sabato 30 dicembre 2017

L’economia delle strenne contribuisce ad aumentare anche il capitale sociale in Avvenire 31 dicembre



L’economia delle strenne contribuisce ad aumentare anche il capitale sociale
l periodo delle strenne si estende dalla settimane immediatamente prima di Natale all’Epifania e gli italiani, notoriamente, amano scambiarsi doni. Secondo il rapporto Deloitte 'Xstmas Spending' giunto alla sua ventesima edizione, saremo terzi tra i top spender europei. Preceduti solo dalla Spagna e dal Regno Unito, che intendono spendere in media rispettivamente 632 euro a testa la prima e 614 euro il secondo: per gli italiani la spesa si aggirerà invece intorno ai 528 euro circa pro-capite, a paragone dei 506 sborsati lo scorso anno. Un aumento del 4,4% confrontato al 2,7% della media europea, la cui spesa sfiorerà i 445 euro per le festività 2017. Un fiume di denaro. Giova o non giova all’economia? Sotto il profilo macro-economico, contribuisce sicuramente a irrobustire una crescita ancora molto tenue, dopo un decennio di stagnazione e ben due recessioni tecniche. Più complicata una valutazione con l’ausilio degli strumenti dell’analisi dei costi e dei benefici. Il punto principale è che chi dona non conosce mai perfettamente le preferenze di chi riceve il regalo. Ciascuno di noi ha avuto, in questo periodo, strenne di cui non sa cosa fare e cerca la prima occasione per riciclarle. Per anni, le strenne sono state viste come beni che includono una cosiddetta 'deadweight loss', una perdita da peso morto, ossia una dose di inefficienza. Cominciò, Joel Waldfogel (nel 1993), che allora insegnava economia a Yale, e fece un sondaggio tra i suoi studenti: chi riceve una strenna la valuta mediamente tra un decimo e un terzo in meno di chi la ha acquistata e donata. A suo avviso, paradossalmente, sarebbe meglio donare contante o fare un bonifico. Alcuni anni dopo John List dell’Università di Chicago e Jason Shogren dell’Università dello Wyoming fecero un esperimento analogo utilizzando il metodo delle aste e non un questionario distribuito agli studenti. Nel computo aggiunsero uno stima del 'valore sentimentale' al valore di mercato; ad esempio, se uno zio ti regala una medaglia che ha avuto come onorificenza, il valore non è solo il peso di oro e di argento moltiplicato per il prezzo dell’oro e dell’argento, ma anche un segno affettivo. Anche tenendo conto dei 'sentimenti', chi riceve il dono lo valuta tra il 20% ed il 30% di meno di chi lo ha acquistato per regalarlo. Di recente, tuttavia, l’analisi dei costi e dei benefici estesa alle opzioni reali e la nuova economia istituzionale hanno portato a rivalutare le strenne. Uno studio fondamentale è stato condotto da Vijayendra Ran della Banca Mondiale sulla base dei doni che vengono scambiati in India durante vari festival (quasi sempre con un contenuto religioso): da un lato, sono occasioni per rinsaldare i vincoli all’interno della comunità, da un altro, chi spende in doni acquista uno stato più elevato. In questa ottica, le strenne sono uno strumento per aumentare il 'capitale sociale', capitale di difficile quantizzazione, ma tale da incrementare il valore del regalo oltre il prezzo che
è stato pagato.
Giuseppe Pennisi
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Nel 2018 l’Italia può guidare il processo per cambiare le regole del Fiscal Compact in Avvenire 29 dicembre



Nel 2018 l’Italia può guidare il processo per cambiare le regole del Fiscal Compact
Pochi giorni prima del Consiglio Europeo del 14 e 15 dicembre, oltre cinquanta economisti italiani, delle più varie università e scuole accademiche, hanno inviato un appello al governo perché si utilizzasse l’opportunità del vertice per modificare il Fiscal Compact. Pochi ricordano che il Fiscal Compact, in base all’articolo 16 dell’accordo, scade alla fine di quest’anno. Secondo la norma, «sulla base di una valutazione della sua attuazione », si dovrà decidere se inserirlo nel 'corpus' di base dei trattati europei o se modificarlo.
Oppure se accettare la proposta della Commissione europea di inserirlo, tale e quale, nelle 'Direttive Europee'. Questa sarebbe l’ipotesi meno auspicabile, specialmente per l’Italia. Da un lato, al pari di altre 'Direttive', sarebbe fonte di continui contenziosi. Da un altro non risolverebbe il nodo di fondo: l’equilibrio strutturale di bilancio aggraverebbe potenziali stagnazioni e recessioni (come si è visto negli ultimi anni). Da un altro ancora non risolverebbe due aspetti specialmente seri per il nostro Paese.
Il primo riguarda il trattamento dell’investimento pubblico (esce in questi giorni un interessante voluto di Alessandro Focaracci, Presidente della Fondazione di studio Fastigi in cui si documenta come in Italia le spese per opere pubbliche siano passate dal 3% del Pil negli anni novanta a meno dell’1% negli ultimi tempi). Se ai fini del computo del disavanzo, gli investimenti pubblici non vengono scorporati, ci si condanna a infrastruttura carente con la conseguenza di stagnazione e bassa produttività. Il secondo è l’obbligo per i Paesi con un debito sopra il 60% del Pil (il nostro supera il 130%) di ridurre l’eccedenza di un ventesimo ogni anno. Quando venne istituito con il Trattato di Maastricht, il parametro del 60% non era altro che il valore medio dei paesi aderenti all’Unione. Oggi, a fronte dei risultati di crescita non certo brillanti di un quarto di secolo di politiche economiche europee, il valore medio è aumentato fino al 90%. In queste condizioni, e a fronte delle incidenze ancora maggiori che si riscontrano in Giappone e negli Stati Uniti, sarebbe ragionevole proporsi obiettivi più realistici. L’appello degli economista sottolinea che la doppia crisi che ha travolto l’economia europea nell’ultimo decennio ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che è proprio la macchina europea ad aver bisogno di profonde riforme strutturali. Riforme che, come mostrano i recenti studi effettuati nell’ambito dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, devono puntare al netto orientamento delle politiche economiche europee e nazionali verso un modello di sviluppo trainato dai salari, dai consumi interni e da nuovi investimenti. L’appello non è stato ascoltato prima del Consiglio Europeo di metà dicembre. Tuttavia, il Compact può e deve essere migliorato ed è ancora possibile che sia all’ordine del giorno del primo vertice 2018. L’Italia può prendere l’iniziativa in tal senso.
Giuseppe Pennisi

L'anno di Rossini e quel Festival che "rende" all'Italia in Il sussidiario 31 dicembre



OPERA/ L'anno di Rossini e quel Festival che "rende" all'Italia

Sta per iniziare il 2018, anno in cui si celebrano i 150 dalla morte di Gioacchino Rossini, cui è dedicato il ROF, Festival valido anche economicamente. GIUSEPPE PENNISI
Un dettaglio del manifesto del ROF 2009Un dettaglio del manifesto del ROF 2009
Sta per iniziare il 2018, anno rossiniano in cui si celebrano i 150 dalla morte del compositore. Rossini morì, nella sua villa di Passy, presso Parigi, dopo aver lungamente combattuto contro un cancro al retto, inutilmente arginato da due operazioni (che causarono, tra l'altro, una devastante infezione) il 13 novembre 1868, poco prima del suo settantasettesimo compleanno. Le sue spoglie furono tumulate nel cimitero parigino del Père Lachaise, per essere poi traslate in Italia nel 1887 nove anni dopo la morte della moglie, su iniziativa del governo italiano, e riposano definitivamente nella Basilica di Santa Croce a Firenze.
La bibliografia su Gioacchino Rossini è immensa, anche e soprattutto grazie, negli ultimi trentasette anni, all'attività della Fondazione Rossini e del Rossini Opera Festival (ROF). Numerosissime le biografie. Un suo biografo, ad esempio, fu il suo contemporaneo, Stendhal, il quale assistette a rappresentazioni di numerose sue opere (anche prime esecuzioni assolute) ed era affascinato dalla sua musica. In tempi più recenti, ma prima della Seconda guerra mondiale e quando poche opere di Rossini erano rimaste in repertorio, Giuseppe Radiciotti pubblicò un lavoro monumentale in tre volumi sul compositore. Durante la Seconda guerra mondiale, per i tipi della U.T.E.T. e nella collana I Grandi Italiani diretta da Luigi Federzoni, fu uno dei maggiori romanzieri e drammaturghi dell'epoca, Riccardo Bacchelli, a narrare la vita di Rossini. In tempi più recenti c'è stata una ricca fioritura americana sulle orme di Philip Gossett e della sua scuola. 
Svela lati nuovi il volume del 2009 Rossini, l'uomo, la musica di Giovanni Carli Ballola. Fondamentali, i due volumi di Sergio Ragni Isabella Colbran - Isabella Rossini che riguardano unicamente un aspetto della vita del compositore (la sua relazione con Isabella Colbran, che divenne la sua prima moglie), ma includono un vastissimo materiale d'archivio, altrimenti di difficile reperimento (epistolari, articoli di giornale), che aiuta a comprendere "l'uomo" Rossini. 
Rossini era nato nel 1792 quando in Francia la rivoluzione era già in atto (anzi si stava avvicinando Termidoro e la fine del Terrore) e morì nel 1868 (decenni prima dei colpi di pistola a Sarajevo), ma quando già si stava entrando nella fase dell'industrializzazione trionfante, stava nascendo la prima globalizzazione (1870-1910), si stavano completando le unificazioni nazionali di Germania e Italia, e due Imperi multinazionali (quello ottomano e la duplice monarchia austro-ungarica) stavano scricchiolando.
Il Rossini Opera Festival (ROF) è una vera eccezione nel mondo culturale italiano: non solo perché, lavorando d'intesa con la Fondazione Rossini, ha riscoperto tante opere dimenticate (quasi tutte le opere serie e semiserie), nonché alcuni capolavori considerati perduti (come Il viaggio a Reims), ma in quanto "rende" all'Italia sotto il profilo economico ed è un ottimo esempio di collaborazione fra pubblico e privato. Non ha mai chiuso un bilancio in passivo e ha dato un contributo importante alla comunità territoriale in quel lembo che tocca Marche e Romagna e all'Italia, pur essendo nato come una piccola iniziativa finanziata principalmente da enti e imprese a livello locale.
Gli effetti economici del ROF sulle attività produttive del litorale adriatico negli anni di recessione si sono avvertiti in positivo in maniera significativa, malgrado l'area abbia avuto una perdita di attività a ragione specificatamente della crisi della Banca Marche e delle difficoltà di imprese industriali come la Berloni e la Indesit. Dai bilanci civilistici e dai bilanci sociali nonché da uno studio degli impatti del ROF effettuato dall'Università di Urbino emergono questi aspetti salienti: 
a) nel periodo del festival, il fatturato del settore dei servizi di Pesaro aumenta di 11 milioni di euro. In sintesi, contando l'indotto, un euro di contributo pubblico (al netto dei rientri diretti agli enti previdenziali e all'erario) ne genera sette di valore aggiunto a Pesaro e al suo hinterland; 
b)   nell'arco degli ultimi otto anni, i costi complessivi della manifestazione sono diminuiti del 25% (da 6,6 a 5 milioni di euro) e il numero di dipendenti fissi è rimasto costante a 12 unità (gli addetti raggiungono i 235 circa nelle settimane del festival). Dei 5 milioni circa di spese, gli oneri sociali (versati a Enpals, Inps, ecc.) e le imposte - in breve, il "rientro diretto all'erario" - ammontano a circa 600 milioni; 
c)  la biglietteria porta incassi per un milione circa di euro (non ne può portare di più a ragione della capacità fisica dei teatri); due terzi degli spettatori sono stranieri molto fidelizzati. Gli sponsor privati - imprese, banche, fondazioni - contribuiscono per circa un milione di euro l'anno. Il resto proviene da Enti pubblici (Stato, Regione e Comune), da coproduzioni e da vendite di allestimenti.
Inoltre, il ROF è l'unico festival italiano che dal 2016 ha dato impulso a: Rossini in Wildbad (Belcanto Opera Festival), un festival di musica lirica che si tiene in estate a Bad Wilbad, una stazione termale tedesca nella Foresta Nera, dove nel 1856 Rossini ha trascorso un periodo di riposo. Rossini in Wildbad e il ROF hanno ciascuno la propria programmazione, collaborano tra di loro. Invece, lo Spoleto Festival Usa, a Charleston South Carolina, creato da Giancarlo Menotti nel 1977, dal 1993 non ha più alcun rapporto con il Festival dei Due Mondi che si svolge nella città umbra. 
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giovedì 28 dicembre 2017

L’Italia in Niger e gli accordi di Plombières in Formiche del 28 dicembre



L’Italia in Niger e gli accordi di Plombières

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L’Italia in Niger e gli accordi di Plombières
L'analisi dell'economista Giuseppe Pennisi
A Camere sul punto di essere chiuse è in atto una polemica sul probabile invio di truppe italiane del Niger, uno dei Paesi su cui ho lavorato nei 18 anni passati in Banca Mondiale. Smentita dal Governo nel maggio scorso, quando si era diffusa la voce di un’operazione militare dell’ Unione europea (Ue) nel Sahel, la missione militare in Niger prenderà il via dopo il ritorno da Niamey, capitale del Paese, del team di ricognizione guidato dal generale Antonio Maggi e dopo il via libera del Parlamento.
L’intervento italiano sarà inquadrato nella più ampia operazione euro-africana varata al vertice di Celle Saint Claud dal presidente francese Emmanuel Macron ma che non ha ancora raggiunto i 423 milioni di euro di finanziamenti necessari. La Ue ne stanzierà 50 come gli Usa e i 5 Paesi africani coinvolti (Mali, Burkina Faso, Mauritania, Niger e Ciad), 8 la Francia, 100 i sauditi e 30 gli Emirati Arabi Uniti che sostengono il contrasto ai jihadisti del Sahel appoggiati dal rivale Qatar. Grazie ai contingenti tedeschi, italiani, spagnoli e belgi, Parigi potrà alleggerire gli organici dell’operazione Barkhane che da quattro anni combatte gli jihadisti nel Sahel. Macron potrà quindi ridurre l’impegno nazionale (4mila uomini con oltre 500 veicoli e più di 30 velivoli) pur mantenendo il comando delle operazioni nelle ex colonie francesi.
Quali sono gli interessi dell’Italia nel Niger? Il Paese, senza sbocchi al mare confina a nord con l’Algeria e la Libia (è, quindi, sulla strada dei flussi migratori del Nord della Nigeria dove la maggioranza musulmana sta trucidando i cristiani), a est con il Ciad, a sud con la Nigeria ed il Benin ed ad ovest con il Burkina Faso ed il Mali. Deve il suo nome al fiume che l’attraversa; i suoi abitanti sono chiamati ‘nigerini’ per non confonderli con i ‘nigeriani’. È uno degli ultimi Paesi del mondo per Pil pro capite.
L’economia del Niger, una delle più povere fra quelle dei Paesi africani, è basata sulla pastorizia e sull’agricoltura. Il nord del Niger, costituito dall’altopiano di Djado e da parte del deserto del Tenéré, è abitato da comunità nomadi che praticano la pastorizia. A sud e ad ovest, dove ci sono maggiori precipitazioni, la popolazione è sedentaria e dedita alla coltivazione di cereali. Poche sono le foreste, che si trovano esclusivamente nel sud del paese. A queste attività tradizionali si sta affiancando lentamente l’industria mineraria e in particolare l’estrazione e l’esportazione dell’uranio. Altre risorse minerarie del Paese, sono il carbone, il ferro, il carbone, il ferro, i fosfati, l’oro ed il petrolio. Il Niger è il quinto paese al mondo per l’estrazione dell’uranio (circa 3243 tonnellate l’anno), ad opera della multinazionale francese Areva. Anche gli altri minerali sono, in un modo o nell’altro, sotto l’influenza di imprese francesi, sovente a partecipazione statale. Alla fine degli Anni Ottanta, l’Italia fece alcuni tentativi di avere un ruolo nella costruzione di infrastrutture (specialmente di trasporto) nel Niger. Senza, però, esiti di rilievo.
La nostra partecipazione all’operazione in Niger può essere vista come quella nella Guerra di Crimea, all’epoca del Risorgimento: entrare nel novero delle ‘grandi potenze’ e potere, quindi, sedere ai tavoli internazionali (ossia Ue) che contano ed avere voce in capitolo. È un obiettivo strategico nobile ma come secondo Stato industriale dell’Ue a quei tavoli ci siamo già; se la nostra voce non è ascoltata è perché non parliamo abbastanza forte. Non credo che ci si possa attendere che la Francia di Macron ci supporti in sede europea o altrove.
E allora? Occorre fare come Camillo Benso Conte di Cavour fece con Napoleone III. Concludere con la Francia qualcosa di analogo agli accordi di Plombières. Non devono essere segreti, come quelli che precedettero la Seconda Guerra d’Indipendenza ed una parte può avere attuazione subito: rimuovere i blocchi a Ventimiglia nei confronti degli immigrati che vogliono raggiungere la Francia per ricongiunsi con i loro congiunti o perché, se sono francofoni, hanno migliori opportunità di inserimento.

mercoledì 27 dicembre 2017

I costi ed i benefici dei regali per Natale e per la Befana in Formiche 27 dicembre



I costi ed i benefici dei regali per Natale e per la Befana

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Quali saranno le spese di Natale ed Epifania 2017 in Italia e in Europa? Gli italiani sono terzi tra i top spender europei. Lo conferma la ricerca Deloitte Xstmas Spending giunta alla sua ventesima edizione. Anche quest’anno Deloitte ha effettuato un sondaggio tra oltre 8.000 consumatori di dieci Paesi – compresa l’Italia – per stimarne le spese natalizie. Preceduti solo dalla Spagna e dal Regno Unito che intendono spendere in media rispettivamente 632 euro la prima a testa e 614 euro il secondo, gli italiani ipotizzano di acquistare di più rispetto all’anno precedente. Una spesa che si aggirerà intorno ai 528 euro circa pro-capite , a paragone dei 506 sborsati lo scorso anno. Un aumento del 4,4% confrontato al 2,7% della media europea, la cui spesa sfiorerà i 445 euro per le festività 2017. Un fiume di denaro.
Quanto rende? Agli occhi di un economista, la risposta è semplice se data sotto il profilo macro-economico. In una fase come l’attuale in cui l’Italia sta uscendo flebilmente da una fase di stagnazione qualsiasi elemento che contribuisce all’incremento della domanda aggregata è da considerarsi positivamente. Anche i regali di Natale danno il loro contributo.
Più complessa la risposta sotto il profilo micro-economico, ed in particolare dei costi e dei benefici. Se ne è occupato, credo per la prima volta, Joel Waldfogel nel 1993 che allora insegnava all’economia di Yale. Tutti sappiano che a) prima di Natale chi vende ritocca i listini all’insù e b) ciascuno di noi ha ricevuto e riceve strenne di cui non sa che fare e cerca di riciclare alla prima occasione (altre festività, compleanni, onomastici, nozze e via discorrendo). Waldfogel fece un sondaggio tra i suoi studenti, base per un saggio fondamentale The Christmas Deadweight (Il Peso Morto del Natale). Chi dona ritiene di conoscere perfettamente le preferenze di chi riceve, ma non è così: chi riceve valuta mediamente la strenna tra un decimo ed un terzo in meno di chi la ha acquistata e donata, una ‘perdita da peso morto’ di non poco effetto. La conclusione di Waldfogel: sarebbe meglio donare contante o fare un bonifico.
Alcuni anni dopo John List dell’Università di Chicago e Jason Shogren dell’Università dello Wyoming fecero un esperimento analogo utilizzando, però, il metodo delle aste non un questionario distribuito agli studenti. Nel computo aggiunsero uno stima del ‘valore sentimentale’ al valore di mercato; ad esempio, se uno zio ti regala una medaglia che ha avuto come onorificenza, il valore non è solo il peso di oro e di argento, moltiplicato per il prezzo dell’oro e dell’argento. Anche tenendo conto dei ‘sentimenti’, chi riceve il dono lo valuta tra il 20% ed il 30% di meno di chi lo ha acquistato per regalarlo.
Si potrebbero citare altri autori. Nel 2013, l’argomento fu dibattuto a lungo all’Assemblea Annuale (inizio di gennaio) dell’American Economic Association. L’esito fu che la risposta dipende principalmente da come è posta la domanda. Se le strenne vengono considerati o meno come strumento di crescita dei legami all’interno di una comunità, e quindi di aumento di quello che il Premio Nobel John D. North chiama ‘capitale sociale’. In tale caso, l’analisi dei costi e dei benefici da risultati positivi.