travolti da Lenin. Per giungere alla “democrazia limitata”.

Sorge un interrogativo: quanto è superficiale l’occidentalizzazione di Vladimir Putin? Karl Wittfogel (Il dispotismo orientale, SugarCo 1980) sottolineò come il dispotismo sia connaturato ad una megamacchina in cui sono saldati il monopolio della violenza, il monopolio della produzione materiale ed il monopolio della produzione spirituale.
Luciano Pellicani (La genesi della modernità, Marco Editore, 2006) dimostra come la megamacchina viene messa in crisi dalla rottura di questi monopoli, in particolare di quello della produzione materiale (tramite il mercato) e di quello della produzione spirituale (tramite la libertà religiosa). Pellicani è un laico non credente.
Torniamo all’edizione critica di David Lloyd-Jones e alla edizione di Dmitrij Šostakovi. La prima è un’orchestrazione ruvida ma di un uomo di Fede: Mussorgskij era un ortodosso con punte di misticismo visionario. Il suo lavoro termina con una speranza di riscatto e per l’assassino-usurpatore e per la Russia. Dmitrij Šostakovi era un materialista ateo: le parole e le note sono le stesse, ma – nota uno dei maggiori specialisti di musica slava, Franco Pulcini – il suo «affresco storico diviene terribile, funereo, plumbeo» l’autoritratto quasi di un uomo «cupo e disperato».

Dal confronto delle due orchestrazioni si apre una chiave di lettura. La via della modernizzazione perseguita da Putin si articola sul mantenimento dell’unità nazionale e sull’apertura al mercato (a gruppi oligarchici di potere) ma manca ciò che Pellicani chiama la libertà della “produzione spirituale”. Senza di essa, non si arriva alla modernità.

“LA DONNA” DI STRAUSS SUL LETTINO il Il Riformista 15 marzo

“LA DONNA” DI STRAUSS SUL LETTINO
Beckmesser
“La Donna Senz’Ombra, di Richard Straus e Hugo von Hofmansthall è lineare. Sotto le vesti di una complicata favola orientale imbevuta di simbolismo per quattro ore di spettacolo: un uomo ed una non sono tali se non hanno figli (il nesso tra passato e futuro). Altrimenti, restano un eterno presente senza significato (e senza storia) e in una nube di eros di ma anche noia. Nel loro lavoro, Hofmannsthall e Strauss pensavano alle esigenze di rinascita nell’Europa distrutta dalla Grande Guerra: non per nulla nella loro opera precedente, “Ariadne auf Naxos”, avevano cantato in pieno primo conflitto mondiale, la vittoria di Eros su Thanatos. Due anni fa a Firenze, Yannis Kokkos presentò un allestimento colossale. L’estate scorsa a Salisburgo, Christof Loy optò invece per una produzione in cui la vicenda avveniva nel 1955 nella sala di registrazione dove Boehm incideva l’opera. La Scala ed il Covent Garden si sono rivolti a Claus Guth che presenta la complessa allegoria come un sogno di una donna in un trattamento psichiatrico. Alla “prima”, ci sono stati dissensi dal loggione. Che, invece, ha tributato ovazioni al direttore Marc Albrecht che catturato con una lettura avvincente e ha suonare in modo eccellente l’orchestra della Scala. (magnifico il contrappunto) Cast di ottimo livello con Johan Botha (Imperatore), Emily Magee (Imperatrice), Elena Pankratova ( Tintora), Falk Struckmann ( Tintore) e Michaela Schuster (Nutrice). Andrà a Londra (il Covent Garden la coproduce) ed numerosi teatri europei.

SERVONO AZIENDE PIU’ GRANDI STRATEGIA CERCASI in Il Riformista 15 marzo

I LIBRI DEI MINISTRI – CORRADO PASSERA
SERVONO AZIENDE PIU’ GRANDI STRATEGIA CERCASI
Giuseppe Pennisi

In questi giorno il Consiglio dei Ministri vari, nell’ambito del processo del “semestre europeo”- sta discutendo sul Piano Nazionale di Riforme (PNR) con l’obiettivo di inviarlo a Bruxelles, dopo i passaggi di rito, il prossimo 30 marzo. Il CNEL ha approvato un documento di osservazioni e proposte il 7 marzo; lo si può leggere sul sito dell’organo.
Secondo la Commissione Europea, i PNR dei 27 Stati dell’Unione dovrebbero indicare le misure che intendono adottare a tal fine avanzare più rapidamente verso gli obiettivi della strategia Europa 2020 e intensificare gli sforzi per attuare le riforme riprese nelle raccomandazioni specifiche per ciascuno Statoe del 2011. Il Consiglio Europeo dell’1-2 marzo ha discusso le azioni necessarie a livello dell’Ue per portare avanti il completamento del mercato unico in tutti i suoi aspetti, sia interni che esterni, e promuovere l’innovazione e la ricerca. L’enfasi è ancora una volta sulla ricerca, sull’innovazione e sulla tecnologia.
Resta un interrogativo di fondo, centrale ai pensieri del Ministro per lo Sviluppo Economico, Corrado Passera: perché ci sono Paesi che salgono, nella scala dello sviluppo, ed altri la discendono (anche dopo essere arrivati ai piani intermedi oppure alti). Daron Acemuglu e James Robison offrono una risposta nelle 540 pagine del volume “Why Nations Fail: the Origins of Power, Prosperity and Poverty”, appena pubblicato, a Londra ed a New York, dall’editore Crown. Al termine di un’accurata analisi di storia economica (effettuata con tutta la strumentazione quantitativa dell’economia neo-istituzionale) giungono ad individuare le caratteristiche dei Paesi in crescita in quelli che hanno politiche economiche “inclusive” che proteggono i diritti individuali, incoraggiano sforzi di singoli e di imprese e promuovono gli investimenti. I Paesi in declino hanno in genere politiche “estrattive” che spremono individui, famiglie ed imprese per favorire un’élite di parassiti. Vengono studiati casi (ad esempio, la Repubblica di Venezia) di Paesi “inclusivi” diventati “estrattivi”. Merita una discussione in Consiglio dei Ministri o si rischia di essere accusati di essere “accademici”?
Più concreto un dibattito, sempre sul PNR, attinente alle dimensioni d’impresa. In queste ultime settimane, l’Eurostat ha prodotto statistiche da cui si ricava che mediamente nell’Ue la produttività del lavoro nelle imprese con meno di 250 addetti è la metà di quella in imprese con più di 250 dipendenti. Uno studio del Carnegie Mellon di Pittsburgh conclude che i severi problemi del debito estero di Grecia, Spagna e Portogallo - l’Italia non è trattata nell’analisi - altro non sono che la punta di un iceberg che ha le sue radici nella bassa produttiva delle piccole e medie imprese (Pmi) che caratterizzano le economie dei tre Paesi. Le dimensioni d’impresa - afferma lo studio - non sono , almeno per quanto riguarda il Portogallo un esito della regolazione del mercato del lavoro. Un’analisi analoga, condotta dalla London School of Economics, attiene alla Francia: le imprese si addensano al di sotto della soglia dei 50 dipendenti per determinanti esogene che riguardano la normativa tributaria e lavoristica.
In Italia, infatti, la prevalenza di imprese micro e piccole è grandissima. All’ultima radiografia Istat risulta che in Italia la media di dipendenti per imprese è 4 e che le imprese con più di 250 dipendenti sono circa il 18% del totale. Non occorre una strategia per aumentare la dimensione delle aziende?

La donna senz'ombra porta Freud alla Scala in Milano Finanza 18 marzo

La donna senz'ombra porta Freud alla Scala
di Giuseppe Pennisi

È in scena alla Scala fino al 27 marzo La donna senz'ombra di Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss, che la considerava il proprio capolavoro. L'allestimento è coprodotto con il Covent Garden, dove andrà in repertorio. Scritta e composta durante la prima guerra mondiale, è una favola orientale in cui si intrecciano due temi: la paternità e la maternità come essenza della vita e la sofferenza come premessa della gioia.
Richiede cinque grandi voci, numerosi comprimari, un vasto organico e un complesso allestimento scenico con dieci quadrati e cambi a vista. Il giovane Imperatore, per esempio, viene trasformato in montagna di sale, ma diventa di nuovo uomo quando una lacrima mostra che ha compreso il significato della vita. Per rendere il messaggio esplicito, al coro dei bambini non nati con cui termina il primo atto corrisponde il coro dei bimbi che stanno nascendo, con cui si chiude l'opera. L'allestimento di Claus Guth trasforma la vicenda in un sogno freudiano da parte dell'Imperatrice che non ha capacità di avere figli. Alla prima, Guth ha ricevuto qualche dissenso dal pubblico che, invece, ha tributato ovazioni al direttore Marc Albrecht, il quale lo ha catturato con una lettura avvincente della partitura e ha fatto suonare l'orchestra della Scala, anche gli ottoni, ad altissimo livello. Ottimo il cast con Johan Botha (Imperatore), Emily Magee (Imperatrice), Elena Pankratova (Tintora), Falk Struckmann (Tintore) e Michaela Schuster (mefistofelica Nutrice).

CON "I MASNADIERI" GABRIELE LAVIA RADDOPPIA in Il Velino 17 marzo

CON "I MASNADIERI" GABRIELE LAVIA RADDOPPIA

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Roma - Tragedia giovanile, oggi poco rappresentata, di Friederich Schiller in cui il poeta e drammaturgo tedesco vuole dimostrare che la ribellione alla società costituita è dannosa non solo di per sé, ma lo è anche perché mina l'entità etica della famiglia, I Masnadieri è ora in tournée per l’Italia in due versioni ambedue con la regia di Gabriela Lavia. La tragedia di Schiller è in questi giorni al Teatro di Roma, al Teatro India sul lungotevere Vittorio Gassman di fronte al Gazometro. Il rifacimento della tragedia di Andrea Maffei, messo in musica da Giuseppe Verdi nel 1846-47, debutta al San Carlo il 21 marzo e sarà uno dei punti forti del Festival verdiano a Parma (che co-produce lo spettacolo) in ottobre.

Al Teatro Argentina I masnadieri Sono una banda di metallari anni ’80. Arrivano dal fondo della scena, in lontananza, neanche fossero la gang di qualche quartieraccio di New York; sono dei ribelli, hanno sposato la causa del male e avanzano verso di noi al suono di un’orecchiabile marcetta che ci conquista sin dalle prime sonorità celtiche. Stivali, pantaloni stretti neri, cappelli o bombette varie, occhi neri e pistole a più non posso. Lavia per questa prima uscita della compagnia stabile, ha utilizzato tutto lo spazio che gli era concesso in una delle due sale del Teatro India, non ha fatto costruire imponenti scenografie ma ha affogato il palcoscenico sotto uno strato di terra pali di metallo come querce in una foresta e le mura della sala interamente dipinte da graffiti, addirittura le porte da dove entra il pubblico sono una festa di teschi scheletri e scritte. Sullo sfondo, alla fine della sala, una scritta gigantesca: Sturm und Drang.

I bozzetti delle scene e dei costumi dello spettacolo allestito per il San Carlo oggi e per il Regio di Parma domani mostrano che un approccio analogo verrà impiegato per il “melodramma in quattro atti” che è stato a lungo uno dei cavalli di battaglia di Dame Joan Sutherland. Vicenda crudele di vendette fratricide (quasi più truculenta de “Il Trovatore”) avrebbe dovuto lanciare Verdi (allora 36nne) a livello internazionale. La prima avvenne il 22 luglio 1847 al Queen’s Theatre alla presenza della Regina Vittoria. Gli esiti furono poco entusiasmanti: il pubblico e la stessa Regina pensarono che la partitura ammorbidisse eccessivamente la violenza ed il sangue del lavoro originale di Schiller . Richiede quattro grandi voci: un soprano drammatico di coloratura (a Napoli, sarà Lucrecia Garcia), un tenore lirico (Aquiles Machado), un baritono (Vladimir Stoyanov), ed un basso (Giacomo Prestia) , oltre ad alcuni personaggi minori. E’ un’opera a numeri chiusi- da considerarsi quasi un anello di congiunzione tra “Ernani” del 1844 e “Il Trovatore” del 1853. Dimenticata per alcuni decenni, è stata ripresa con successo, inizialmente a San Diego e poi al Metropolitan per giungere in Europa al Covent Garden ed al Festival di Baden Baden . È in repertorio a Zurigo ed a Francoforte. Dopo questa ripresa a Napoli è in programma oltre che a Parma, a Trieste. (ilVelino/AGV)
(Hans Sachs) 16 Marzo 2012 18:08

giovedì 15 marzo 2012

Il Festival di Jesi in memoria di Spontini e Pergolesi in Il Sussidiario del 15 marzo

OPERA/ Il Festival di Jesi in memoria di Spontini e Pergolesi
Giuseppe Pennisi
giovedì 15 marzo 2012
Il Teatro Pergolesi
Approfondisci
OPERA/ I Festival che resistono, nonostante la crisi
OPERA/ Il Novecento italiano e americano in scena a Roma
Quando una dozzina di anni fa venni invitato al primo Festival Spontini Pergolesi nella piccola ma deliziosa Jesi, dove ambedue nacquero e dove ci sono due bellissimi teatri, restai sorpreso: la produzione di Spontini è, in gran misura, di opere monumentali per la Francia napoleonica e per il Regno di Prussia – oggi raramente messe in scena anche nei maggiori teatri perché provocherebbero il dissesto finanziario dell’ente, quella di Pergolesi limitata perché mori a 26 anni di età ed ebbe una vita professionale di circa sette anni. Eppure scegliendo tra lavori poco noti di Spontini e traendo spunto dalla celebrazioni per i 300 anni dalla nascita di Pergolesi, il Festival è riuscito l’integrale delle opere teatrali pergolesiane e si presenta con le carte in ordine per il prossimo autunno-inverno. Quattro titoli d’opera tra cui la prima esecuzione in epoca moderna de La fuga in maschera di Gaspare Spontini per il XII Festival (31 agosto -15 settembre), I Puritani di Bellini, Macbeth di Verdi e Lucia di Lammermoor di Donizetti per la 45esima Stagione Lirica di Tradizione del Teatro Pergolesi dedicata a Josef Svoboda, nel decimo anniversario dalla scomparsa del grande scenografo ceco. Per il Progetto Svoboda, la Fondazione Pergolesi Spontini ha siglato un protocollo d’intesa con l’organizzazione non-profit Josef Svoboda Scenograf, costituita dagli eredi del grande scenografo ceco.

Nell’annunciare il programma ha anche presentato il Bilancio Sociale – terzo in ordine di messa a punto di documenti di questa natura – dopo il Rossini Opera Festival e l’Arena di Verona. Sette titoli d’opera prodotti nel 2011, di cui 4 titoli di Giovanni Battista Pergolesi, per un totale di 24 recite; 702 giornate di apertura dei 6 Teatri storici gestiti nelle Marche, 57.937 frequentatori a Jesi e nei teatri aderenti, 33.965 giornate lavorative, 630 maestranze contrattualizzate nelle produzioni liriche, 655 fornitori di beni e servizi, 9258 studenti coinvolti nei percorsi formativi, pi di 12 milioni di contatti sul web. Sono alcuni dei numeri del Bilancio Sociale 2011 della Fondazione che dal 2006 chiude in attivo i propri conti (i dettagli a questo link).
http://www.fondazionepergolesispontini.com/bilancio_sociale/Bilancio_Sociale_2011.pdf


La prima esecuzione in epoca moderna de La fuga in maschera di Gaspare Spontini, commedia per musica in due atti su libretto di Giuseppe Palomba, ritenuta perduta e il cui manoscritto autografo è riapparso presso una casa d’aste londinese, inaugura al Teatro Pergolesi di Jesi il 31 agosto il XII Festival che proseguirà sino al 15 settembre con concerti, spettacoli ed eventi dedicati ai temi del travestimento e della trasformazione. Il nuovo allestimento dell’opera del compositore maiolatese è una coproduzione tra Fondazione Pergolesi Spontini e il Teatro San Carlo di Napoli, con la regia di Leo Muscato, le scene di Benito Leonori, i costumi di Giusi Giustino. Corrado Rovaris dirige la Artosphere Orchestra.
critta da Spontini nel travagliato periodo successivo all’avvento della Repubblica Napoletana del 1799, La fuga in maschera fu rappresentata per la prima volta durante il Carnevale del 1800 al Teatro Nuovo sopra Toledo a Napoli. Un’unica rappresentazione e poi il nulla per oltre due secoli. La partitura fu ritrovata sul mercato antiquario da Marco Palmolella, conservatore museale della casa Museo Gaspare Spontini di Maiolati Spontini.

Messa all’asta dalla Libreria antiquaria Lisa Cox di Londra, fu acquistata - nell'estate 2007 - dal Comune di Maiolati Spontini con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana e della Provincia di Ancona. Il Festival Pergolesi Spontini ne mette in scena la revisione critica di Federico Agostinelli (edizioni Fondazione Pergolesi Spontini).


I Puritani di Vincenzo Bellini inaugurano il 3 ottobre la 45^ Stagione Lirica di Tradizione del Teatro Pergolesi di Jesi, in un nuovo allestimento in coproduzione con i Teatri del Circuito Lirico Lombardo, con la regia di Carmelo Rifici, le scene di Guido Buganza e la direzione dorchestra affidata al giovane direttore marchigiano Giacomo Sagripanti. Il cartellone sar nfatti completato dalla ricostruzione, ad opera di Henning Brockhaus per la parte registica e di Benito Leonori (già assistente di Svoboda) per la parte scenografica, di due tra i pi celebri allestimenti realizzati in Italia dallo scenografo ceco: il Macbeth di Giuseppe Verdi, a Jesi in scena il 7, 9 e 11 novembre con la direzione di Giampaolo Maria Bisanti, in coproduzione con la Fondazione Teatro Lirico G. Verdi di Trieste e la Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova, e la Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti, il 23, 24, 25 novembre (anteprima giovani il 22 novembre) con la direzione di Matteo Beltrami, nuovo allestimento in coproduzione con i Teatri del Circuito Lirico Lombardo e il Teatro dell’Aquila di Fermo. Le tre opere saranno eseguite dalla Form - Orchestra Filarmonica Marchigiana e dal Coro Lirico Marchigiano V. Bellini. Quindi un’attenta scelta di coproduzioni per dividere i costi.

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Antologia per quattro danze americane in Artribune 15 marzo

Antologia per quattro danze americane
La scuola di danza americana ha innovato nella seconda metà del Novecento non solo negli Usa, ma in tutto il mondo. Tanto quanto quella russa lo fece nella prima metà del secolo scorso. L’Opera di Roma ne presenta un’interessante antologia.
Scritto da Giuseppe Pennisi | mercoledì, 14 marzo 2012 • Lascia un commento

L'Arte della danza americana - The River
Martha Graham, Alvin Aley, José Limon, Doris Humphrey sono nomi mitici nella storia della danza. In Europa, i loro spettacoli approdano per la prima volta al tempo glorioso del Festival dei due mondi di Spoleto, dando una forte scossa al mondo europeo del balletto, ancora in gran misura ancorato alla tradizione tardo-romantica, sebbene nella prima metà del secolo scorso avesse gradualmente metabolizzato la tradizione slava dei Ballets Russes, la cui prima a Parigi ebbe luogo circa cento anni fa.
La scuola americana porta con sé il senso drammatico della bellezza nei movimenti di corpi spesso coperti all’essenziale, senza i grandiosi costumi della tradizione classica né dello stile slavo. Si basa su partiture sonore nuove, almeno per l’Europa: le evocazioni di Copland, il jazz di Ellington, gli adattamenti moderni (e per solisti) di Bach intrisi di echi folklorici. Quella danza non nasce come lo sviluppo di una trama, ma primariamente come espressione di sentimenti o concetti, stilemi gradualmente incorporati nella coreutica europea (e mondiale), anche se le rappresentazioni erano spesso ospitate non nei grandi templi della lirica e del balletto, ma in teatri più vicini all’innovazione come la Filarmonica romana.

L'Arte della danza americana - Day on Earth
Il Teatro dell’Opera di Roma decide di guardare a quel momento straordinario di febbrile mutamento, costruendo un’antologia per quattro brevi balletti, rappresentativi proprio di quella storia della danza americana che muove dalla seconda guerra mondiale agli Anni Settanta. Si tratta di uno spettacolo fuori abbonamento in quattro parti, replicato una settimana e forse ripreso le prossime stagioni. È quasi un trentennio, quindi, dell’arte della danza d’America.
La prima è Diversion of Angels, che Martha Graham ideò a partire dal poema di Ben Bellitt, rappresentata il 13 agosto del 1948 al Palmer Auditorium di New London, in Connecticut. Su musica di Norman Dello Joio, il balletto è ripreso dai coreografi Denise Vale, Peter London, Peggy Lyman, che reinterpretano una poetica divagazione sulla bellezza della gioventù, sul piacere, sull’allegria, sulla gioia e sulla tristezza legate al primo innamoramento. Gli interpreti principali, Gaia Straccamore e Damiano Mongelli, si alternano con Alessandra Amato e Paolo Mongelli. La coreografia ha passi difficili – che richiedono prova di atletismo – specialmente nella prima parte, improntata all’esaltazione euforica di gioia e allegria che si tramutano in tristezza quando l’innamoramento è finito.

L'Arte della danza americana - Chaconne
È del 1947 Day on Earth di Doris Humphrey, una delle pioniere della danza moderna americana, su musica per piano di Aaron Copland. In scena Paul Dennis nel ruolo dell’uomo, si avvicenda con Alessandro Tiburzi e Riccardo Di Cosmo. Nel ruolo della donna Alessia Barberini si alterna con Claudia Bailetti. La versione di Day on Earth rimontata all’Opera di Roma porta la firma di Paul Dennis e Sarah Stackhouse, impegnata anche nella ripresa dell’assolo per violino di José Limón, Chaconne (del 1942), eseguito da Raphael Boumalia e da Manuel Paruccini svela l’influenza delle danze folkloristiche del Messico arricchite di connotazioni fortemente emotive ispirate alla musica di Johann Sebastian Bach. Due piccoli gioielli basati sull’armonia del corpo.

L'Arte della danza americana - Diversion of Angels
Chiude la serata The River di Alvin Ailey, ricostruito da Clifton Brown e Masazumi Chaya. Una miscela di danza classica, moderna e jazz sulle note di Duke Ellington vede impegnato in scena lo stesso Brown con Gaia Straccamore, insieme al Corpo di Ballo dell’Opera. Nato nel 1970, su commissione dell’American Ballet Theatre, The River è il frutto della collaborazione tra Alvin Ailey e Duke Ellington e nella combinazione dei generi esprime la mutevolezza dell’acqua nel suo viaggio verso il mare; una sorta di celebrazione della nascita, della vita e della rinascita. Quindi, estremamente stilizzato. Sul podio David Levi torna a dirigere l’orchestra romana dopo Uno sguardo dal ponte di William Bolcom.
Giuseppe Pennisi
www.operaroma.it

martedì 13 marzo 2012

Così l’Italia rischia un’altra "figuraccia" europea in Il Sussidiario del 13 marzo

Così l’Italia rischia un’altra "figuraccia" europea
Giuseppe Pennisi
martedì 13 marzo 2012
Infophoto
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GEOFINANZA/ E ora spunta un debito "nascosto" della Grecia…, di M. Bottarelli
FINANZA/ Cosa c'è dietro la retromarcia di Standard and Poor's e gli affondi di Moody's?, int. a J.C. Livermore
Oggi si riunisce a Bruxelles l’Ecofin. Si parlerà, senza dubbio, non solo del riassetto del debito della Grecia, ma anche e soprattutto dei tempi di ratifica del “Fiscal Compact”. Gli Stati che più hanno promosso e sponsorizzato il nuovo trattato premono perché 12 Stati dell’eurozona completino al più presto le procedure di ratifica e l’accordo sia nelle condizioni per poter entrare in vigore.
L’Italia deve evitare di essere, anche questa volta (come in altre vicende europee), il Pierino della situazione - ossia colui che ratifica il “Compact” in tempi stretti e senza un adeguato dibattito in Parlamento e nel Paese. Se ben ricordo, l’ultimo confronto serio e duro in materie europee avvenne nel 1978 in occasione della ratifica degli accordi di cambio (lo Sme), quando l’opposizione alzò le barricate (a mio avviso sbagliando nel merito, ma facendo riflettere l’opinione pubblica sulle implicazioni e dando giustizia all’importanza dell’atto). Il Trattato di Maastricht venne ratificato in meno di tre settimane, con una discussione parlamentare inesistente e senza alcun confronto nell’opinione pubblica.
Volevamo sfoggiare il nostro iper-europeismo, sapendo già, però, che non avremmo rispettato l’accordo. Tanto che, come documentato in “Temi di Discussione” n. 334 del servizio studi della Banca d’Italia, pochi mesi dopo la ratifica del Trattato, il Governo Ciampi mise in atto “una pausa” nella politica di risanamento dei conti pubblici (si avvicinavano le elezioni ed erano note le preferenze del Governo “tecnico” dell’epoca). La pausa turbò i mercati - sempre secondo il documento citato, mai smentito in oltre dieci anni dalla pubblicazione - e rese più oneroso il costo sociale complessivo del raggiungimento degli obiettivi di Maastricht.
Un confronto nel Paese sul “Fiscal Compact” è ancora più necessario di quanto sarebbe stato uno sulla ratifica del Trattato di Maastricht poiché il “Compact” del 2012 è molto più specifico del Trattato di vent’anni fa in tema di obblighi in capo all’Italia. In particolare, ove non interverranno “circostanze eccezionali” e altri “fattori rilevanti”, ci siamo impegnati a una strategia deflazionistica sino a quando il rapporto tra stock di debito e Pil non avrà raggiunto il 60% (rispetto al 120% di questi giorni). Una ratifica affrettata (come quella del Trattato di Maastricht) potrebbe dare a intendere che stiamo ancora una volta facendo “i furbetti del quartierino”, dando prova di iper-europeismo pur essendo certi di non osservare il “Compact”, trincerandoci dietro eccezioni e attenuanti. O, ancor peggio, che una élite tecnocratica a termine non ha il supporto della grande maggioranza degli italiani (a cui si chiedono forti sacrifici).
Ciò è tanto più necessario in quanto, nonostante gli sforzi mediatici, la politica estera non sembra essere, di questi tempi, il nostro forte. Nella trattativa del “Compact” abbiamo ottenuto poco o nulla. Nella vicenda (peraltro piuttosto oscura) dei nostri “marò” in prigione nello Stato del Kerala, da due settimane un Sottosegretario è in missione, svolgendo compiti normalmente affidati a un Console, e non pare che si riesca a tirar fuori un ragno buco. In quella ancora più inquietante del blitz britannico in Sudan, solo il Capo dello Stato ha, correttamente, fatto sentire la propria voce, mentre l’Italia ha subito un affronto ben peggiore di quello che abbiamo evitato a Sigonella.
Nessuna di queste sconfitte è da attribuirsi a questo o quell’individuo. Nel resto del mondo, però, un Governo privo di base elettorale e sostenuto da una mini-coalizione sempre in bilico conta meno di quanto paiono dire alcune apparenze enfatizzate dai media. I nostri partner lo sanno. E c’è il rischio che non ci prendano sul serio senza una vera disanima nel Paese sul “Fiscal Compact” e le sue ramificazioni per tutti gli italiani, specialmente i più deboli.

lunedì 12 marzo 2012

LA PRIMAVERA MUSICALE DI MONTECARLO PUNTA SULLA VARIETÀ in Il Velino 12 marzo

LA PRIMAVERA MUSICALE DI MONTECARLO PUNTA SULLA VARIETÀ
Roma - Al via il 16 marzo nel principato il festival Festival “Printemps des Arts”. Quattro weekend per tutti i gusti, dall’accordeon alle percussioni, dalla sinfonica alle avanguardie contemporanee

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Roma - Il Festival Printemps des Arts di Montecarlo è ormai entrato tra i grandi appuntamenti musicali internazionali della primavera. In programma dal 16 marzo all’8 aprile, quest’anno la kermesse presieduto da Carolina di Hannover (direttore artistico Marc Monnet) è articolato in quattro weekend e punta sulla varietà e l’originalità. Il primo fine settimana comprende cinque concerti di accordeon con la partecipazione, per la serata inaugurale, di Richard Galliano, tra i maggiori virtuosi contemporanei di questo strumento (16-18 marzo). Il secondo include una serata consacrata al repertorio per percussioni (23 marzo), un concerto di musica antica (24 marzo), una giornata “surprenante” articolata in 12 performance (25 marzo). E ancora, sei concerti dedicati alla musica sinfonica e da camera di Bruckner (30 marzo, 1, 4, 5, 6, 7 aprile), una serata che svela le tecniche compositive ed esecutive pianistiche più all’avanguardia (31 marzo) e una (8 aprile) in cui la musica russa, affidata alla pianista Anastasya Terenkova, si apre ad interventi artistici a sorpresa, per concludere il festival all’insegna dell’ironia e della leggerezza. In maniera discreta, ma non di secondaria importanza, scorre parallelamente al calendario delle rappresentazioni l’azione formativa dei giovani: conferenze, masterclass, performance e incontri con gli artisti, in cui la musica dialoga con il teatro e la danza, fanno parte delle iniziative pensate per gli a studenti, con un coinvolgimento sostanziale dell’Università di Nizza e della Scuola Superiore di Arti plastiche del Principato di Monaco e Monte-Carlo.

“Al centro della programmazione – sottolinea Monnet – c’è la composizione musicale che offre molteplici spunti e variegate possibilità di ascolto, dalla musica barocca a quella extraeuropea, dalle grandi orchestre (Tonhalle-Orchester Zurich, Sächsische Staatskapelle Dresden, London Symphony Orchestra, Orchestre Philharmonique de Monte-Carlo) al repertorio per accordeon, strumento talvolta poco considerato. ‘Aprire’ la sensibilità di ascolto, una tolleranza più larga nell’accettazione delle differenze, questo è l’obiettivo”. La musica di oggi (in particolare le prime esecuzioni assolute) sono presenti in maniera significativa: Nordheim, Mantovani, Bedrossian, Contet, Rebotier, Ibarrondo, Lazkano, Martinez, de Pablo, Lieti, Amy, Harvey, Aperghis, Kurtag, Xenakis, Cage, Liszt, Stockhausen, Nono, Dalbavie, le prime mondiali di Maintz, Hurel. Un posto di rilievo è riservato anche al cinema di ricerca, al poeta Charles Pennequin, alla danza e alle installazioni. “Si tratta quindi di trovare piacere nella musica, quale che sia, da Bruckner a Ligeti all’accordeon irlandese”, aggiunge Monnet. Non manca la presenza italiana rappresentata il 17 marzo dal Duo Bottasso (violino e accordeon) e dall’abruzzese Germano Scurti, considerato uno dei migliori interpreti del repertorio moderno e contemporaneo consacrato al bayan (strumento dalle origini russe che si è imposto nel panorama classico contemporaneo come la versione più evoluta tra i diversi modelli di fisarmonica classica). Il 23 marzo sarà invece la volta del mestrino Carlo Rizzo, grande specialista della musica per tamburo e percussioni. (ilVelino/AGV)
(Hans Sachs) 12 Marzo 2012 13:45

venerdì 9 marzo 2012

I Festival che resistono, nonostante la crisi in Il Sussidiario 10 marzo

OPERA/ I Festival che resistono, nonostante la crisi
Giuseppe Pennisi
sabato 10 marzo 2012
Una panoramica della città di Perugia (Imagoeconomica)
Approfondisci
OPERA/ Il Novecento italiano e americano in scena a Roma
LA SCALA/ La favola della donna senz'ombra, il tesoro di Richard Strauss
Il melomane che vuole organizzare le proprie vacanze in questo periodo dell’anno scorre i siti dei maggiori festival estivi. Mentre ai Festivals, ad esempio, di Aix, Salisburgo, Monaco e Glynbourne la biglietteria è aperta dall’inizio dell’anno e sin dall’autunno scorso di disponeva di programmi dettagliati (con date di spettacoli e cast), manifestazioni un tempo gloriose - come lo Sferisterio Festival di Macerata ed il Puccini Festival di Torre del Lago - mostrano unicamente titoli (del più vieto repertorio) senza alcun cenno agli interpreti, ai registi ed a quando si potranno acquistare i biglietti. Che pena: il Festival del Tirolo a Erl ha già chiuso il botteghino in quanto sold out. C’è naturalmente l’eccezione del Rossini Opera Festival ( i cui dettagli sono stati presentati lo scorso agosto e dove già il 50% dei biglietti è venduto). Ci sono, però, anche festival forse di nicchia in quanto monografici o tematici (e soprattutto ben gestiti anche in tempo di crisi) che funzionano bene: il più antico (la Sagra Musicale Umbra dedicata alla musica dello spirito) ed uno dei più nuovi (il Festival Pergolesi Spontini nella piccola Jesi).

Diamo un’occhiata al primo, per dedicarci nei prossimi giorni al secondo. L’appuntamento principale del primo è un’iniziativa – il “Premio Francesco Siciliani” - iniziativa che nasce dalla collaborazione tra la Fondazione Perugia Musica Classica, la Sagra Musicale Umbra e il Pontificio Consiglio della Cultura, presieduto dal cardinale Gianfranco Ravasi. Il concerto dei tre finalisti, che prevede anche l'assegnazione di un premio del pubblico e della critica, affiancati a quello della Giuria internazionale presieduta dal compositore Giya Kancheli, avrà luogo venerdì 14 settembre a Perugia - con replica il giorno successivo nel Duomo di Firenze - nell'ambito della 67a Sagra Musicale Umbra dedicata al tema "Angeli e Demoni".

"Il Concorso – ha spiegato in proposito il cardinale Ravasi in un incontro con la stampa tenuto il 9 marzo - intende perseguire l'incontro tra musica contemporanea, con la sua nuova grammatica, e il sacro, che ha canoni, testi e temi propri, dunque promuovere questa sinergia. Ed è in quest’ottica che, per la prima edizione del Concorso, ho suggerito come testo su cui i musicisti si confronteranno, il Simbolo degli Apostoli, uno dei testi cardine della tradizione cristiana, magistralmente commentato dall’allora cardinale Ratzinger nel suo libro Introduzione al cristianesimo, la prima opera che ebbe grande diffusione. Il Concorso e le opere che saranno presentate diventeranno, così, anche un significativo tassello del mosaico di iniziative che arricchiranno l’Anno della Fede, annunciato da Benedetto XVI, e che si aprirà nel prossimo mese di ottobre".
Il Festival è l’attività saliente (con riscontri anche sulla stampa internazionale) della Fondazione Perugia Musica Classica, nata nel 2003 e i cui soci fondatori sono il Comune di Perugia, la Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e due istituzioni musicali di grande storia e tradizione – l'Associazione degli Amici della Musica fondata e condotta per oltre sessanta anni da Alba Buitoni e poi dal figlio Franco, dedita a stagioni concertistiche, e la Sagra Musicale Umbra. La Presidente della Fondazione Perugia Musica Classica ha precisato come "la volontà di sviluppare sinergie è stata raggiunta in quanto le due istituzioni hanno nel tempo visto aumentare il numero del pubblico e soprattutto, grazie ad una azione di educazione all’ascolto rivolta ai giovani dalla scuola materna alle superiori, hanno registrato un cambio generazionale molto vitale. Il Concorso da noi istituito si inserisce in questo orizzonte molto particolare: attenzione al sacro, alla musica di oggi e ai compositori di domani".
La giuria internazionale è presieduta da un compositore di fama internazionale, Giya Kancheli, affiancato da tre illustri direttori di coro, il maestro della Cappella Sistina don Massimo Palombella, Filippo Maria Bressan, fondatore dell'Athestis Chorus e già direttore del Coro dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, e Gary Graden, direttore del Coro della Chiesa di St. Jacob a Stoccolma, e dal Direttore Artistico della Sagra Alberto Batisti. Batisti precisa il senso del Concorso e le sue linee direttrici: "Alla vigilia dell'apertura dell'«Anno della Fede», confidiamo che dal Premio «Francesco Siciliani» possa giungere un contributo artistico capace di superare la semplice dimensione devozionale e elevarsi alla dignità del rito, secondo l'indicazione che proviene dal titolo scelto dal Santo Padre Benedetto XVI per la sua antologia di scritti musicali: «Cantate a Dio con arte». Infine, il Premio è intitolato a Francesco Siciliani, che per cinquant'anni fu l'anima della Sagra Musicale Umbra, una delle più antiche rassegne musicali d'Europa, da sempre consacrata alla diffusione della musica spirituale. A lui fu dedicata, in occasione del centenario della nascita, la passata edizione del festival, e a lui è dedicata anche questa iniziativa, nell'intento di perseguire il suo spirito e il suo esempio di illuminato operatore musicale".
Tema del Concorso, il cui Segretario Artistico è il compositore Marcello Filotei, anche critico musicale dell'Osservatore Romano, è una composizione per coro con o senza organo, su testo obbligato, ossia il Simbolo Apostolico, della durata compresa tra i cinque e i quindici minuti. Il concorso si inserisce in un momento storico particolare: "Da una parte - dichiara Filotei - ci sono i nostalgici dei bei tempi andati, dall'altra i fautori del moderno a oltranza. Le due posizioni sono i due lati della stessa medaglia, ed entrambe sono poco produttive. Questo concorso ha in primo luogo il pregio di porsi il problema, accantonato da troppo tempo, e in secondo luogo quello di avviare un processo teso a favorire lo sviluppo di una musica d'arte liturgica in grado di mediare tra antico e moderno, senza scadere nel livello artistico".



La scadenza dell'invio della partitura è fissata per il 20 luglio. La Giuria si riunirà poi entro il 30 luglio del 2012 per esaminare i lavori inviati e scegliere i tre brani finalisti. Il brano vincitore, al cui autore sarà assegnato un premio in denaro pari a 5.000 euro, sarà pubblicato dalle Edizioni Musicali Rai Trade.

Il giorno successivo, sabato 15 settembre, il medesimo concerto con gli stessi esecutori sarà replicato a Firenze, in Cattedrale, per la rassegna «O flos colende», manifestazione di musica sacra che è promossa dall'Opera del Duomo e diretta da Gabriele Giacomelli.

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LO SWAP GRECO: ATENE E IL GIOCO AD ULTIMATUM in Il Velino 9 marzo

LO SWAP GRECO: ATENE E IL GIOCO AD ULTIMATUM
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Roma - Nel pomeriggio dell’8 marzo, quando le newsletter finanziarie, davano per scontato un esito ampiamente positivo dello swap alla base della ristrutturazione del debito greco, il Governo di Atene ha comunicato che i dati ufficiali sarebbero stati annunciati alle 7 del mattino di oggi 9 marzo. Unicamente cautela? Oppure la volontà di non creare effetti asimmetrici relativamente a mercati (quali Hong-Kong e Tokio) che per ragioni di fuso orario aprano molto prima di quelli europei ed americani?


C’è probabilmente un pizzico di cautela, ma i consulenti principali del Governo nell’operazione hanno suggerito la mossa (peraltro giunta inattesa) per un’altra ragione: prendere tempo ed avere l’asso nella manica nell’eventualità che l’adesione non sia totalitaria ma si ponga al di sopra del 75% e al di sotto del 90% (quando scatterebbe in ogni caso la Clausola di Azione Collettiva- CAC). L’idea è del giovane professore di diritto societario di Duke University Mitu Gulati e dell sessantenne Lee Buchheit, per 35 anni senior partner di Clearly Gottlied Steen & Hamilton che, già alla fine degli anni Ottanta, è stata la mente di Wall Street nel riassetto dell’indebitamente con l’estero dell’America Latina. Sono gli autori del saggio diramato il 7 maggio 2010, proprio nei giorni in cui si pensava che, in ragione della situazione in Grecia (e non solo), l’unione monetaria europea stesse per andare a gambe all’aria, hanno diramato sul web un lavoro intitolato "How to restructure the Greek debt", delineando un piano A ed un piano B – ambedue basati su un’analisi dettagliata dello stock di debito greco e delle norme che lo regolavano. Rari i giornali che ne hanno dato notizia, indicando come la proposta meritasse attenzione; aveva aspetti “eterodossi” ma, data l’eccezionalità della situazione, valeva un rapido approfondimento e un’azione spedita.


E’ una tattica per rafforzare quello che, in colloqui informali, Gulati chiama, con un accuratezza terminologica da mostrare come non sia avvezzo solamente alle pandette, un “gioco ad ultimatum”. Si tiene in sospeso per un notte, se si è tra il 75 ed il 90% delle adesioni, mentre ad Atene si valuterà se fare scattare o meno la CAC. Se decide di non farla scattare, chi non ha aderito incassa, alla scadenza, il 100% del valore nominale. Ma può anche optare per non rimborsare chi ha rifiutato l’offerta di fare parte del Private Sector Involvement (in sigla PSI), termine elegante con cui viene chiamata la ristrutturazione. Una vera e propria punizione per chi ha pensato di lucrare sulle obbligazioni greche, ma che per Atene equivarrebbe alla temuta insolvenza che bloccherebbe sia gli aiuti europei (del cui sblocco si decide in tarda mattinata del 9 marzo) e soprattutto all’arresto di flussi di “fresh money” con cui ripartire. Per altri partner del “gioco ad ultimatum” ciò potrebbe equivalere alla lacerazione dell’eurozona.


In breve, la minaccia è tale da indurre anche altri Governi dell’area ad esercitare. Quale che sia l’esito uno scotto verrà pagato da quei risparmiatori italiani, che non hanno imparato la lezione dei “tango bonds” argentini, dei “Cirio bonds” e dei “Parmalat bonds” , ed hanno nei loro portafoglio un milione di titoli greci. La Grecia evita, per ora, il default. Ciò non vuole dire però che i problemi sono risolti o che la strada è in discesa. Se non ci sarà una politica di crescita sostenuta da un afflusso di nuovi investimenti, c’è il forte rischio che tra sei – otto mesi si dovranno tappare altre falle. (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 09 Marzo 2012 09:30

La "Donna" di Strauss alla Scala in Quotidiano Arte del 9 marzo

La "Donna" di Strauss alla Scala
Giuseppe Pennisi
Il prossimo spettacolo in programma alla Scala è uno dei più importanti dell’anno: un nuovo allestimento di “Die Frau ohne Schatten” (“La Donna Senz’Ombra”), di Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss. L’allestimento è co-prodotto con la Royal Opera House di Londra e ha la regia di Claus Guth, uno dei più apprezzati metteurs en scène tedeschi che ha di recente trionfato nella dissacrante edizione della trilogia Mozart Da Ponte che ha realizzato al Festival di Salisburgo. La direzione musicale è di Marc Albrecht, direttore stabile sia dell’opera e della sinfonica olandese e che ha già diretto “Die Frau ohne Schatten” nel tempio straussiano della Semperoper di Dresda. Cast di altissimo livello: Johan Botha, Emily Magee, Michaela Schuster, Samuel Youn, Mandy Fredrich, Maria Radner.
“Die Frau ohne Schatten“ è una delle opere più importanti del Novecento e il lavoro più amato dallo stesso Richard Strauss che avrebbe voluta dirigerla in tarda età quando si scherniva alle frequenti offerte di dirigere “Der Rosenkavalier” (“Il Cavaliere della Rosa”) dicendo che a 78 anni era troppo lunga e faticosa, ma suggerendo che avrebbe ben preso la bacchetta per “Die Frau” (che dura venti minuti di più di “Rosen”).
In cento anni è la quarta volta che approda alla Scala (dove si è vista due volte lo stesso allestimento, negli Anni Ottanta e Novanta, curato da Jean Pierre Ponnelle).
In Italia, che io ricordi, è stata messa in scena solamente a Firenze oltre che a Milano; l’allestimento scaligero di Ponnelle all’inizio degli Anni Novanta e uno per la regia di Yannis Kokkos nel 2010.
Il testo è una favola orientale che può sembrare molto complicata ma da cui emerge il messaggio principale dell’opera: l’amore coniugale. In quegli anni, Strauss lo esaltava in due opere date una sola volta in Italia : “Die Aegyptische Helena” (“Elena in Egitto”) e “Intermezzo”.

info: www.teatroallascala.org