LA STRATEGIA DI CRESCITA EUROPEA E L'ITALIA
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Roma - I giornali di domani mattina sottolineeranno che il Consiglio europeo dell’1-2 marzo ha segnato una tappa importante nell’attuazione del processo d’integrazione europea perché si è firmato il “Fiscal Compact” e si sono definiti gli accordi per il secondo salvataggio della Grecia (ma un terzo è all’orizzonte). Egualmente importante la discussione sull'attuazione della strategia economica dell’Unione europea, anche e soprattutto perché coincide con la messa a punto dei Piani Nazionali di Riforma dei 27. Tale strategia mira sia a proseguire il risanamento di bilancio sia a intraprendere azioni determinate per potenziare la crescita e l’occupazione; da una situazione caratterizzata da disavanzi e livelli eccessivi di debito non è possibile generare una crescita sostenibile e occupazione. Secondo il Consiglio europeo, le misure adottate per stabilizzare la situazione della finanza pubblica nell’eurozona stanno dando frutti. Il Consiglio ha approvato le cinque priorità per il 2012 enunciate dalla Commissione nella sua analisi annuale della crescita (presentata con oltre un mese di anticipo prima della fine del 2011) e ha esaminato le iniziative che devono essere intraprese a livello nazionale. Gli Stati membri devono avanzare più rapidamente verso gli obiettivi della strategia Europa 2020 e intensificare gli sforzi per attuare le riforme riprese nelle raccomandazioni specifiche per paese del 2011. Nei Piani Nazionali di Riforma (attesi per fine aprile), essi dovrebbero indicare le misure che intendono adottare a tal fine. Il Consiglio ha inoltre discusso le azioni necessarie a livello dell’Ue per portare avanti il completamento del mercato unico in tutti i suoi aspetti,sia interni sia esterni, e promuovere l'innovazione e la ricerca.
Ciò ha implicazioni importanti sia in materia di liberalizzazioni, in Italia, per molti aspetti ancora in una fase iniziale, sia in tema di capitale umano e sociale.
La storia economica, irrobustita da recenti ricerche quantitative, dimostra che c'è un nesso molto forte tra capitale umano e sociale, da un lato, e crescita e sviluppo, dall’altro. Nel 1830, il 43 per cento del Pil mondiale era prodotto e consumato in India e Cina perché il 95 per cento dell'umanità era in mera sussistenza. Un piccolo gruppo di Paesi ha avuto per 150 anni il monopolio del progresso tecnologico – lo dimostrarono già le ricerche di Sven Ingvar Svennilson all'inizio degli anni Cinquanta – grazie al capitale sociale e umano accumulato sin dal Rinascimento a ragione della priorità data dal ceto dirigente alla cultura e all'arte pur se unicamente a fine di ostentazione. John Douglas North lo ha confermato nel breve libro che nel 1991 gli fece meritare il Premio Nobel per l'economia.
Per venire a tempi più recenti e a vicende più vicine a casa nostra, due economisti distinti e distanti (tra di loro e dalle nostre questioni di bottega) hanno spiegato il miracolo economico italiano (e il suo crepuscolo) in base allo stock di capitale umano e culturale esistente alla fine della seconda guerra mondiale in stato in gran misura latente, in quanto represso nel periodo precedente il conflitto nonché, ancor di più, nella fase di belligeranza: Richard Kindleberger di Harvard, storico economico di formazione neoclassica, e Ferenc Jánossy, ungherese, “political economist” dell’Università di Budapest. Non ebbero modo di leggere l’uno i lavori dell’altro (quelli di Kindleberger non circolavano nelle Repubbliche Popolari e il libro di Janossy venne tradotto dal magiaro al tedesco diversi anni dopo la pubblicazione degli studi di Kindleberger). Arrivarono a spiegazioni molto simili sia di quali furono le molle culturali del “miracolo” sia delle ragioni (tra cui principalmente la riduzione della priorità data a cultura e istruzione nelle scelte pubbliche a partire dagli anni Sessanta, in sintesi la poca attenzione alla prima se non fosse di parte politica ed il mancato ammodernamento della seconda rimasta alla “riforma Gentile”).
Più di recente Daron Acemoglu e David Autor, ambedue del MIT, hanno pubblicato (nel NEBR Working Paper No. W17820) una interessante rassegna della “corsa tra capitale umano e tecnologia” , sottolineando i nessi tra capitale umano, produttività e redditi da lavoro sulla base di un monumentale lavoro statistico relativo ai redditi negli Usa nel Ventesimo Secolo. Ciò pone interrogativi sul nostro PNR in confezione: in che misura si può continuare su una strategia di tagli lineari per la finanza pubblica? Cosa fare per il capitale umano, tenendo conto del lungo processo di gestazione dell’istruzione e della formazione. (ilVelino/AGV)
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