domenica 31 luglio 2011

Festival Puccini, "esportar cantando" contro la crisi in Il Sussidiario 1 agosto

TORRE DEL LAGO/ Festival Puccini, "esportar cantando" contro la crisi
Giuseppe Pennisi
lunedì 1 agosto 2011
Il Festival Puccini 2011
Approfondisci
LIRICA/ Il "Rigoletto" dello Sferisterio si moltiplica per dieci
OPERA/ I "Maestri Cantori di Norimberga" di Wagner al Festival del Tirolo di Gustav Kuhn
La 57sima edizione del Festival pucciniano di Torre del Lago (dal 22 luglio al 3 settembre) è iniziata con una settimana di ritardo, ma sino a maggio non si sapeva nemmeno se si sarebbe tenuto. Infatti, nel 2010 pare che l’Arcus (spa controllata dal Mibac e dal Mininfrastrutture) avesse “dimenticato” di mettere i pertinenti contributi a bilancio e c’è buio assoluto (ci auguriamo che arrivi presto un chiarimento positivo) su quelli per il 2011 (siamo già in agosto). Al Festival non si sono persi d’animo, hanno utilizzato le riserve di bilancio accumulate con pazienza certosina negli ultimi anno e, primi in Italia, hanno adottato la strategia suggerita nel luglio 2008 su “Il Foglio” di Giuliano Ferrara, grande melomane: “Esportar Cantando”. Uno slogan mutuato dal “Recitar Cantando” della fiorentina Camerata Bardi alle fine del Quattrocento.

Il ragionamento è semplice. Oltre il 30% circa degli abbonati al mensile di divulgazione musicale “L’Opera”, scritta in italiano e per italiani, è all’estero; il 20% in Giappone e Corea. Stanno crescendo anche gli abbonati in Cina, dove negli ultimi dieci anni sono stati costruiti 28 teatri per rappresentarvi opere europee, ossia in gran misura italiane. L’italiano del teatro d’opera è diventato la seconda lingua franca - dopo l’inglese - in gran parte dell’Asia dove il pubblico è assetato dal desiderio d’opera italiana.


Le convenzioni del teatro in musica nostrano (dal barocco al melodramma al verismo e anche alla contemporaneità più sfrenata) non sono molto dissimili da quelle del “Gran Kabuki” giapponese e di alcune delle numerosissime forme d’opera cinese: di norma, c’è un intreccio più o meno complicato che viene declinato coniugando parole con canto e accompagnamento musicale, nonché danza ed effetti speciali. I sovrintendenti locali stanchi di ingaggiare compagnie dell’Asia centrale a basso prezzo (e scarsa qualità), invitano con sempre maggiore frequenza le produzioni dei nostri teatri, mentre i loro conservatori e le loro scuole di canto addestrano i loro connazionali con insegnanti italiani.

Non è un caso che il tenore di maggior successo (anche in Italia) di questi ultimi anni è il giovane Francesco Hong - un coreano - riconosciuto internazionalmente come uno dei pochi in grado di cantare “Il Trovatore” così come Verdi lo scrisse. Un regista italiano, Maurizio Di Mattia, è diventato di casa a Benjing, Shangai, Macao, Singapore e Mumbay in seguito al successo dell’ “Aida” da lui allestita del nuovo grandioso Teatro d’Opera di Hong Kong per celebrare i dieci del ritorno della Crown’s Colony alla Cina.
Ed è grazie alla Cina, al Giappone, alla Francia e alla sussidiarietà di una rete di teatri dell’Italia centrale che il Festival è in corso e il teatro sul lago (3000 posti) sempre pieno.


È stato inaugurato con un nuovo allestimento di “La Bohème”, proveniente Hong-Kong e in rotta verso altri teatri asiatici (prima di approdare di nuovo in Europa). Lo ha concepito una squadra italiana - regista (Maurizio Di Mattia), scenografo (Maurizio Varano), costumista (Anna Biagiotti), in collaborazione con maestranze e aiuti cinesi. È spettacolo bellissimo; la vicenda è trasportata all’iinizio del Novecento, sotto i piedi di un’immensa Torre Eiffel. Si avvertono citazioni di film di Carnel e Chabrol - la Parigi cantata da Edith Piaff. Efficace la concertazione di Alberto Veronesi. Di alto livello le voci: Donata D’Annunzio Lombardi e Aquiles Machado hanno ricevuto applausi a scena aperta e vere e proprie ovazioni.


Arriva direttamente dal Sol Levante “Madame Butterfly” in un allestimento che viene da uno dei maggiori teatri d’opera giapponesi. La prima a Torre del Lago è il 6 agosto. La regia, le scene e i costumi sono di tre grandi nomi giapponesi (Takao Okamura, Naoji Kawaguchi, Yashiro Chiji). Giapponesi anche Cio Cio San e Suzuki (Sakiko Ninomiya e Kimiko Suehiro), nonché i numerosi personaggi minori. Un gradito ritorno in Italia di Marcello Bedoni. Concerta dei giovani enfant prodige italiani della bacchetta: Valerio Galli. In breve, appuntamento da non mancare. La prima è il 6 agosto.

Questo “assist” dall’Asia non sarebbe stato possibile se per anni il Festival Pucciniano non avesse lavorato in Cina e Giappone, con il supporto degli istituti di cultura italiani nei due Paesi: tournée di opere, concerti, inviti di giovani artisti cinesi e giapponesi alla scuola di perfezionamento pucciniana.
E la Francia? Dopo diversi anni di servizio a Torre del Lago e altrove, il precedente allestimento di “Bohème” (che avuto grande successo in recite estive a Parigi al Giardino del Lussemburgo) non va in pensione e non viene rottamato. Lo prende Nizza, aiutando così Puccini e il suo Festival.

È la sussidiarietà degli altri teatri? La colossale edizione di “Turandot” (regia di Maurizio Scaparro, scene di Ezio Frigerio, costumi di Franca Scquarciapino, direzione musicale di Kery Lynn Wilson) si vedrà anche a Pisa, Lucca, Mantova, Ferrara e in altri teatri che hanno noleggiato la produzione, risparmiando loro e contribuendo alle finanze del Festival. Si alternano vari cast. La sera in cui l'ha ascoltata il vostro chroniqueur, Kery Lynn Wilson ha concertato ottimamente la difficile partitura e il coro diretto da Stefano Visconti merita un doveroso omaggio. Di grande livello, la Turandot di Antonia Cifrone.


Torniamo all’"esportar cantando". Non dovrebbe il Dipartimento Internazionalizzazione del Ministero dello Sviluppo Economico condurre analisi specifiche dell’indotto in termini d’export delle tournée di compagnie liriche italiane (si dispone già dei dati sul contributo finanziario che tali tournée hanno sui bilanci dei teatri)? E se le analisi confermano valutazioni qualitative che tale indotto è positivo e significativo, non dovrebbe il Ministero dei Beni Culturali prevedere una “premialità”, nella ripartizione del Fondo Unico dello Spettacolo (Fus), a favore dei teatri che più e meglio sanno contribuire all’”esportar cantando”?
Dopo, ben inteso, avere dato a Puccini, il primo compositore “globale” della storia del teatro in musica, quel che si merita, prendendo azioni appropriate perché non si verifichino più “dimenticanze”.

Puccini salvato dalla Cina in Avvenire del 31 luglio

Puccini salvato dalla Cina


DI GIUSEPPE PENNISI

I l 57° Festival Pucciniano di Torre del Lago ha rischiato di non essere realizzato. Avvenire aveva già riferito che l’edizione 2010 si era chiusa con un forte disavanzo (parato in gran misura con le riserve accumulate negli anni) in quanto Arcus (la società mista tra ministero dei Beni Culturali e ministero delle Infrastrutture incaricata di supportare la cultura) ha «dimenticato» (secondo quanto riferito dal management della rassegna) di mettere in programma il relativo finanziamento. Quindi, il Festival (il cui staff fisso è composto di solo 10 persone) si è trovato in serie difficoltà, anche perché contemporaneamente è stato drasticamente ridotto il contributo del comune di Viareggio. E per il 2011 ancora non si sa se Arcus farà la propria parte. L’appello «Salvate Puccini» ha fatto il giro del mondo; a pochi anni dalla celebrazioni del 150° anniversario della nascita del compositore italiano, e a tre dall’inaugurazione del grande teatro costruito in suo onore, sarebbe stato gravissimo perdere non solo il Festival ma anche l’eredità di studi e ricerche della Fondazione. La risposta è arrivata. Non da via Santa Croce in Gerusalemme (sede della Direzione generale per lo spettacolo dal vivo), ma dall’Estremo Oriente, dalla Francia e da altri teatri italiani. Il delizioso nuovo allestimento di Bohème (a Torre del Lago sino al 27 agosto) è co-prodotto con Hong Kong da dove salperà per una tournée in Cina dove, negli ultimi dieci anni, sono stati aperti 28 nuovi teatri per l’opera all’italiana. Il nuovo allestimento di Madama Butterfly (in scena sino al 18 agosto) arriva dal Npo di Tokyo e girerà le isole del Giappone. I teatri di Lucca, Mantova, Ravenna, Pisa si sono coalizzati per una tournée della ripresa della grandiosa

Turandot (in scena sino al 26 agosto). L’Opéra National di Nizza è corsa in aiuto mettendo in cartello l’allestimento di Bohème curato da Scaparro-Folon che ha trionfato per oltre un lustro a Torre del Lago. C’è stata una vera mobilitazione degli Istituti di cultura italiani e stranieri per Puccini, particolarmente attivi quelli del nostro paese a Tokyo e Pechino. Nel silenzio assordante dell’Arcus e degli uffici del dicastero. Ci auguriamo venga rotto presto: tra biglietteria e vendite di allestimenti il Festival pucciniano copre il 60% del bilancio – quello di Salisburgo sfiora il 50%. Uno studio empirico appena pubblicato da quattro economisti tedeschi prova che con i teatri d’opera si cresce e si crea lavoro. Salvare Giacomo Puccini è una leva per lo sviluppo.

L’ACCORDO SI TROVERÀ, MA I MERCATI SONO SCOSSI Avvenire 30 luglio

L’ACCORDO SI TROVERÀ, MA I MERCATI SONO SCOSSI

Partita decisiva sul debito Usa E noi solo spettatori spaventati

GIUSEPPE PENNISI

D i norma, sulle rive del Potomac, al termine delle lunghe notti della capitale americana, quasi sempre sorge il sole. Questo detto, in voga tra le élite di Washington, indica che su questioni cruciali, specialmente di finanza pubblica, dopo confronti (e scontri) molto aspri, tra Casa Bianca e Congresso solitamente si giunge a un compresso nell’interesse di tutti gli americani (e di coloro come noi europei che, ci piaccia o no, a essi siamo legati da tanti fili). Quindi, da studioso che ha vissuto 18 anni a Washington, sono ottimista: all’alba del 2 agosto (ma non prima) un accordo si troverà, evitando tanto un’insolvenza tecnica quanto un abisso tra esecutivo e legislativo sulle grandi linee di politica economica. Per bene afferrare quale è il nodo tecnico del problema occorre tenere presente che, negli Stati Uniti, presidente e Congresso sono votati in modo differente, con sistemi diversi e pure da elettori differenti. Il governo non è espressione del Parlamento, ma gode di una propria autorità derivante dai 'grandi elettori'.

Parimenti, il Congresso risponde ai propri elettori. L’esecutivo federale ha competenza primaria in materia di difesa e politica estera, non di finanza pubblica, istruzione, temi sociali. Per questa ragione, il bilancio federale non nasce con una legge finanziaria proposta dalla Casa Bianca, ma all’interno di una Commissione della Camera; il presidente può respingerlo, ma se il bilancio viene di nuovo approvato dal Parlamento a maggioranza qualificata, il presidente o lo accetta o lascia la carica al suo vice per il resto del mandato (questa è una delle ragioni per cui la scelta del vice presidente è tanto importante). In questo quadro, il livello di debito pubblico deve essere 'autorizzato' dal Congresso, in base al comma 8 dell’articolo 1 della Costituzione. Se non autorizzato, nessun ministro del Tesoro può con un decreto dare il via all’emissione di titoli di Stato (come fa il nostro ministro delle Finanze).

L’ultimo aumento del massimale (in gergo 'il tetto') del debito è stato autorizzato dal Congresso il 12 febbraio 2010. Quale sia oggi il livello del debito pubblico americano è oggetto di contenzioso.

Il debito del governo federale in senso stretto si aggira sul 70% del Pil. Aggiungendo quello degli Stati e degli enti locali (principalmente alcune Contee) si arriva al 100%. Se poi si tiene conto anche del debito delle due maxiagenzie (ora nazionalizzate) di intermediazione di mutui immobiliari si tocca il 130%. Il dibattito, però, non è su questi aspetti tecnici, ma su una politica economica che privilegerebbe la spesa anche al costo di inasprimenti fiscali. È quanto intende fare la Casa Bianca.

Ma è quanto vuole arginare il Congresso, impedendo ulteriore indebitamento e quindi anche il rifinanziamento di alcuni milioni di titoli di Stato che scadono il 2 agosto; senza nuove emissioni, chi li ha comprati si troverà in tasca obbligazioni senza valore almeno temporaneamente, ossia sino a quando non si sarà trovato un accordo. Sarebbe miope pensare che il problema riguardi unicamente e principalmente gli americani. Si è appena chiusa una settimana di grande turbolenza sui mercati mondiali, turbolenza rivolta in grande misura nei confronti dell’Italia, il cui programma di politica economica è considerato dalle Borse (a torto o a ragione) inferiore a quanto necessario.

L’Università Cattolica di Lovanio ha creato un nuovo indice dei movimenti finanziari, il FIX (Fear Index o Indice della Paura): non promette nulla di buono, per noi e per altri, in caso di agitazione dei mercati americani ed internazionali.

Noi saremo solo spettatori della lunga notte del debito Usa. Tuttavia, qualcosa di nostro potremmo e dovremmo pur fare per mettere ordine in casa nostra.

giovedì 28 luglio 2011

COPRODUZIONI E QUALITÀ: IL SEGRETO DELLO SFERISTERIO Il Velino 28 luglio

COPRODUZIONI E QUALITÀ: IL SEGRETO DELLO SFERISTERIO
Macerata - Ripartizione dei costi fra più enti, alto numero di repliche, “sguardo” rivolto ai teatri stranieri: così cresce il successo della kermesse di Macerata e diventa un modello. Ma le prospettive finanziarie restano incerteEdizione completa
Stampa l'articolo Macerata - In questi giorni di fine luglio, giungono notizie buone e notizie cattive dal fronte della lirica. La migliore è quella secondo cui il Teatro Massimo di Palermo (un tempo pozzo senza fondo di perdite) ha chiuso per il sesto anno consecutivo un bilancio attivo nonostante il peso dell’ammortamento dei debiti contratti dalla gestione precedente. È un chiaro segnale che la qualità del management conta. Basterebbe incorporare le prassi del Massimo negli altri teatri per far sì che la lirica, pur necessitando sempre del contributo pubblico, si metta su un binario “normale”. La cattiva notizia viene invece dal Teatro dell’Opera di Roma, le cui maestranze minacciano scioperi se non verranno regolarizzati i precari. Se le minacce saranno seguite da azioni sindacali effettive il teatro, il cui management ha dovuto fare salti mortali per mettere in sesto i conti, rischia un’emorragia di pubblico. A tal proposito è utile ricordare che con un organico analogo a Vienna si mettono in scena 50 titoli l’anno anziché solo dieci come accade nella Capitale. Notizie inquietanti giungono invece dal Festival Sferisterio di Macerata a causa delle incerte prospettive finanziarie. Pur se contrastata da avversità atmosferiche sia l’anno scorso che in questo primo scorcio, la manifestazione non solo ha tuttavia raggiunto un elevato livello artistico da quando è guidata da Pier Luigi Pizzi ma sta adottando, più e meglio di altre, un sistema di coproduzioni per ripartire i costi tra più enti e moltiplicare gli spettatori.

Il “Rigoletto” allestito da Massimo Gasparon in scena in questi giorni è stato concepito con questo obiettivo: coprodotto da dieci teatri (e forse in viaggio verso la Spagna e l’Estremo Oriente) è imperniato su palcoscenico girevole adatto alle sale più diverse da cui si schiudono, di volta in volta, il Palazzo Ducale, i vicoli di Mantova, la casa di Rigoletto, l’osteria di Sparafucile. Non si risparmia solo in spese per scene e costumi, ma se ad un artista si offrono 30 recite invece di 4, ovviamente anche il cachet cambia. Analogamente, il delizioso “Così Fan Tutte” è stato allestito da Pier Luigi Pizzi in coproduzione con Ancona ma avendo in mente una più vasta circolazione: una scena unica, cantanti-attori attraenti oltre che bravi, una regia da “commedia per adulti” che prende il pubblico dal primo all’ultimo secondo. Pure il verdiano “Un Ballo in Maschera”, inizialmente pensato da Pizzi per Piacenza per l’Expo del 2004, può essere agilmente portato in altri teatri e l’aggiornamento della vicenda all’America di Kennedy è un indubbio motivo di attrazione. Le ultime edizioni dello “Sferisterio” hanno mostrato di meritare supporto: crescono anche le recensioni su giornali specializzati stranieri e con esse nuovo pubblico in questo lembo d’Adriatico.(Hans Sachs) 28 Luglio 2011 14:13

mercoledì 27 luglio 2011

L’EUROZONA COME BRETTON WOODS UNA MOSSA CHE VA DICHIARATA in AVVENIRE 28 luglio

L’EUROZONA COME BRETTON WOODS
UNA MOSSA CHE VA DICHIARATA
Giuseppe Pennisi
Ci sono vari modi per leggere le decisioni degli ultimi giorni sull’eurozona. Le due posizioni estreme sono le seguenti; da un lato, le misure altro non sarebbero che ritocchi, per fare fronte ad emergenze (in primo luogo quella della Grecia), senza incidere sul disegno dell’unione monetaria e dell’UE; da un altro, i provvedimenti (specialmente il forte aumento della dotazione del fondo “salva Stati” e l’acquisto di debito sovrano tramite emissioni di “eurobonds) non solo modificano i trattatti dell’”eurozona” ma la mettano in mezzo ad un guado in cui si vede la riva che si è lasciata ma non quella dove si vuole approdare.
In effetti, già l’”eurozona” quale allestita a Maastricht era lontana sia dalle unioni monetarie dei manuali di economia internazionale sia dalle esperienze del passato. Veniva unicamente costruita a tappe su un arco di un decennio, ma non contemplava la caratteristica di fondo delle aree valutarie: la mobilità effettiva (non solamente legale) di fattori di produzione, merci e servizi all’interno dell’area. Se non altro per ragioni storico-culturali, i lavoratori, i capitali, le merci ed i servizi non si muovono all’interno dell’eurozona così come avviene all’interno degli Usa o così come avveniva all’interno delle zone del franco, della sterlina e del rublo. Ora viene a mancare un’altra caratteristica: la neutralità dell’autorità monetaria centrale rispetto alle virtù ed i vizi dei singoli Stati.
Una dozzina di Stati Usa (per un totale di 150 milioni di persone) sono sull’orlo del fallimento: la Federal Reserve (e sia il Governo federale sia il Congresso) restano neutrali e non se ne preoccupano più di tanto. Ci sono stati fallimenti sovrani all’intero della zona della sterlina e del franco senza che ci si agitasse troppo; forse – è un capitolo tutto da studiare- pure all’interno di quella del rublo. Il Ministro del Tesoro italiano in carica nel 1992 Piero Barucci e l’allora Governato della Banca d’Italia Antonio Fazio ricordano come vennero affrettati i salvataggi dei banchi meridionali (Napoli e Sicilia) perché una volta entrato in vigore il Trattato di Maastricht non sarebbe più stato legittimo farlo. Ora si salvano indirettamente istituti che si sono comportati in modo spericolato attratti dagli alti rendimenti promessi da alcuni Governi dell’eurozona.
Alcuni mesi fa,Martin F. Hellwing del Max Planck Institute ha pubblicato un interessante saggio dal titolo “Quo Vadis Eurozone?”; vi si fornivano anche interessanti indicazioni. Pochi lo hanno letto (le misure prese non vanno nel senso auspicato da Hellwig). Ed ancora meno sono coloro che posti il suo interrogativo. Sarebbe futile intonare geremiadi su perché non si è andati nella direzione (auspicata da Hellwig) di rendere l’eurozona più simile a quanto si insegna in università ed alle esperienze di unioni monetarie del passato. La domanda posta, però, non si può eludere. Il sistema che sta nascendo pare più vicino a quello di gestione collettiva in vigore dal 1945 al 1973 a livello internazionale (ossia quello detto di Bretton Woods dal luogo dove è stato codificato): un’autorità centrale interventista con una dotazione per facilitare gli aggiustamenti delle bilance dei pagamenti. Se questo è l’obiettivo implicito, meglio renderlo chiaro per vedere quale è l’altra sponda del guado e come arrivarci nel modo più efficiente e più giusto.
In altri termini, si potrebbe delineare un percorso di convergenza delle economie reali (produttività, competitività, coesione sociale) ed un approdo secondario per chi non vuole o non può seguirlo. Ci sono esempi recenti (soprattutto in America Latina ed in Asia) da cui si possono trarre lezioni utili. C’è pure uno strumento – in gergo lo SME II – che consente un’ampia gamma di possibilità per giungere, se si vuole, ad una moneta europea a più velocità o a differente grado d’integrazione. Se non chiariamo il “quo vadis” finiremo per farci male da soli. Tutti.

L'ESTATE DEGLOBAL in Il Velino del 27 luglio

L'ESTATE DEGLOBAL
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Roma - Il Velino del 5 gennaio ha avvertito che il 2011 sarebbe stato ricordato negli annali della storia economica come l’anno della deglobalizzazione. Non ci piace certo essere profeti di sventura, ma i fatti ci stanno dando ragione: siano in una nuvolosa e tempestosa “estate deglobal” che nelle storie dell’economia verrà ricordata come quella in cui il rallentamento del processo di integrazione economica internazionale iniziato con la crisi economica del 2007 ha superato il punto del non ritorno; grazie al processo d’integrazione economica internazionale, produzione e redditi sono aumentati a tassi mai visti raggiungendo, in alcune aree del mondo, livelli considerati, un tempo, inconcepibili. In Italia i giornali non ne parlano, presi da tanti altri avvenimenti e internazionali e nostrani. Anche nel resto del Vecchio Continente e negli stessi Usa, l’“estate deglobal” è tema per quei palati fini che assaporano riviste specializzate. Su una di esse “Foreign Affairs” ha lanciato un avvertimento apocalittico lo storico Niall Ferguson: traccia un parallelo con l’estate 1914 (quella dell’inizio della prima guerra mondiale).

Restiamo più terra terra rivolgendosi a fatti e indicatori alla portata di tutti (e non presi in considerazione da Ferguson). Il primo è il fallimento del negoziato per la liberalizzazione degli scambi mondiali lanciato nel novembre 2001 nell’ambito del Wto (Organizzazione commerciale mondiale): in questi giorni, a Ginevra, le delegazioni hanno ammesso di essere giunte a un punto morto sui temi centrali e mirano al più a un’intesa minimale che forse il Congresso Usa neanche ratificherà. Alla riunione ministeriale in programma a Hong Kong in dicembre verranno fatti unicamente ritocchi marginali ai regimi in vigore. Infatti, nonostante sei ani fa abbiano preso l’avvio la zona di libero scambio centro americana (Cafta) e la zona di libero scambio Usa-Australia (Ausfta), il Congresso ancora non ratifica gli accordi bilaterali con Corea, Colombia e Bolivia conclusi dall’Amministrazione Bush. La galassia degli acronimi indica che il sistema commerciale è in via di frammentazione. Le mancate ratifiche degli stessi accordi bilaterali suggerisce che il protezionismo sta avanzando alla grande.


In tema di integrazione finanziaria il quadro non è più incoraggiante. Anni fa nel Journal of Finance, René Stullz dell’European Corporate Governance Institute ne mostra “i limiti” e ne traccia “i passi del gambero”. Stiamo però andando molto peggio di quanto preconizzato: per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, Usa ed Europa sono afflitti da crisi del debito sovrano , differenti in natura e sostanza, e vanno ciascuna per la propria strada senza alcun coordinamento nell’area economica “atlantica”. All’interno dell’Unione Europea (Ue) numerosi Stati che avevano sottoscritto l’accordo di Schegen lo hanno sospeso, o di fatto o di diritto. I provvedimenti anti-terrorismo comportano necessariamente freni alle migrazioni internazionali.

Si potrebbero citare molti altri casi. Chi sono gli alleati della deglobalizzazione? Non sono certo i rumorosi “no global” in grado di organizzare manifestazioni ma non di invertire tendenze. I veri alleati della deglobalizzazione sono quelli che, ai tempi del Kennedy Round della metà degli Anni 60, Mario Casari chiamava i ”barracuda-esperti”, sovente alti funzionari molto vicini a settori intrinsecamente protezionisti, nonché a sindacati anch’essi ostili alla globalizzazione. I deglobalizzatori hanno trovato nuova nobiltà nell’atmosfera neo-colbertiana che, da qualche anno, aleggia nelle cancellerie e nei Ministeri. Il rallentamento economico in atto in Europa aggrava la situazione alimentando e “barracuda esperti” e “neo-colbertiani”.
(Giuseppe Pennisi) 27 Luglio 2011 10:50
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martedì 26 luglio 2011

La verità sulla crisi di Usa ed Europa in Il Sussidiario 27 luglio

La verità sulla crisi di Usa ed Europa
Giuseppe Pennisi
mercoledì 27 luglio 2011
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FINANZA/ Perchè nessuno crede alla “balla” della crisi Usa?, di M. Bottarelli
FIAT/ I veri “problemi” che allontanano Marchionne dall’Italia, di P. Annoni
Se qualcuno mi chiedesse qual è il nodo del debito sovrano Usa, la risposta che mi verrebbe spontanea (avendo studiato e lavorato a Washington per 18 anni) sarebbe: “È il federalismo, bellezza!”. Se, invece, mi si domandasse di spiegare cos’è il problema di fondo dei debiti sovrani di Grecia, Irlanda, Italia, Spagna, Portogallo, risponderei, dato che sono nato e vivo a Roma e da 43 anni sono sposato a una francese, con pari immediatezza: “È la differenza in produttività e competitività nell’eurozona, bellezza!”.
Credo sia fondamentale afferrare questi aspetti di base, altrimenti il debito sovrano “atlantico” finisce in un calderone in cui tutti i gatti sono bigi. Gli Stati Uniti hanno una Costituzione che limita le funzioni “proprie” del Governo federale alla difesa nazionale e alla politica estera. Le altre funzioni (anche in materia di politica economica e di finanza pubblica) sono proprie del Congresso oppure (specialmente in campo dell’istruzione, della sanità, del sociale e delle strategie industriali) di ciascuno dei 50 Stati dell’Unione.
Presidente e Congresso sono eletti in modo differente, con sistemi elettorali differenti e pure da elettori differenti. Il Governo non è espressione del Parlamento, ma gode di una propria autorità derivante dai propri “grandi elettori”. Parimenti, il Congresso risponde ai propri elettori. Per questa ragione, il bilancio federale non nasce con una legge finanziaria proposta dalla Casa Bianca, ma all’interno della pertinente Commissione della Camera; l’inquilino del villino al n. 1600 di Pennsylvania Ave. NW può respingerlo, ma se riapprovato a maggioranza qualificata o lo accetta o fa i bagagli e lascia lo studio ovale al suo Vice per il resto del mandato.
Analogamente, il livello di debito pubblico (ora attorno al 100% del Pil degli Usa) deve essere “autorizzato” dal Congresso, in base al comma 8 dell’articolo 1 della Costituzione. Se tale autorizzazione non c’è, nessun Segretario al Tesoro può con un decreto dare il via all’emissione di titoli di Stato.
Il 2 agosto scadono titoli per diversi milioni di dollari; per rifinanziarli occorrono nuove emissioni e, quindi, un nuovo aumento del “tetto” del debito: l’ultimo è stato autorizzato il 12 febbraio 2010. Se l’autorizzazione non arriverà, il Governo federale sarà tecnicamente “insolvente”. È chiaro che dietro un problema essenzialmente contabile si nasconde una battaglia di politica economica (principalmente in tema d’intervento pubblico federale in materia sanitaria).
È anche evidente che verosimilmente si giungerà a un accordo che per l’Amministrazione Obama sarà una sorta di Caporetto economica, poiché dovrà dare una sterzata al programma annunciato in campagna elettorale e nel discorso di insediamento. Ove non si giungesse a un accordo (il Congresso ha il coltello dalla parte del manico), Obama dovrebbe cominciare a pensare a un trasloco anticipato; dopo l’insolvenza, si annunciano brutte sorprese in materia di bilancio.
Di altra natura il problema europeo. Non siamo alle prese con differenze di filosofia economica all’interno di un singolo Stato (ancorché Federale), ma di differenze di strategie economiche tra Stati che hanno dato vita a un’unione monetaria. Allora non venne metabolizzata la conseguenza principale dell’irreversibilità dell’euro: chi si era abituato a comportamenti birichini - Governi, Parlamenti, burocrazie, imprese, famiglie, individui - doveva essere più virtuoso degli altri per non essere schiacciato dallo loro maggiore produttività e competitività. Chi non si è messo sulla strada della virtù ha pensato di poter tamponare indebitandosi nella speranza che un Buon Samaritano Ue sarebbe prima o poi arrivato.
Lo descrive bene un saggio che uscirà nel prossimo numero della rivista “Discussion on Estonian Economic Policy”. Lo hanno scritto - per ora è disponibile unicamente una versione in tedesco inviata per osservazioni - due professori dell’Università di Greifsweig (una delle più antiche in Europa; è stata fondata nel 1456); si bagna sul Baltico, in quella parte della Pomerania ai confini con l’Estonia. Il saggio documenta che l’eurozona - in cui l’Estonia è appena entrata - è a rischio a ragione delle profonde differenze di politiche economiche e di prassi (segnatamente in materia di lavoro e di impresa). Le intese raggiunte per tamponare il debito sovrano di questo Stato o di quell’altro sono solo cerotti. O aspirine in casi in cui occorre invece rivolgersi al chirurgo.
Ci rifletteranno gli estoni. È bene che iniziamo a farlo pure noi.

La lirica sotto l'ombrellone Il Foglio 26 luglio

La lirica sotto l'ombrellone
Le nuove tendenze dell'opera vanno scena ai festival estivi di Aix-en-Provence e Salisburgo
Per toccare con mano le nuove tendenze del teatro d’opera non si possono mancare due festival estivi: Aix-en-Provence e Salisburgo. Si svolgono a luglio e agosto, propongono regie moderne, attualizzando le vicende ambientate da librettisti e compositori in tempi lontani, utilizzando abilmente il sistema delle coproduzioni e attirando artisti di rango.

Iniziamo dal Festival di Aix (5-15 luglio) che nasce con una vocazione “mozartiana”, poco rappresentato oltralpe sino alla seconda metà del Novecento, quasi sempre inaugurato da un nuovo allestimento di una delle 22 opere del salisburghese. Quest’anno sono in cartellone sei opere, tra cui “Aci e Galatea” di Haendel, coprodotta con La Fenice, sarà presto a Venezia, e “Austeritz” di Combier è un lavoro per bambini che verrà presentato negli ultimi due giorni del Festival ed è destinato principalmente al pubblico francese.

Nel 2011 si è rotta la tradizione mozartiane e l’inaugurazione è stata affidata alla Prima mondiale di “Thanks to My Eyes”, un’opera del milanese Oscar Bianchi (36 anni), poco noto in Italia, ma molto applaudito all’estero. Bianchi, che ha studiato al Conservatorio Verdi di Milano prima di completare la propria formazione all’IRCAM di Parigi e alla Columbia University, è alla sua prima opera per il teatro. “Thanks to My Eyes” non si fermerà a Aix: a marzo 2012 sarà in due teatri della regione parigina, ad aprile alla Monnaie di Bruxelles, a maggio a Lisbona e a giugno a Madrid. Si parla già di una possibile trasferta negli Stati Uniti. E’ un segnale importante al nostro paese; anche i musicisti (non solo gli economisti ed i manager) hanno all’estero quel successo spesso non riconosciuto in una patria che premia le cooptazioni parentali, amicali e di cordata. L’opera, molto più breve della pièce teatrale, è imperniata sul rapporto di un padre-padrone con il figlio. Sempre in bilico tra simbolismo e impressionismo, con un’orchestra di 12 elementi (che hanno la sonorità do 30), quattro cantanti e due voci recitanti, i 24 quadri scorrono agevolmente (in un’ora e mezzo senza intervallo) grazie ad una scena fissa di fiordi nordici, giochi di luce e grande attenzione alla recitazione. La scrittura orchestrale e vocale di Bianchi, pur mantenendo alcune convenzioni dell’opera tradizionale (ci sono, ad esempio, due duetti, alcuni ariosi e pure una “scena della pazzia”) è interessante: molto timbrica quella orchestrale (12 strumenti) ma al tempo stesso intrisa di melanconia.

Le voci seguono le convenzioni: il padre è un basso (Brian Bannatyne-Scott), le due donne (Karen Motseri e Fflur Wyn) due soprano lirici (una con agilità e coloratura), ma per Aymar Bianch scava nella vocalità seicentesca e porta un controtenore in grado sia di ascendere a tonalità altissime sia a giungere a toni baritonali. Non manca uno spiffero di elettroacustica per dilatare alcuni momenti. “Le Monde” la ha chiamata “un ritratto magistrale delle melanconia” della società di oggi. Merita di essere vista ed ascoltata in Italia: l’allestimento è a basso costo, tratta temi sempre attuali e la sua musica parla ai giovani di oggi.

Molto atteso il nuovo allestimento di “La Traviata”, che dopo una tournée in Francia, entrerà in repertorio alla Staatsoper di Vienna. Il palcoscenico è nudo, salvo alcuni elementi dipinti su siparietti. L’ambientazione e i costumi ricordano gli anni Quaranta e Cinquanta (filtrati attraverso i film di Truffaut e Chabrol, con qualche eco di Jean Vigo). L’azione, divisa in due parti, è un lento cammino verso una morte in età giovane all’insegna della passione di una coppia sulla via della maturità e anche del perdono. Una lettura drammatica e commovente che ha conquistato i numerosi giovani in sala, anche grazie a un sussidio pubblico che permette di riservare alcuni posti a prezzi bassissimi per gli “under 30” della regione di Aix. In buca, la London Symphony Orchestra (per quattro “in residenza” al Festival) diretta da Louis Langrée (una delle migliori bacchette del momento). Tra le voci, Natalie Dessay (nota principalmente come soprano di coloratura, ma reduce da due operazioni alle corde vocali), Charles Castronovo (giovane tenore americano, di recente protagonista del mozartiano “Ratto dal Serraglio” a Roma) e Ludovic Tézier (da decenni il principe dei baritoni francesi). Langrée legge “La Traviata” come una struggente preparazione a una morte in giovane età: dilata, quindi, i tempi e scava nei dettagli orchestrali, con l’accortezza di non coprire mai le voci. Divergenti i punti di vista sulla Dessay: grandissima interprete drammatica smussa quegli aspetti di “coloratura” e di agilità che più piacciono al pubblico – dimenticando che il “superacuto” al termine di Sempre Libera è frutto “di tradizione” di soprano virtuosisti non della partitura verdiana. Ottimo vocalmente il prestante Castronovo. Sempre un piacere ascoltare Tézier anche se non ha più il “legato” di un tempo. Deludente la parte drammaturgica, affidata al pluripremiato David McVickar, probabilmente dormiva su suoi allori. Abbiamo invece una regia ipertradizionale, in costumi napoleonici (invece che della Roma dei Cesari) in cui predominano il bianco e il nero (a eccezione del manto rosso fuoco dell’Imperatore). Lo spettacolo è in calendario a Tolosa e a Marsiglia. Merita di essere ripensato in quanto “La Clemenza” è forse l’opera mozartiana che più esprime i drammi del politico di fronte ai suoi doveri e ai suoi rapporti interpersonali.

“Il Naso” di Šostakovic è co-prodotto con il Metropolitan di New York e l’Opera Nazionale di Lione. L’attenzione è puntata sull’impianto scenico e registico di William Kentridge (di cui di è vista questa stagione la produzione de “Il Flauto Magico”). L’opera è conosciuta in Italia specialmente tramite la produzione, ormai storica, minimalista e a bassissimo costo del Teatro da Camera di Mosca. Tratta dalla novella di Gogol, il lavoro è una satira al vetriolo delle burocrazie; per questo fu vietata per decenni in Russia. Il gioco scoppiettante di gag futuriste e dadaiste contro l’arroganza del potere burocratico non sarebbe tale senza la magistrale bacchetta di Kazushi Onu alla guida dell’orchestra dell’Opera di Lione e una dozzina di affiatati solisti russi, maestri di questo tipo di teatro in musica.

Tiriamo le somme: a) le coproduzioni, a cui molte fondazioni liriche italiane sembrano resistere, sono essenziali perché “la musa bizzarra e altera” (l’opera lirica) sopravviva; b) per attirare nuovo pubblico (dato che gran parte degli spettatori hanno età prossime al viaggio più lungo), il teatro di regia deve puntare sulle idee (vedi “Thanks to my eyes” e “Traviata”) più che sugli allestimenti ad alto costo (“Il Naso” di Kentridge verrà ammortizzato unicamente se il Met lo terrà in repertorio per dieci anni e lo fitterà a altri teatri); c) sono essenziali programmi di biglietti a basso costo per i giovani per invogliarli ad andare a teatro (a Aix i primi posti costano 200 euro, ma quelli per i giovani del luogo arrivano a 15 euro).

© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi

Il "Rigoletto" dello Sferisterio si moltiplica per dieci in Il Sussiadiario del 26 luglio

LIRICA/ Il "Rigoletto" dello Sferisterio si moltiplica per dieci
Giuseppe Pennisi
martedì 26 luglio 2011
Foto Ansa
Approfondisci
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Macerata. Non ci sono soltanto notizie inquietanti dal mondo della lirica - minacce di scioperi e di teatri sull’oro della chiusura. Il 23 luglio ne sono giunte ne sono giunte due positive . Tra le due il nesso è unicamente casuale. La prima riguarda il Teatro Massimo di Palermo che, grazie ad una sana gestione, ha chiuso (nonostante “i tagli” dei contributi del Fus) il bilancio consuntivo 2010 in attivo: era un ente che dieci anni fa veniva considerato un pozzo senza fondo; purtroppo, la stampa del 24 luglio (se si esclude quella locale) pare non essersene accorta. La seconda viene da Macerata dove è iniziato il Festival Sferisterio 2011 (22 luglio-11 agosto) con il tema “Libertà e Destino” ed un programma variegato di tre opere, un balletto e concerti nei vari spazi che offre la deliziosa piccola città marchigiana.

Aperto da due lezioni magistrali (una del Vescovo di Macerata ed una di Massimo Cacciari) e da un nuovo allestimento del verdiano “Un Ballo in Maschera” curato da Pier Luigi Pizzi, la seconda opera andata in scena (tra una pioggia e l’altra) è un interessante “Rigoletto” con la regia di Massimo Gasparon (la terza è “Così Fan Tutte”, ripresa da una produzione di successo del Teatro delle Muse di Ancona).


E’ su “Rigoletto” che vale la pena soffermarsi in quanto è un esempio di quelle “buone prassi”, essenziali per restare in Europa, che “Il Sussidiario” sottolinea da sempre: lanciata all’Arena Sferisterio è una co-produzione che coinvolge una diecina di teatri – dal circuito lombardo (Como, Pavia, Cremona, Brescia, Bergamo), al circuito marchigiano (Jesi e Fermo oltre a Macerata), all’Arcimboldi di Milano, a Piacenza, Ferrara e Ravenna. Sono possibili trasferte (e noleggi) all’estero.


Gasparon ha pensato un dispositivo scenico che può essere facilmente utilizzato per differenti palcoscenici: una piattaforma girevole da cui emergono il salone delle Feste di Palazzo Ducale, i vicoli di Mantova, la casa di Rigoletto, l’osteria di Sparafucile in riva al Mincio. Interessanti anche i costumi: i protagonisti vestono abiti 1850 circa (ossia contemporanei alla prima rappresentazione dell’opera), i cortigiani vesti sgargianti invece ispirati al Tiepolo; il dispositivo consente un’azione quasi cinematografica. Una “co-produzione” di questo genere riduce i costi (in Italia sono mediamente il 140% di quelle dell’Europa a 15 ed il 250% di quelli dell’Europa a 27) non solo di allestimento ma anche di scritture in quanto se un artista è scritturato per 20 sere richiede un cachet per sera ben inferiore rispetto a quello di una scrittura per 4 o 6 sere. Esempio , quindi, da imitare


Nella “trilogia popolare” di Verdi, “Rigoletto” è l’opera che incarna i canoni del melodramma italiano quale plasmato dal “cigno d Busseto”: supera i “numeri chiusi” con declamati, ariosi e concertati (il terzo atto non è divisibile in “numeri”); ha un flusso orchestrale continuo al cangiare delle atmosfere (il secondo quadro del primo atto); e, soprattutto, ha personaggi con psicologie scavate a fondo. Rigoletto è il grande reietto ; sfigurato nel corpo, con un’anima sincera ed una seconda vita nascosta. Costretto a fare il compagno di bagordi del Duca di Mantova, si accorge che costui gli ha sedotto la figlia, Gilda. Assolda un killer per ucciderlo. Ma il pugnale trafigge la fanciulla. Dramma, quindi, cupo. E’ anche una delle opere più amate dal pubblico.

Soffermiamoci su questa produzione che verrà vista in molte città italiane e merita di andare all’estero. La recensione si basa un una “prima” molto attesa pure per il debutto allo Sferisterio del 24anne Andrea Battistoni (nuova “star” delle bacchette italiana) ma contrastata da una pioggia che ha costretto ad interrompere per oltre un’ora la rappresentazione dopo il primo quadro del primo atto. Occorre dare atto a maestranze ed artisti dello sforzo fatto per riprendere lo spettacolo e ridurre i tempi di intervallo in modo che l’opera terminasse all’1,30 del mattino (la previsione iniziale .era per 23 e 45).

L’impianto di Massimo Gasparon è suggestivo, oltre che funzionale: il dipanarsi delle scene e la differenza temporale dei costumi illustra (con un abile gioco di luci) stati d’animo, non solo i luoghi dell’azione. Battistoni ha mostrato alcune incertezze (nel coordinamento tra buca e coro) nella prima scena del primo atto ma era forse preoccupato dalle nubi nere che si addensavano; alla ripresa ha concertato con precisione. E’ , però, essenziale che non si sieda sugli allori ma continui a studiare: lo attende una prova difficilissima “Nozze di Figaro” alla Scala – Karajan affermava che la si affronta unicamente dopo che si hanno in repertorio almeno 30 opere in una dozzina di teatri secondari.

Tra le voci, sempre di gran rilievo Desirée rancatore, giovane (e bella) nonché maestra del ruolo che ha cantato in Italia ed all’estero più volte; un vero e proprio usignolo in grado di effettuare il “sovracuto” al termine di Caro Nome. Ismael Jordi è un giovane “tenore di grazia”, il suo “Duca di Mantova” è, quindi, più sensuale e più delicato di quanto ci si aspetta a ragione dell’evoluzione che, negli anni, ha portato ad affidare la parte a “tenori lirici spinti”. Il protagonista è Giovanni Meoni, che offre un “Rigoletto” personalissimo,moderno, scavato nella psicologia- lontano (finalmente) da due grandi (Bruson e Nucci) che in Italia hanno dominato la scena in questi ultimo 40 anni.

Almeno un cenno all’opera inaugurale: la vicenda di “Un Ball in Maschera” viene spostata da Pizzi dalla Boston coloniale all’America del 1960 circa ed alla Casa Bianca e dintorni. Quindi tra tensioni innovative (anche e soprattutto politiche), resistenze e rapporti sentimentali quanto meno complicati. L’azione si svolge quasi interamente sul boccascena, ma dai due lati spettatori/comparse assistono e partecipano ai momenti di massa mentre sul grande muro dello Sferisterio vengono proiettati su tre schermi dettagli in un bianco e nero dei cinegiornali dell’epoca. Uno spettacolo affascinante che coglie il senso “politico”, e passionale, de “Un Ballo”.

FESTIVAL DEL TIROLO: NOTE DIVINE CON WAGNER in Avvenire 26 luglio

FESTIVAL DEL TIROLO: NOTE DIVINE CON WAGNER
Giuseppe Pennisi
Nel lembo del Tirolo che si inserisce nella Baviera, c’è un villaggio di 1450 abitanti, Erl, dove da circa quattro secoli, ogni sette anni, l’intera popolazione mette in scena una Sacra Rappresentazione della Passione. Alla fine degli Anni Cinquanta, vi è stata costruita una struttura permanente (Passionsspielhaus) con 1700 posti, un palcoscenico lungo e stretto, una sistemazione a gradoni (dietro il palcoscenico e in piena visibilità da parte del pubblico) per 130 orchestrali ed un grande organo. Da una dozzina di anni, tra una Passione e l’altra, viene organizzato il Festival del Tirolo (quest’anno dal 7 al 31 agosto). La Passionsspielhaus ospita opere (quest’anno tre wagneriane: “Tannhäuser”, “Maestri Cantori” e “Parsifal”) e grande sinfonica, la Chiesa Parrocchiale Sant’Andrea ed il salone dell’unico grande albergo, la cameristica. Il Festival è una creazione di Gustav Kuhn : alcune produzioni del Festival arrivano nella Penisola, come la “Elettra” che si è vista a Bolzano, Piacenza, e Ravenna.
Dato che Kuhn è cattolico e la principale struttura del Festival è la Passionsspielhaus, il programma guarda all’Alto. Questa edizione è stato inaugurata con la quarta di Bruckner ed ha tenuto a battesimo la nuova versione della “Missa ad venerationem artium et vitae” di Engell. A 80 km a Sud di Monaco ed a 70 a Est di Salisburgo, il pubblico non manca. Anzi – il Festival è finanziato quasi esclusivamente da privati e da enti locali – sono state trovate le risorse per costruire, accanto alla Passionsspielhaus, un teatro per rappresentazioni invernali.
La struttura della Passionsspielhaus, e la necessità di produrre alta qualità a basso costo (Bayreuth e Salisburgo sono dietro l’angolo; il pubblico austriaco e tedesco è preparato) impongono interessanti soluzioni registiche. “I Maestri Cantoni” , ad esempio, si svolge su una pedana (con orchestra a vista nel fondale) in cui elementi scenici suggeriscono di volta in volta la Chiesa di Santa Caterina, la casa di Sachs, le stradine di Norimberga e la pianura dove si svolge la gara di canto al centro della commedia. I 17 protagonisti ed il coro alternano costumi rinascimentali (quando vestono funzioni pubbliche) e contemporanei (quando in privato si rivolgono ai grandi temi etici del lavoro). La popolazione di Erl è coinvolta come comparse; i bambini come mascotte delle corporazioni. Un modo per fare considerare il festival come capitale sociale della comunità. I cantanti provengono dai maggiori teatri del mondo tedesco e, i più giovani, dalla Montegral Academy nei pressi di Lucca.
Discutibile il nuovo allestimento di“Tannhäuser”,nonostante l’alta qualità musicale , specialmente dei tre protagonisti (Luis Chapa, Micheal Kupfer e Nancy Weissbach). I costumi del Langravio di Turingia e dei Cavalieri del Wartburg sembrano ispirati ad un circo felliniano, il baccanale pare svolgersi in un harem talebano (con tanto di burqa) ed i coro femminile indossa curiosi abiti da Mittleeuropa Anni 30. Difficile comprenderne le ragioni.
Circa la metà dei 130 orchestrali sono giovani musicisti italiani.

LIBERTA’ E DESTINO IN SALSA KENNEDIANA APRE SFERISTERIO Il Riformista 26 luglio

LIBERTA’ E DESTINO IN SALSA KENNEDIANA APRE SFERISTERIO
Beckmesser
Il Festival Sferisterio 2011 si presenta con un cartellone ricco: dal 22 luglio all’11 agosto, tre opere, uno spettacolo monte verdiano, una rievocazione mahleriana ed una serata di balletti in vari spazi: dalla grandiosa arena sferisterio all’elegante settecentesco Lauro Rossi,dal grandioso auditorium San Paolo ad un cinema-teatro che ben si presta a lavori a carattere intimo. E’ cartellone diretto non solo a chi frequenta le spiagge marchigiane ma che attrae pubblico internazionale, come testimonia un gruppo di melomani tedeschi , che hanno occupato (prenotando con largo anticipo) i migliori alberghi della città.
Da quando Pierluigi Pizzi ha preso in mano la direzione artistica della manifestazione , ogni viene proposto un tema: dopo “la seduzione”, l’intrigo”, “il gioco del potere”, quest’anno il fil rouge è “libertà e destino”- con una vaga attinenza, quindi, alla celebrazioni per i 150 dell’Unità d’Italia. Inoltre, al pari di quanto avviene in Aix en Provence, è stata definita una rete di coproduzioni per ripartire i costi su più fondazioni: ad esempio, “Il Rigoletto” allestito per l’occasione è frutto dello sforzo produttivo di dieci teatri e si vedrà in varie città delle Marche e della Lombardia.
Il Festival –aspetto inconsueto per una manifestazione musicale – è stato aperto con una conferenza-lezione magistrale di Massimo Cacciari sull’interazione tra responsabilità individuale e collettiva nel binomio libertà e destino essenziale per riformare continuamente noi stessi e la società in cui viviamo. Quindi, prima ancora che il maestro concertatore desse il “la”, si è subito avvertito il carattere “politico” (nel senso alto di attenzione alla Polis) della manifestazione.
Lo ha confermato la prima opera presentata: il verdiano “Un Ballo in Maschera” (una rarità quasi nel catalogo verdiano: a Roma ed a Milano manca da dieci anni e dovrebbe essere nel programma del prossimo Festival Verdi, sempre che la manifestazione abbia luogo e non venga annullata per problemi finanziari).
E’ necessaria una breve chiosa. Tra il 1828 (“Le comte Ory” di Giaocchino Rossini) ed il 1893 (“Manon Lescaut” di Giacomo Puccini) per l’opera italiana c’è una lunga notte senza eros (presentissimo, invece, proprio in quei decenni nel teatro lirico tedesco e francese, nonché in alcuni lavori di quello nazionale russo). La lunga notte viene interrotta, nel 1859, da “Un ballo in maschera” di Giuseppe Verdi, messo in scena, dopo complicate difficoltà con censure di vari Stati e statarelli di cui allora si componeva la Penisola, nella bighittosima Roma del dominio temporale pontificio. Le censure – lo sappiamo – non se la prendevano con il lungo duetto del secondo atto, una vera e propria rivoluzione se non erotica quanto meno carnale (grande novità nell’asessuato, eppur sentimentalissimo, melodramma del romanticismo), ma con il regicidio su era imperniato “Gustave III ou le Bal Masqué” di Eugenio Scribe da cui il buon Antonio Somma aveva tratto il libretto per Verdi. Sappiamo come andò: dopo aver trasportato la vicenda dalla Svezia, dove il “fattaccio” (assassinio di un re durante una festa in costume) avvenne, in una fantomatica Pomerania, i censori papali (ben oliati dall’editore Ricordi) richiesero che la vicenda venisse portata nella lontana America, a Boston, ed il “morto ammazzato” fosse semplicemente un Conte, Governatore del Massachussetts. Il trasporto carnale nell’”orrido campo” del secondo atto rimase tale e quale; così la musica che gradualmente lo prepara (dallo strumento leit-motiv per clarinetti dell’introduzione) e che lo segue (al duettino “T’amo, sì t’amo e in lacrime” della scena finale).
Questa premessa è importante perché registi e scenografi, secondo il vostro “chroniqueuer”, dovrebbe una volte per tutte abbandonare Boston, gli indiani e tutta l’iconografia da Mayflower in cinemascope che, per una stupidità censoria, accompagna “Un ballo in maschera”. Lo si dovrebbe concedere solo all’Arena di Verona a ragione dello smisurato palcoscenico da riempire con Sioux e pionieri e da trasformare una festa da ballo in un Carnevale di Rio. “Un ballo” è essenziale: in una “corte” o società essenzialmente amorale, un uomo probo si innamora, carnalmente, della moglie del suo migliore amico; ne è ricambiato; uomo e donna si spiegano senza mai sfiorarsi; ma per una serie di circostanze ed equivoci, il marito che si crede tradito (senza esserlo) uccide il proprio più caro amico. Il libretto è contorto, ma la musica (anche se non senza qualche asperità) lo trasfigura, un caso che accomuna “Un ballo” con delle opere più belle e più sofferte di Verdi (“Simon Boccanegra”).
Pierlugi Pizzi ha ripreso un’idea già centrale ad una sua regia, alcuni anni fa, al Municipale di Piacenza: la vicenda viene spostata nell’America degli Anni Sessanta, alla Casa Bianca e dintorni. Quindi tra tensioni innovative (anche e soprattutto politiche), resistenze e rapporti sentimentali quanto meno complicati. L’azione si svolge quasi interamente sul boccascena, ma dai due lati spettatori/comparse assistono e partecipano ai momenti di massa mentre sul grande muro dello Sferisterio vengono proiettati su tre schermi dettagli in un bianco e nero dei cinegiornali dell’epoca. Uno spettacolo affascinante che coglie il senso “politico”, e passionale, de “Un Ballo”.
Gli aspetti musicali, alla “prima”, non sono stati all’altezza della regia (che speriamo venga ripresa da altri teatri anche se al chiuso non riesce a dare la sensazione del grandioso, ma anche tenero, spettacolo all’aperto). Occorre dire che la “prima” è stata funestata da un prologo di sventure. Le prove sono iniziate con la direzione musicale di Paolo Carignani (che in seguito a dissapori su cui non sta a noi entrare) ha passato il testimone a Daniele Callegari. La protagonista sarebbe dovuta essere la giovanissima Teresa Romano, nuovo idolo dei media ma la cui “Forza del Destino” qui a Macerata e “Trovatore” a Parma hanno lasciato a desiderare. Alla vigilia, è stata chiamata un’altra giovane: Victoriia Chenska . E’ nell’organico dell’Opera di Kiev dove ogni anno interpreta una ventina di ruoli da soprano drammatico: avvenente e con una buona emissione è dovuta entrare nelle parte quasi senza effettuare prove. Il baritono, Marco De Felice, infine, memore della fredda, ove non gelida accoglienza avuta un anno fa allo Sferisterio è entrato in scena tremante ed è parso sicuro solo nelle ultime scene. In breve, Callegari e l’orchestra avrebbero avuto bisogno di maggior adrenalina, De Felice di serenità. Diseguale il tenore Stefano Secco (che ha voce ben impostata ma non grande volume). Giunta un po’ come il”pronto soccorso” (e senza grandi aspettative da parte di nessuno) l’ignota (o quasi) Victoriia Chenska ha trionfato ed, accanto a lei, il soprano di coloratura Gladys Rossi (trasformata da paggio a segretaria di John Fitzgerald Kennedy, o ad un Presidente Usa un po’ libertino molto simile a lui).

giovedì 21 luglio 2011

Perché Vienna e Berlino riescono a fare di più di Roma? in Il Sussidiario 22 luglio

SCIOPERO OPERA/ Perché Vienna e Berlino riescono a fare di più di Roma?
Giuseppe Pennisi
venerdì 22 luglio 2011
Il Teatro dell'Opera di Roma tra tagli e scioperi
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E’ stata minacciata un’ondata di scioperi al Teatro dell’Opera che metterebbe a repentaglio la prosecuzione della stagione estiva alle Terme di Caracalla e quella stagione 2011-2012 al Costanzi che si sarebbe dovuta inaugura con l’attesa co-produzione con il Festival di Salisburgo del “Macbeth” di Verdi con la regia di Peter Stein e la direzione musicale di Riccardo Muti «A causa dei tagli ai finanziamenti e al personale si sta riducendo da un'eccellenza ad una struttura di provincia», denunciano Cgil, Cisl e Uil.


Un loro portavoce incalza: «Ormai si scarica tutto sulla buona volontà dei lavoratori, parlo delle maestranze, di falegnami, tecnici, addetti al montaggio delle scene: basti pensare che l'organico dovrebbe essere di 631 dipendenti e invece oggi all'Opera lavorano 510 persone, di cui moltissimi precari da anni che stanno cominciando a intentare cause legali visto che nessuno li assumerà mai». I pochi soldi a disposizione si traducono in tagli a scenografie e organico. «Per questo motivo non facciamo più 250 rappresentazioni l'anno come in passato, bensì solo 120, siamo diventati un teatro di provincia». E a rischio è anche il corpo di ballo. In aggiunta, secondo i sindacati, pendono sul teatro circa 250 vertenze per la stabilizzazione, riferite al collegato lavoro della legge sulla stabilità e convergenza finanziaria. Il Campidoglio ha risposto con una verifica dei conti ed un possibile incontro con i sindacati per il 21 luglio, al fine di scongiurare che a Caracalla salti l’attesa “prima” del nuovo allestimento di “Tosca”. Al momento in cui viene scritto questo articolo non si se l’incontro c’è stato e quale è stato l’esito.
Cerchiamo di esaminare la questione “sine ira ni studio”. Secondo l’ultimo bilancio depositato da me studiato nel 2009 hanno lavorato alla Fondazione Teatro dell’Opera 720 persone-anno equivalenti (includendo contratti a progetto e collaboratori). Una forza lavoro superiore a quella della Staatsoper Under Den Linden di Berlino che alza il sipario oltre 300 sere l’anno. Anche ove i dipendenti fossero 631 oppure 510 in un teatro dell’opera tedesco, americano o francese oppure ancora del Benelux , la produzione sarebbe il doppio di quella del Teatro dell’Opera di Roma.
Per un decennio, dopo tre lustri in cui saltavano spettacoli a ragione di scioperi ed il teatro perdeva pubblico, c’è stata una pace sindacale che è costata, però, un aumento del 43% delle spese per il personale (nell’arco dei dieci anni) e la depauperazione del capitale della Fondazione (bilanci alla mano). In quel periodo, quasi ogni anno alla ripresa autunnale venivano minacciati scioperi, si correva al Campidoglio che interveniva con 8-10 milioni di euro l’anno. Ora le casse sono vuote per tutti. Di conseguenza, è difficile che il Sindaco possa dare altra risposta che quella di rimboccarsi le maniche e produrre di più. Dati ufficiali alla mano, i dipendenti totali della fondazione sono 631 (rispetto a 802 del Teatro alla Scala), quelli nell’area amministrativa 71 (83 alla Scala) includendo i professionisti dell’archivio storico informatizzato (uno dei più moderni al mondo).Ma il Teatro alla Scala produce molto di più, quasi il doppio (in termini di alzate di sipario per opera e balletto, ossia escludendo quelle per i concerti) del Teatro dell’Opera .
In molte fondazioni e” teatri di tradizione”, si sono resi conto dell’autogol; se i teatri restano semi-vuoti perché il pubblico non può programmare quando ci sarà e quando non ci sarà spettacolo , è impossibile chiedere sovvenzioni a Pantalone. E’ tema su cui stanno riflettendo alcuni Sindaci- di norma Presidenti delle fondazioni – specialmente delle città d’arte dove il turismo culturale pesa. Non solo ma anche se la protesta riguarda i dipendenti delle fondazioni e non quelli di teatri “di tradizioni” o di “festival”, l’immagine che essa proietta colpisce l’intero comparto, con il rischio che potranno soffrire anche prestigiosi festival estivi. Se a Roma si torna alla prassi degli scioperi a scacchiera (come negli Anni Novanta), rilancerò la proposta (di cui allora fu entusiasta il compianto Giuseppe Sinopoli) non di commissariare la Fondazione ma di scioglierla ed affidare il manufatto ad un impresario che ingaggi compagnie da tutto il mondo (a costi e prezzi differenziati) per soddisfare il pubblico: ciascuno porterebbe coro, orchestra, scene e costumi. Basterebbe un organico fisso di 40 persone: Aix en Provence (con circa 90 alzate di sipario) ne ha 34.
Con 7 delle 14 fondazioni con i bilanci consuntivi in rosso, tre appena uscite dal commissariamento, altrettante prossime ad esserlo, con sovvenzioni pubbliche (pur pari alla metà dell’intero Fus, Fondo unico per lo spettacolo) che non coprono il costo dei dipendenti (una voce in vera e propria escalation), da anni sostengo sull’urgenza di prendere misure prima che la lirica passi dalla sala di rianimazione alla camera ardente. L’intervento, indispensabile, è sulla maggiore voce di costo: il personale, allineandone la contrattazione ed altre regole al resto del settore pubblico (dato che Pantalone lo paga interamente). E’ difficile capire perché molti teatri italiani (con 7-10 opere l’anno in cartellone) hanno un organico analogo a quello della Staatsoper di Vienna (che nel 2011 offre 50 titoli e 10 nuovi allestimenti). Contrattazione nazionale tramite la mano pubblica (nel caso italiano, l’Aran), assunzioni legate al turnover e blocco delle abitudini di alcuni di non presentarsi alle prove per svolgere altra attività professionale sono misure in atto in Germania, Austria, Francia, Benelux, oltre che negli Usa e pure in Russia, nei confronti delle quali è difficile capire le proteste e le minacce di occupazione dei teatri. Portata l’Italia nell’euro, dobbiamo portare le migliori prassi europee nella Penisola. Pure nei teatri.
Frequento il Teatro dell’Opera da quando avevo 12 anni. Avrei certo desiderato che anche quello della capitale avesse un ruolo privilegiato, analogo a quelli concessi alla Scala ed all’Accademia di Santa Cecilia, nella politica legislativa. Ciò sarebbe stato quasi dovuto dato il carattere di rappresentanza del teatro lirico della capitale (già, peraltro, riconosciuto per legge). Senza programmazione di livello (attirando anche soci privati), con poche alzate di sipario e con scioperi continui , il teatro a Piazza Gigli non può aspirare di fruire di uno status analogo a quello della Scala. Un tempo – occorre ricordarlo – il Teatro dell’Opera vinceva gare con la Scala (in termini di quantità e qualità di offerta); non è, quindi, un traguardo irraggiungibile. Oggi si sta mettendo sulla china della chiusura.

LE PRIVATIZZAZIONI ED I PRIVATIZZATORI in Il Riformista 22 luglio

I LIBRI DEI MINISTRI-GIANFRANCO ROTONDI
LE PRIVATIZZAZIONI ED I PRIVATIZZATORI
Giuseppe Pennisi
Il Ministro per l’Attuazione del Programma, Gianfranco Rotondi, fondatore della Democrazia Cristiana per le autonomie, ha bevuto politica con il latte della mamma. Non ha parlato molto , con interviste ed interventi televisivi, ma prima di molti altri colleghi ha afferrato che il programma per essere attuato sino alla fine normale della legislatura necessità un forte impulso dal lato dello sviluppo. Da uomo del Sud, lo sviluppo della produzione e della occupazione sono sempre stati molto vicini al suo cuore. Inoltre, Rotondi conosce i suoi polli: le corporazioni. E’ consapevole che molto o poco si può ottenere sul fronte delle liberalizzazioni. Quindi, è su quello delle privatizzazioni che occorre agire.
Sulla sua, sempre ordinatissima, scrivania sono in bella vista due libri, uno di circa un anno fa ed il secondo appena giunto in libreria. Il primo è di un accademico e manager, prestato più volte alla politica, per importanti incarichi ministeriali, Franco Reviglio: Good-bye Keynes? Le riforme per tornare a crescere - Meno debito, Più Lavoro” pp.144 Milano, Guerini e Assiociati 2010. Il secondo è di un manager- industriale – giornalista (era alla guida de “Il Sole” ad appena 28 anni): Vieri Poggiali: “La Sag(ra) Chimica- Il Caso Montedison” pp.282 Milano, Albatros. Due modi differenti di vedere le privatizzazioni. Il primo è quello dell’uomo di studio diventato operatore. Il secondo è quello del giornalista divenuto anche lui operatore. ”. Nel suo “addio a Keynes”, il socialista Reviglio ricorda alcune cifre che dovrebbero causare imbarazzo. Nel periodo 1990-2006, nell’Unione Europea (UE) sono state effettuate 1.111 operazioni di privatizzazione, con un provento di circa 600 miliardi di euro. Nello stesso arco di tempo, in Italia, si sono avute 139 operazioni (12,5 per cento del totale) con ricavi pari a 137,9 miliardi di euro (un quarto del totale Ue). Ma - si badi bene - partivamo da un’economia con un intervento pubblico più massiccio che in altri Paesi europei. Inoltre, la “curva delle privatizzazioni”, per così dire, mostra un andamento ascendente, specialmente dopo il 1996 (il primo lustro, lo ho illustrato in altra sede è stato essenzialmente di preparazione) con un brusco arresto nel 2006 Il quadro di altri Paesi - si dirà - è meno incoraggiante: negli Stati Uniti, in Francia, in Gran Bretagna, in Spagna, in Portogallo e in Irlanda (per non citare che alcuni tra i casi salienti)- le operazioni di salvataggio allo scoppio della crisi iniziata nel luglio 2007 hanno causato ondate non di nazionalizzazioni anche in Paesi (principalmente gli Usa) di solito restii alle braccia tentacolari dell’intervento pubblico. In Italia, lo abbiamo evitato. Possiamo riprendere la massima di Tevye, il contadino dalle tasche sempre vuote della fortunata commedia musicale Fiddler on the Roof (Un violinista sul tetto): non dobbiamo vergognarcene ma neanche gloriarcene. In effetti, le privatizzazioni sono, con le liberalizzazioni, tra le poche strade possibili per riprendere a crescere - dopo tre lustri di andamento economico.
rasoterra - in un’economia come la nostra schiacciata da un forte peso del debito pubblico.
Poggiali, invece, con uno stile pungente che rendono appassionante la lettura di 300 pagine sviscera quella che è stata, al tempo stesso, la madre di tutte la nazionalizzazioni (la Montedison) ed anche la madre di tutte le privatizzazioni (sempre la Montedison) attraverso un trentennio di guerre chimiche che hanno, in ultima analisi, portato al proprio autodafé, ossia alla scomparsa dell’azienda su u rogo costruitosi con le sue stesse mani. Nei vari capitoli – specialmente eloquente il dodicesimo su “Privatizzazioni e Risse” – si esamina la complessa interazione tra mondo politico e mondo industriale e si riportano alla luce vicende insabbiate con troppa velocità. Quel mondo , e quel modo, di gestire la cosa pubblica e la cosa privata è finito con l’Italia dell’unione monetaria europea oppure occorre trovare antidoti? Rotondi se lo chiede. Lo domanderà pure al suo amico e collega Paolo Cirino Pomicino , Presidente del Comitato tecnico scientifico per il coordinamento in materia di valutazione e controllo strategico.

mercoledì 20 luglio 2011

AIX EN PROVENCE: IL FUTURO DELLA LIRICA? IN MANO AI REGISTI in Avvenire 21 luglio

AIX EN PROVENCE: IL FUTURO DELLA LIRICA? IN MANO AI REGISTI
Giuseppe Pennisi

Aix en Provence Il Festival International d’Art Lyrique che si tiene ogni estate (quest’anno dal 5 al 24 luglio)in quella che fu la capitale della Provenza è, da un lato, un’indicazione di quello che si vedrà nei maggiori teatri europei nelle prossime stagioni e, da un altro, delle tendenze più avanzate del “teatro di regia”, ossia di messe in scene di opera lirica in cui dominano la personalità e lo stile del regista. Non sempre gli spettacoli arrivano immediatamente in Italia- un gioiello come “Il Ritorno d’Ulisse in Patria” di Monteverdi prodotto a Aix nel 2000 venne ripreso nel 2005 da ben otto teatri della Penisola. Dato che, al fine di ridurre i costi su ciascun teatro, si tratta sempre di co-produzioni girano nelle principali scene europee ed americane. Delle sei opere (una per ragazzi) di questo Festival 2011 ne ho assistito a quattro.
L’inaugurazione della manifestazione nata nell’immediato dopoguerra, con il supporto di un Arcivescovo appassionato di musica (dei suoi quattro teatri il principale è ancora quello nel cortile del Palazzo Arcivescovile), con l’obiettivo principale di fare conoscere Mozart (allora poco eseguito in Francia), è stata affidata non ad un lavoro del salisburghese (la prassi riprenderà nel 2012) ma ad uno del milanese 36nne Oscar Bianchi, poco noto in Italia ma apprezzato Oltralpe, Oltre Reno ed Oltreatlantico. Bianchi, che ha studiato al Conservatorio Verdi di Milano, all’IRCAM di Parigi ed alla Columbia Università, è alla sua prima opera per il teatro. Quindi, Thanks to my eyes, tratta di una pièce di Joël Pommerat del 2003 , è doppiamente un’opera prima: una prima composizione per il teatro in musica e la consacrazione in uno dei maggiori festival internazionali. Il dramma di Pommerat si ispira chiaramente al primo novecento: Cecov, Maetterlink, Ibsen, e Bernhard. L’opera, molto più breve della pièce teatrale, è imperniata sul rapporto di un padre-padrone e la maturazione del figlio di quest’ultimo. Sempre in bilico tra simbolismo e impressionismo, con un’orchestra di 12 elementi (che hanno la sonotità do 30), quattro cantanti e due voci recitanti, i 24 quadri scorrono agevolmente (in un’ora e mezzo senza intervallo) grazie ad una scena fissa di fiordi nordici, giochi di luce e grande attenzione alla recitazione. Thanks to my eyes ha già un calendario fitto in teatri d’opera di Bruxelles, Parigi, Lisbona e Madrid. E’ possibile che approdi al MiTo 2012.
Grande attesa per il nuovo allestimento di “Traviata” (dieci repliche a Aix, una tournée in Francia e, poi, in repertorio alla Staatsoper di Vienna) non solo perché i ruoli principali sono affidati a Nathalie Dessay, Charles Castronovo e Ludovic Terzier ma anche per la regia di Jean-François Sivadier, le scene di Alexandre de Dradel ed i costumi di Virginie Gervaise. Il palcoscenico è nudo, salvo alcuni elementi dipinti su siparietti. L’ambientazione ed i costumi ricordano gli Anni Quaranta e Cinquanta (filtrati attraverso i film di Truffaut e Chabrol, con qualche eco di Jean Vigo). L’azione, divisa in due parti, è un lento cammino verso una morte in età giovane all’insegna della passione di una coppia sulla via della maturità ed anche del perdono. Una lettura drammatica e commovente che ha conquistato i numerosi giovani in sala , pure grazie ad una politica in base alla quale in cambio del sussidio pubblico un certo numero di posti sono riservati a prezzi bassissimi a “under 30” della regione di Aix.
Tradizionale, invece, La Clemenza di Tito (penultima opera di Mozart), affidata per la parte drammaturgica, allo scozzese David McVickar e , per quella musicale, all’ottuagenario (ma vivacissimo) Sir Colin Davis. Da McVickar, multi premiato per i suoi spettacoli, si attendeva una regia più innovativa, non solo costumi napoleonici (invece che della Roma dei Cesari) e predominanza del bianco e nero (tranne che per manto rosso fuoco dell’Imperatore). La scena è un colonnato ed una scalinata monumentale. L’azione minimale, quasi ieratica. Trasmette il senso della “clemenza” del potere assoluto ma ci sarebbe aspettato un guizzo più dinamico. Il prossimo autunno lo spettacolo sarà a Tolosa ed a Marsiglia.
Molto differente lo scoppiettante trattamento che William Kentridge (di cui la scorsa stagione si è visto alla Scala l’allestimento de Il Flauto Magico) fa de Il Naso di Šostakovič, opera conosciuta in Italia specialmente tramite la produzione , ormai storica, del Teatro da Camera di Mosca. Tratta dalla novella di Gogol, il lavoro è una satira al vetriolo delle burocrazie; per questo venne di fatto vietata per decenni in Russia. I tre atti e dieci quadri presentati in un’ora e tre quarti senza intervallo vengono messi in scena senza lesinare in idee, gags e tecnologia; l’allestimento è coprodotto con il Metropolitan di New York e l’Opera di Lione. Ispirato al teatro ed alla pittura futurista dei primi anni del Novecento (quali letti con gli occhi di oggi). Uno spasso (pur se sarcastico) per grandi e piccini. Approderà prima o poi alla Sala del Piermarini.
“Modernizzare” l’opera conviene; toglie polvere e muffa; la rende più appetibile alle nuove generazioni; in tre dei quattro allestimenti , comporta anche costi contenuti di scene e costumi. “Coprodurre” conviene sempre per ridurre i costi su ciascun ente: gli spettacoli si possono spostare ed adattare a palcoscenici differenti, mentre solo una minuta fascia del pubblico prende treno, auto ed anche aereo per inseguire spettacoli.

martedì 19 luglio 2011

FESTIVAL DEL TIROLO PER ASSAPORARE I MEISTERSINGER DI RICHARD WAGNER in Il Riformista 20 luglio

FESTIVAL DEL TIROLO PER ASSAPORARE I MEISTERSINGER DI RICHARD WAGNER
Beckmesser

Per chi non ha le risorse (i primi posti costano 300 euro) od il tempo (la lista di attesa è sette anni ma si può sempre tentare all’ultimo momento sul posto di trovare qualche biglietto di chi, compratolo, non è potuto andare allo spettacolo) per ascendere al “sacro colle” di Bayreuth, il Festival del Tirolo rappresenta un’ottima alternativa per ascoltare Wagner in estate. Si svolge nel piccolo centro di Erl (in quel lembo del Tirolo che si stende tra il Kaiserberg, il fiume Inn e la Baviera), a 80 km sia da Monaco sia da Salisburgo. Dal 1613 ogni sette anni tutto il villaggio mettere in scena una Sacra Rappresentazione della Passione. Negli Anni Sessanta, vi è stata costruita un’ottima struttura in muratura ben inserita nell’ambiente rurale per la Sacra Rappresentazione. Da una dozzina d’anni, Gustav Kuhn, noto in Italia non solo per avere diretto nei maggiori teatri ma anche per essere stato direttore artistico dell’Opera di Roma, del San Carlo e dello Sferisterio, vi ha creato un festival in cui la struttura eretta per la Sacra Rappresentazione si trasforma in un funzionale teatro d’opera dove Wagner è di casa; quest’anno , sino al 31 luglio, si alternano un nuovo allestimento di “Tannhauser” e riprese di “Parsifal” e di Die Meistersinger von Nurnberg“” (“I maestri cantori di Norimberga”) su cui ci soffermiamo perché da molti considerata come la più bella commedia in musica mai scritta e composta -
La trama è semplice. Nella Norimberga delle corporazioni, si svolge una gara di canto. L’orafo Pogner ha messo in palio la figlia (la diciottenne Eva) che se decide di non impalmare il vincitore deve comunque scegliere come sposo un “maestro cantore”. Due quarantenni i principali contendenti: il calzolaio poeta Hans Sachs ed il segretario comunale, nonché occhialuto censore delle arti, Beckmesser . Eva, però, è innamorata, del cavaliere di Franconia, Walter il quale la ricambia ma fallisce la prova necessaria per essere ammesso alla corporazione dei “cantori”. Sachs comprende l’amore dei giovani, rinuncia ai propri disegni su Eva ed in una lunga notte di imbrogli addestra Valter in modo che sconfigga Beckmesser, vinca la mano di Eva ed abbia sempre presenti i valori della “sacra arte tedesca”. Su questa trama , se ne inseriscono secondarie (quale il rapporto carnale tra Davide, apprendista di Sachs e Maddalena, governante di Eva) in una società in transizione da Medio Evo ad età moderna. L’esecuzione della partitura (escludendo gli intervalli) dura dalle 4 ore e 25 alle 4 ore e 50 minuti (a seconda del piglio dei concertatori).
Theodor Adorno ha scritto che “Die Meistersinger” è la più alta e più piena espressione del genio dell’Occidente . Pur se storicizzata nella società tedesca alla fine del XVI secolo, “Die Meistersinger” è una grande commedia umana con valenza generale ed a-storica: esalta le libertà civili ed economiche, la tolleranza, l’amore in tutte le sue guise, la lealtà intergenerazionale, la sacralità dell’arte e del pensiero e la continuità dei valori in un periodo di cambiamento. Nelle circa 6 ore di spettacolo (intervalli compresi), si ride e ci si commuove e si è trascinati da un flusso continuo diatonico, dove domina il contrappunto ed ha un ruolo determinante la polifonia.
La sua messa in scena presenta enormi difficoltà per la regia, per l’orchestra, per le voci (17 solisti, un doppio coro, un coro di voci bianche ed anche un breve ma incisivo balletto). L’edizione al Festival del Tirolo ha debuttato tre anni fa ed è stata da allora affinata . Kuhn firma scene, costumi e luci, oltre a concertare l’opera seguendo fedelmente le istruzioni di scena scritte da Wagner nel 1868. Nei costumi, si alternano abbigliamento contemporaneo (nelle scene “private”) e rinascimentale (in quelle “pubbliche”, a sottolineare, al tempo stesso, il contesto storico ed il significato atemporale universale del lavoro. Nell’ultima scena , tutti si tolgono i costumi seicenteschi per restare in quelli contemporanei – i valori universali prevalgono sul contesto storico. L’impianto scenico è una struttura unica, molto semplice, in beve una pedana che con poca attrezzeria, di volta in volta, diventa la Cattedrale di Santa Caterina, le strade di Norimberga, lo studio di Sachs, la radura dove si svolge la gara. Curatissima l’azione scenica anche in quanto rodata.
Vigorosa ed animata l’esecuzione di Kuhn: accenta la polifonia e dilata gli abbandoni degli archi nelle scene d’amore ed in quella della “rinunzia”. Oskar Hillebrandt è un Sachs espressivo, Franz Hawkata un Pogner possente, Martin Kronthaler, un Beckmesser dal fraseggio scolpito e variegato, Arpiné Rahdjan una Eva ma piena di dolcezza e di astuzia. Walter ha la vocalità lucente possente ed appassionata ed il fisico giovane di Michael Baba. Perfettamente nel ruolo Andreas Schager (un David dal timbro lucente) e Hermine Haselböck (Magdalene) e gli altri, troppo numerosi per citarli. I bambini del villaggio interpretano il corteo delle corporazioni- un modo originale per fare sentire che l’opera è di tutti.

I BERLINER E IL NAZISMO

Per alcuni decenni, il coro finale a tempo di marcia de “Die Meistersinger” è stato considerato come un inno nazionalista, precursore del nazismo. In effetti, i nazisti lo adattarono tra le loro icone, nonostante il messaggio centrale sia come la “sacra arte tedesca” avrebbe resistito a qualsiasi attacco – “l’arte” , si badi bene, non la Nazione o l’Impero. Lo aveva ben compreso Adorno che – come si è visto- considerava l’opera come migliore espressione della civiltà occidentale e non può certo essere tacciato di simpatie con il Nazismo. Ascoltare e vedere “Die Meistersinger” in quel lembo del Tirolo che entra in Baviera non può non riproporre il tema dell’analisi storica dei rapporti tra musicisti tedeschi e nazional-socialismo. Sull’evoluzione del Tempio wagneriano di Bayreuth si è scritto moltissimo. Molto meno si sa sul nesso tra la maggiore formazione sinfonica tedesca – i Berliner Philarmoniker – ed il potere. La lacuna viene colmata da un saggio di Mishar Aster (“L’Orchestra del Reich – I Beliner Philarmoniker ed il Nazional-Socialismo”, Zecchini Editore 2011) che arriva in questi giorni in libreria (e nei negozi di musica) in traduzione italiana.. E’ una ricerca storica in gran misura su documenti mai esplorati od inediti, le cui 340 pagine si leggono tutte d’un fiato come un romanzo. Con più precisione un romanzo con due protagonisti. Da un lato Joseph Goebble che intuì come l’orchestra, sull’orlo della bancarotta finanziaria, potesse essere un formidabile strumento di diffusione del “meglio della Germania” in Patria ed all’esterno. Da un altro, Wilhelm Furtwängler , sino al 1934 direttore dell’orchestra e in seguito principale figura di riferimento, la cui ambiguità riflette la ricchezza di sfumature del rapporto tra arte e politica. Non solamente in Germania e non unicamente in quegli anni. Un libro da non perdere per meglio assaporare il complesso gioco tra intellettuali ( anche della meno materiale e più alta delle arti come la musica) e potere.

I "Maestri Cantori di Norimberga" di Wagner al Festival del Tirolo di Gustav Kuhn in Il Sussidiario 19 luglio

Musica e concerti
OPERA/ I "Maestri Cantori di Norimberga" di Wagner al Festival del Tirolo di Gustav Kuhn
Giuseppe Pennisi
martedì 19 luglio 2011
L'opera di Wagner al Festival del Tirolo
Approfondisci
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PUCCINI/ L'orchestrazione in primo piano ne "La bohème" diretta da James Conlon
Balzac era ateo: scrisse, però, che il Meursault (il Re dei vini bianchi di Borgogna) va bevuto in ginocchio come prova che Dio c’è. Analogamente, Theodor Adorno, guida della “scuola di Francoforte”, poco aveva a che spartire con il nazionalismo tedesco. Ha scritto, tuttavia che “Die Meistersinger von Nurnberg” (“I Maestri Cantori di Norimberga”) di Richard Wagner è la più alta, più completa e più piena espressione del genio dell’Occidente. Il vostro “chroniqueur” condivide l’affermazione di Adorno; inoltre, “Die Meistersinger” è (con le mozartiane “Nozze di Figaro” e poche altre) una di quelle opere al termine delle cui esecuzione (se di livello) vorrebbe veder ri-iniziare, dopo mezz’ora di pausa per badare alle esigenze primarie del sopravvivere.

Pur se la partitura di “Die Meistersinger” (escludendo gli intervalli) dura dalle 4 ore e 25 alle 4 ore e 50 minuti (a seconda del piglio dei concertatori). Per ascoltarla si è recato sino al Festival del Tirolo, in quel di Erl (un villaggio di 1450 abitanti) dove, trasformando in teatro d’opera e sala da concerto una struttura creata per rappresentarvi (ogni sette anni) la Sacra Rappresentazione della Passione, quel diavolo di Gustav Kuhn ha creato una della manifestazioni più interessanti dell’estate.

Quando nel lontano 1978 conobbi Kuhn (allora trentenne) a Bologna, dove concertava un ottimo “Parsifal”, veniva considerato l’erede di von Karajan. Da buon salisburghese, non si è mai assoggettato al rigore prussiano. La sua carriera è stata in gran misura italiana dove è stato direttore artistico a Roma, Napoli e alla Sferisterio, ha diretto nei maggiori teatri, ha creato l’orchestra Haydn di Trento e Bolzano e l’Accademia di Montegral e vive in Garfagnana in un Convento dei Padri Passionisti affittato a vita. Tra le sua creazioni anche il Festival del Tirolo che quest’anno si estende dal 7 al 31 luglio e presenta, oltre a concerti sinfonici e cameristici, “I Maestri Cantori” (su cui mi soffermo), “Thannauser” e “Parsifal” “I Maesti Cantori” è capolavoro sommo - l’opera-da-salvare se dopo un cataclisma se ne potesse conservare una sola.

Necessario fare almeno un cenno alle ragioni che portarono al commento di Adorno. Pur se storicizzata nella società tedesca alla fine del XVI secolo, “Die Meistersinger” è una grande commedia umana con valenza a-storica, ma profondamente occidentale: esalta la tolleranza, l’amore in tutte le sue guise, la lealtà intergenerazionale, la sacralità dell’arte e del pensiero e la continuità dei valori in un periodo di cambiamento. C’è anche un forte senso religioso, da “do” iniziale dell’ouverture (quasi il rintocco di una campana) ai riferimenti alla Provvidenza da parte del protagonista (il poeta-ciabattino Hans Sachs).

Nelle circa 6 ore di spettacolo (intervalli compresi), si ride e ci si commuove (se si comprende il tedesco o si ha l’ausilio dei sovrattitolio) e si è trascinati da un flusso continuo diatonico, dove domina il contrappunto e ha un ruolo determinante la polifonia. La sua messa in scena presenta enormi difficoltà per la regia, per l’orchestra, per le voci. In Italia, si conta una novantina di edizioni dalla metà dell’Ottocento ad oggi, ma da un quarto di secolo viene eseguita saltuariamente. E’ ancor più raro che venga eseguita bene.

Il vostro “chroniqueur” ricorda edizioni eccellenti a Firenze nel 1986 e a Trieste nel 1992, buone a Milano nel 1990, a Spoleto nel 1992 e a Torino nel 1997, nonché di nuovo a Firenze nel 2004. Ma anche alcune del tutto inadeguate a Roma e a Genova (nonché un paio addirittura rimosse dalla memoria). Ne ho visto ed ascoltato ottime a Berlino, Francoforte, New York e Tolosa. L’edizione al Festival del Tirolo ha debuttato tre anni fa ed è stata da allora affinata.



Kuhn firma scene, costumi e luci, oltre a concertare l’opera seguendo fedelmente le istruzioni di scena scritte da Wagner nel 1868. Nei costumi, si alternano abbigliamento contemporaneo (nelle scene “private”) e rinascimentale (in quelle “pubbliche”- un modo un po’ didascalico per sottolineare, al tempo stesso, il contesto storico e il significato atemporale universale del lavoro. Nell’ultima scena, tutti si tolgono i costumi seicenteschi per restare in quelli contemporanei – i valori universali prevalgono sul contesto storico. L’impianto scenico è una pedana che con poca attrezzeria, di volta in volta, diventa la Cattedrale di Santa Caterina, le strade di Norimberga, lo studio di Sachs, la radura dove si svolge la gara. Curata l’azione scenica anche in quanto rodata
.

Vigorosa e animata l’esecuzione di Kuhn: accenta la polifonia e dilata gli abbandoni degli archi nelle scene d’amore ed in quella della “rinunzia”. Oskar Hillebrandt è un Sachs espressivo, Franz Hawkata un Pogner possente, Martin Kronthaler, un Beckmesser dal fraseggio scolpito e variegato, Arpiné Rahdjan una Eva ma piena di dolcezza e di astuzia. Walter ha la vocalità lucente possente e appassionata e il fisico giovane di Michael Baba. Perfettamente nel ruolo Andreas Schager (un David dal timbro lucente) e Hermine Haselböck (Magdalene) e gli altri, troppo numerosi per citarli
.

I bambini del villaggio interpretano il corteo delle corporazioni - un modo originale per far sentire che l’opera è di tutti. Si è entrati a teatro alle 16,45. Alle 22,15 è scattata una vera e propria ovazione da stadio che ha rotto il silenzio delle valli tra Tirolo e Baviera. Dopo due giorni di pioggia quasi interrotta, uscendo, la sera del 15 luglio, c’era la luna piena attorniata da stelle – quasi che anche il cielo volesse fare omaggio a questo sommo capolavoro della cultura e società dell’Occidente. Adorno aveva ragione. Quanto meno a proposito di “Die Meistersinger”.

TORNARE A CRESCERE, UNICO ANTIDOTO ALL’INCERTEZZA Avvenire 19 luglio

TORNARE A CRESCERE, UNICO ANTIDOTO ALL’INCERTEZZA
Giuseppe Pennisi
Nonostante l’approvazione a tempo di record della manovra di finanza pubblica, i mercati finanziari e le Borse sono in agitazione. Cosa non li convince? Non tanto gli aspetti di equità distributiva – anche se oltre trent’anni di programmi di riassetto strutturale supportati da Banca mondiale e Fondo monetario insegnano che senza una forte dose di coesione sociale viene a mancare lo slancio collettivo per risanare la finanza e rimettere al passo l’economia. Di tali aspetti, i mercati, di norma, si accorgono con un divario temporale di alcuni mesi.
Nel breve termine, le piazze finanziarie sono inquiete perché le misure approvate non danno priorità allo sviluppo: se la crescita resta rasoterra, non aumenta il Pil e le misure di riduzione della spesa e di nuove entrate incidono poco sugli indicatori (quali i rapporti tra indebitamento e stock di debito, da un lato, e produzione di beni e servizi, dall’altro) a cui più guardano i mercati.
Nei giorni precedenti il varo della manovra, lo ha detto ad Avvenire il Consigliere Delegato del gruppo Intesa Sanpaolo, Corrado Passera. Il giorno successivo alla pubblicazione della normativa sulla Gazzetta Ufficiale, lo ha ribadito al Corriere della Sera (pur precisando di parlare a titolo personale) il rappresentante dell’Italia (ed di un’altra mezza dozzina di Paesi) nel CdA del Fondo monetario, Arrigo Sadun. In un saggio, sulla “political economy of fiscal consolidation” , diramato ieri 18 luglio, lo ha sottolineato Robert Price dell’Ocse.
C’è, quindi, accordo generalizzato sulla necessità di riprendere a crescere. Senza darsi obiettivi da “miracolo economico” o da Paesi caratterizzati da ed industrie giovani (il 3%-4% l’anno vagheggiato quando si parlò della “frustata” al cavallo addormentato dell’economia italiana. Per mostrare che si è cambiata marcia, occorre portare il tasso di crescita al 2%-2,5% l’anno; si smentirebbero i servizi studi della Commissione Europea e della Banca centrale europea che hanno stimato il tasso “potenziale” di aumento del Pil dell’Italia sull’1,3-1,7% l’anno (rispetto ad uno effettivo sull’1% l’anno).
Per farlo, ci sono essenzialmente due strumenti: liberalizzazioni e privatizzazioni. Le liberalizzazioni riguardano non solo gli ordini professionali (su cui si è incentrato il dibattito nei giorni scorsi) ma soprattutto i servizi pubblici. E’ materia in gran misura di competenza di Regioni, Province e Comuni. L’elenco di imprese e beni da privatizzare è ancora lungo (ed in buona parte anche esso sotto il controllo di enti locali). Dato che non c’è stato tempo e modo per un’efficace interazione tra centro e periferia prima del varo della manovra, occorre farlo con urgenza adesso. Il Governo ed il Parlamento possono incoraggiarlo, senza interferire con la strada verso il federalismo, con una “sunset regulation” (“normativa del tramonto”) in base alla quale qualsiasi norma statale o regionale “tramonta” (ossia decade) se non ri-approvata. Misure di questa natura hanno accelerato liberalizzazioni e privatizzazioni in molti Paesi in transizione dal piano al mercato.
Tanto nelle prime quanto nelle seconde – lo ha ricordato anche il Cnel nelle sue osservazioni – occorre tenere conto del potenziale di capitale umano e sociale in quello che è chiamato “il terzo settore”; in un quadro di effettiva sussidiarietà parte dei compiti oggi svolti da s.p.a. in house di amministrazioni pubbliche centrali e locali (o da aziende da esse controllate) possono essere devoluti (come avviene in Germania, Francia ed altri Paesi) a forme di collaborazione pubblico-privato tipiche del “terzo settore”.

PRIVATIZZARE PER CRESCERE Il Velino 19 luglio

PRIVATIZZARE PER CRESCERE
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Stampa l'articolo Roma - Ai mercati non è piaciuta la manovra di finanza pubblica specialmente perché i suoi contenuti in materia di crescita sono deboli. È l’occasione per riprendere in mano l’ultimo libro di Franco Reviglio Good-bye Keynes? Le riforme per tornare a crescere - Meno debito, Più Lavoro pp.144 Milano, Guerini e Assiociati 2010 che un anno fa ha avuto meno attenzione di quella che avrebbe meritato. Reviglio è stato uomo di governo e alla guida di complessi industriali internazionali e di servizi pubblici locali. È, quindi, “uno che se ne intende”. Nel suo ultimo libro ricorda alcune cifre che dovrebbero causare imbarazzo. Nel periodo 1990-2006, nell’Unione Europea (UE) sono state effettuate 1.111 operazioni di privatizzazione, con un provento di circa 600 miliardi di euro. Nello stesso arco di tempo, in Italia, si sono avute 139 operazioni (12,5 per cento del totale) con ricavi pari a 137,9 miliardi di euro (un quarto del totale Ue). Ma - si badi bene - partivamo da un’economia con un intervento pubblico più massiccio che in altri Paesi europei. Inoltre, la “curva delle privatizzazioni”, per così dire, mostra un andamento ascendente, specialmente dopo il 1996 (il primo lustro, lo ho illustrato in altra sede è stato essenzialmente di preparazione) con un brusco arresto nel 2006.

Il quadro di altri Paesi - si dirà - è meno incoraggiante: negli Stati Uniti, in Francia, in Gran Bretagna, in Spagna, in Portogallo e in Irlanda (per non citare che alcuni tra i casi salienti)- le operazioni di salvataggio allo scoppio della crisi iniziata nel luglio 2007 hanno causato ondate non di nazionalizzazioni anche in Paesi (principalmente gli Usa) di solito restii alle braccia tentacolari dell’intervento pubblico. In Italia, lo abbiamo evitato. Possiamo riprendere la massima di Tevye, il contadino dalle tasche sempre vuote della fortunata commedia musicale Fiddler on the Roof (Un violinista sul tetto): non dobbiamo vergognarcene ma neanche gloriarcene. In effetti, le privatizzazioni sono, con le liberalizzazioni, tra le poche strade possibili per riprendere a crescere - dopo tre lustri di andamento economico rasoterra - in un’economia come la nostra schiacciata da un forte peso del debito pubblico. Non per nulla i 20 maggiori centri di analisi econometrica prevedono per il 2011 un aumento del pil inferiore a quello (non certo esaltante) segnato nel 2010. Sul futuro a medio termine si staglia lo spettro del ritorno di un tasso di disoccupazione a due cifre e di sempre maggiori tensioni in materia di coesione sociale.

Nell’ultimo anno, la posta principale (in tema di privatizzazioni) è stato il tentativo (mancato) di trovare un’acquirente per la Tirrenia. Grazie all’applicazione di norme europee - il cosiddetto “Decreto Ronchi” - erano state poste, però, le basi per ridurre la partecipazione pubblica nel “capitalismo municipale” (i servizi pubblici locali spesso raggruppati in consistenti conglomerati che, tuttavia, gli enti decentrati vogliono ben tenere sotto il loro controllo); sono state però in gran misura azzerate per referendum. Ci sono stati tentativi, con limitato successo, di dismissione del patrimonio immobiliare. Poco o nulla si è fatto per incidere nei campi dove più si potrebbe e dovrebbe fare: Rai, Poste, Enel, Eni, Finmeccanica, Ferrovie dello Stato.

Non mancano certo le ricette tecnico-economiche per denazionalizzare questi “giganti” in toto o in una parte maggiore di quanto non si è già fatto. Questi, e altri, “campioni nazionali” sollevano complessi problemi, specialmente se i potenziali acquirenti sono fondi sovrani esteri che non sempre operano con logiche puramente economiche. Ciò nonostante, la loro privatizzazione deve essere ai primi posti dell’agenda di politica economica.(Giuseppe Pennisi) 19 Luglio 2011 12:36

lunedì 18 luglio 2011

STRATEGIE GESTIONALI PER LA VALORIZZAZIONE DELLE RISORSE CULTURALI (CON STEFANIA CHIRICO) TERRITORI DI CULTURA LUGLIO

Strategie gestionali per la
valorizzazione delle risorse culturali:
Stefania Chirico* , Giuseppe Pennisi** il caso di Ravenna
* Dottoranda di Ricerca in
“Progetto e tecnologie per la
valorizzazione dei beni culturali”
presso il Politecnico di Milano,
Dip. BEST. Collaboratrice alla
didattica per il corso di
“Economia e Istituzioni del
Turismo” presso la Libera
Università di Lingue e
Comunicazione IULM di Milano.
** Consigliere del Cnel e del
Consiglio Superiore dei Beni
Culturali ed Ambientali. Docente
all’Università Europea di Roma.
L’articolo deriva dal lavoro
congiunto di Stefania Chirico,
che ha analizzato il territorio e le
risorse culturali di Ravenna, i
soggetti pubblici e privati
operanti e il Sistema Museale
(paragrafo 1) e di Giuseppe
Pennisi che ha esaminato il
Ravenna Festival e l’apporto
dello stesso (paragrafo 2).
1 Cfr. Schéma de Développement de
l’Espace Communautaire (Sdec) (European
Commission, 1997).
2 Su proposta del Comitato tecnicoscientifico
di Economia della Cultura,
nel 2008, l’Ufficio Studi del Ministero
per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC)
ha commissionato l’analisi della città di
Ravenna e delle risorse culturali. Per ragione
di vincoli di tempo e di bilancio, si
è deciso di escludere dallo studio le
aree provinciali. I dati sono stati successivamente
aggiornati al 2011. Si ringrazia
il MiBAC per il supporto fornito
nel 2008 alla ricerca e l’autorizzazione
che le sue analisi vengano utilizzate in
questo articolo.
Dal Sud al Nord: Stefania Chirico e Giuseppe Pennisi ci offrono
una completa radiografia del caso di Ravenna “Strategie gestionali
per la valorizzazione delle risorse culturali”.
Completa ed obiettiva è la rassegna delle varie potenzialità, criticità,
necessità, successi e miglioramenti da affrontare per una
città Museo che offre ed ancor di più potrebbe offrire rari tesori
culturali al visitatore.
Il bilancio presentato appare come positivo e basato su solide
e collaudate realtà. Certo, le risorse finanziarie allocate, sia pubbliche
che private, dovrebbero essere più ingenti per il costante
adeguamento e miglioramento delle strutture, la manutenzione
degli spazi, i restauri, la riqualificazione degli Edifici ecc. Ma
gli Enti locali da una parte e taluni Istituti Finanziari ed Associazioni
private dall’altra hanno reso possibile realizzazioni quali
il Ravenna Festival (dal 1989), il Sistema Museale della Provincia
(dal 1997), diventati appuntamenti ed occasioni di grande
richiamo turistico e, soprattutto, culturale.
Certo, non mancano le criticità: dalla logistica e cioè l’esclusione
dalle tradizionali traiettorie di viaggio, alla insufficiente ricettività
alberghiera o ancora al poco soddisfacente rapporto sinergico
tra i vari “soggetti gestori”.
Ma il bilancio della “strategia gestionale delle risorse culturali
di Ravenna” mi sembra presenti più luci che ombre, specialmente
se, come auspicano nelle loro conclusioni gli autori,
si pervenisse a breve a fare di Ravenna un Distretto Culturale
Museale a livello Regionale, suscettibile di generare economie
di scala ed utili raccordi con altri forti attrattori culturali,
come Venezia.
Francesco Caruso
39
siani, 2004. Il territorio di Ravenna è stato scelto, a ragione della
ricchezza dei suoi beni ed attività culturali2).
1 Le risorse culturali della città di Ravenna e il ruolo dei soggetti
pubblici e privati
1.1 L’offerta culturale e il ruolo del settore pubblico
Ravenna, capitale per ben tre volte rispettivamente dell’Impero
Romano d’Occidente (402-476), del Regno Gotico (493-553) e
dell’Impero di Bisanzio in Europa (568-751), è conosciuta per il
ricco patrimonio di mosaici del V e del VI secolo, conservati
nelle Basiliche e nei Battisteri della città, e perché ospita ben
otto monumenti, di cui cinque di appartenenza ecclesiastica,
inseriti nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO3. Inoltre,
a Ravenna si contano ben undici musei civici, otto biblioteche,
sei aree archeologiche e tre teatri.
A Ravenna varie sono le tipologie di soggiorno per eventi specifici
e nel corso dell’anno: si può fruire dei monumenti storico-
artistici e si può visitare la città attraverso vari itinerari di
tipo culturale, naturalistico4, spirituale5 e sportivo.
Allo sviluppo complessivo del territorio hanno contribuito gli
accordi di gemellaggio stipulati a partire dal 1996 con le città
di Chichester, di Chartres, di Speyer e quelli di collaborazione
con Meknes, Samarcanda, Laguna, Sultanato dell’Oman,
Evora, Cracovia, Caceres, Petrozavosdk, Zalau, Kaunas,
Gniezno, Istambul, Stato del Gujarat - India6.
Notevole il contributo anche del polo universitario ravennate,
che conta cinque facoltà e circa 3500 iscritti.
La vastità e la varietà dell’offerta culturale richiedono una pianificazione
strategica e integrata di tutte le risorse per massimizzare
benefici dalla utilizzazione di scarse risorse. Dai dati si
evince un aumento costante dal 2000 al 2009 dei flussi finanziari
destinati al settore culturale: Regione, Provincia e Comune
impiegano consistenti risorse per migliorare l’offerta
culturale7. In materia di attività culturali non museali, la Provincia
e il Comune operano soprattutto nei settori teatrali e cinematografici
con progetti8 volti allo sviluppo culturale e al
miglioramento delle strutture, curando la manutenzione degli
spazi, i restauri e la riqualificazione degli edifici.
Giulio Cesare, I Atto Giulio Cesare, II Atto
Giulio Cesare, III Atto
3 Basilica di Sant’Apollinare in Classe,
Basilica di San Vitale, Battistero degli
Ariani, Battistero di Neoniano, Battistero
di Sant’Apollinare Nuovo, Cappella
Arcivescovile, Mausoleo di
Teodorico, Mausoleo di Galla Placidia.
4www.turismo.ravenna.it/contenuti/in
dex.php?t=itinerari&cat=4.
5www.turismo.ravenna.it/contenuti/in
dex.php?t=itinerari&cat=5.
6 Tali relazioni con l’estero si sono concretizzate
attraverso l’istituzione dell’Ufficio
Politiche Europee del Comune
di Ravenna, istituito nel 2001. Cfr.
www.comune.ra.it/La-Citta/Rapportiinternazionali/
Politiche-europee.
7 Ad esempio di ciò si citano La Loggetta
Lombardesca del Museo d’Arte
della Città, il Museo Ornitologico e il
Planetario.
8 Cfr. i progetti “Teatro Scuola”, “CinemA
scuola” e “Mosaico d’Europa
Film Fest.
Territori della Cultura
Allestimenti, attrezzature, Valorizzazione
Piano Museale hardware (investimenti) (spesa corrente)
Fondi Provinciali Fondi Regionali Fondi Provinciali
2000 71.271 euro 105.873 euro 34.705 euro
2001 68.172 euro 118.785 euro 56.293 euro
2002 103.209 euro 129.144 euro 49.013 euro
2003 51.646 euro 128.430 euro 34.913 euro
2004 220.000 euro 132.000 euro 49.262 euro
2005 120.000 euro 135.000 euro 77.960 euro
2006 120.000 euro 79.000 euro 58.058 euro
2007 120.000 euro 135.000 euro 53.500 euro
2008 120.000 euro 138.000 euro 55.000 euro
2009 120.000 176.250 euro 43.100 euro
Quadro riassuntivo degli stanziamenti provinciali (investimenti e corrente)
e regionali in ambito museale (2000-2009), Provincia di Ravenna 2009.
1.2 Il ruolo dei privati
Ai soggetti pubblici si affiancano i privati e prima tra tutti la
Fondazione Ravenna Manifestazioni che, costituita nel 1989,
si impegna a promuovere la cultura teatrale e musicale, soprattutto
attraverso l’organizzazione annuale del Festival.
Alla struttura della Fondazione hanno aderito le associazioni di
categoria, offrendo il loro contributo sul profilo economico e
gestionale della produzione teatrale (Ricci, 2004).
La Fondazione Ravenna Manifestazioni conta una media annuale
di entrate pari a 4,2 milioni di euro. Alla formazione di
tale ammontare, contribuiscono le istituzioni pubbliche per il
34,82%9, i soggetti privati10, il botteghino con 16,49% circa ed
altri ricavi per il 10,56% circa e per il 65,18%. I ricavi derivanti
dal settore privato, costituiti in buona parte anche dal botteghino
(69,87% circa dalla vendita dei biglietti e 30,13% circa
dagli abbonamenti), sono pari a 2/3 del totale e, confrontati
con quelli derivanti dai soggetti pubblici (circa 1/3) durante il
Festival, costituiscono annualmente una quota che conferma
il grado di partecipazione dei fruitori e soprattutto il successo
dell’evento, diventato - come si vedrà in seguito - una delle
massime manifestazioni a livello nazionale ed europeo.
In materia di valorizzazione del patrimonio archeologico, artistico
e architettonico11, la Fondazione RavennAntica12 opera
nella promozione di campagne di scavo nella città di Classe,
di progetti di allestimento museale, di interventi di restauro
musivo, di attività di conservazione e di valorizzazione del ter-
40
9 Governo per il 18,90%; Regione Emilia
Romagna per il 7,11%; Comune di
Ravenna per il 7,89% e altre istituzioni
pubbliche per lo 0,91%.
10 Fondazioni, Sponsorizzazione e Associazione
Amici di Ravenna con il
38,13%.
11 Esso è composto dall’antica città di
Classe, dalla Basilica di Sant’Apollinare
in Classe, dalla Domus dei “Tappeti di
Pietra”, dalla Chiesa di Sant’Eufemia e
dalla Chiesa di San Nicolò.
12 I soci fondatori sono il Comune di
Ravenna, l’Amministrazione Provinciale
di Ravenna, l’Università degli
Studi di Bologna, l’Archidiocesi di Ravenna
e Cervia, la Fondazione Cassa di
Risparmio di Ravenna e la Fondazione
del Monte di Bologna e Ravenna.
13 Cfr. progetto “Ravenna” che riguarda
il Parco Archeologico di Classe
e la riqualificazione di Piazza Kennedy.
14 Nel 2008 la Fondazione ha contribuito
per: Ravenna Festival; la promozione alla
lettura e valorizzazione del patrimonio bibliografico
e archivistico della Fondazione
Casa di Oriani; la mostra documentaria
e la pubblicazione sul restauro di “Madonna
con il Bambino in trono, una
Santa Martire e San Sebastiano” di Nicolò
Rondinelli; la pubblicazione di materiale
promozionale per “Critica in Arte;
il sostegno alla catalogazione e alla valorizzazione
di tutte le decorazioni musive
del Mediterraneo, da Ravenna ad Istanbul;
la tutela e la valorizzazione di raccolte
dell’Ottocento per la Biblioteca Clas-
Ravenna, Cappella Arcivescovile
41
ritorio per i residenti e per i turisti. La realizzazione di tali progetti
è ottenuta anche grazie alla collaborazione con l’Associazione
Amici di RavennAntica che, istituita nel 2004, offre
donazioni e forme di sponsorizzazione. La Fondazione cura
anche i rapporti con le scuole e con le Università, suggerendo
proposte didattiche e favorendo la sensibilizzazione e l’educazione
alla cultura del patrimonio ravennate e la pubblicazione
di quaderni didattici per studenti per migliorare la qualità di
fruizione del patrimonio artistico e culturale.
Altro soggetto privato di rilievo è la Fondazione e Biblioteca
Casa di Oriani, istituita nel 1927 dallo Stato in memoria di Alfredo
Oriani con lo scopo di gestire la casa-museo “Il Cardello”
di proprietà dello scrittore a Casola Valsenio e di promuovere
una biblioteca di storia contemporanea. Essa si rivolge per lo
più a un pubblico adulto e a studenti universitari e “fa parlare”
il territorio ravennate organizzando convegni, incontri, lezioni
di storia contemporanea, politica e sociale e presentando
opere di illustri personaggi ravennati.
A queste si aggiungono due fondazioni bancarie, la Fondazione
del Monte di Bologna e di Ravenna e la Fondazione
Cassa di Risparmio. La Fondazione del Monte di Bologna e di
Ravenna si occupa del settore culturale e sociale, della ricerca
scientifica e dello sviluppo delle comunità locali. Il contributo
della Fondazione alla città di Ravenna è volto alla strutturazione
di progetti pluriennali per la riqualificazione urbana13 e
per l’integrazione scolastica dei giovani immigrati. Per questi
ultimi la Fondazione stanzia annualmente 1.000.000 euro e
prevede la collaborazione di partner istituzionali14.
Anche la Fondazione Cassa di Risparmio collabora da tempo
per la valorizzazione e la promozione del territorio: nel 2008 la
città di Ravenna ha ricevuto circa il 73,1% dei contributi desense;
il proseguimento di attività di
scavo e la realizzazione dell’evento espositivo
“Otium” a S. Nicolò per il Parco Archeologico
di Classe RavennAntica; la
pubblicazione del magazine “Benvenuti
a Ravenna”; la ricerca “Donne nella Cooperazione
ravennate; “Da presenza silenziosa
a ruolo dirigente” gestita dal
Circolo Cooperatori Ravennati; la ricerca
storica sull’ARCI di Ravenna e l’avvio
della costituzione di un centro di documentazione
sulle Case del Popolo, per
l’Associazione ARCI di Ravenna; la seconda
edizione del Festival delle Culture
del Mediterraneo per l’Associazione Meditaeuropa;
la rassegna estiva di eventi e
spettacoli “Ravenna Bella di Sera”, per il
Comune di Ravenna.
15 Nell’anno 2008 la Fondazione Cassa di
Risparmio ha finanziato circa il 47,7%
dei progetti, per una somma pari a euro
5.912.521, su un totale di 8.089.767
euro. I beneficiari dei contributi della
Fondazione sono state soprattutto le
Fondazioni (37,8%), seguite poi dagli
Enti Pubblici Territoriali (26,3%), dalle Associazioni
(21,9%), dagli Enti religiosi
(5,3%), dai Comitati (3,2%), dalle
Società (3%) da Enti privati (1,3%) e
dalle Cooperative sociali (1,2%). In dettaglio,
sono stati erogati: euro 1.140.000
alla Fondazione Parco Archeologico di
Classe RavennAntica; euro 354.000 per
l’evento “Dante09, Settimana di eventi
culturali dedicati al Sommo Poeta”;
euro 200.000 alla Fondazione Ravenna
Manifestazioni per l’evento “Ravenna
Festival”; euro 20.000 per il progetto “A
Scuola in Teatro”; euro 200.000 all’Istituzione
Museo d’Arte della Città di Ravenna
per l’organizzazione di mostre
d’arte; euro 250.000 all’Istituzione Biblioteca
Classense per l’acquisizione di
materiale librario, multimediale e documentario
e per la realizzazione di eventi
espositivi e culturali organizzati dalla Biblioteca
per promuovere e divulgare le
collezioni; euro 150.000 per il restauro e
recupero del Complesso Monumentale
della Biblioteca Classense; euro 100.000
alla Fondazione Casa di Oriani per iniziative
di ricerca, catalogazione realizzazione
di convegni e incontri volti alla
diffusione di cultura.
Ravenna, Basilica di San Vitale,
spettacolo teatrale
Territori della Cultura
stinati all’intero territorio per le attività progettuali15, mentre
nel 2010 l’Ente ha destinato una cifra complessiva di euro
7.700.000, di cui 4.100.000 per l’arte e per le attività e i beni
culturali. Inoltre, la Fondazione Cassa di Risparmio ha collaborato
con la Fondazione RavennAntica per rendere fruibile il
Museo Archeologico di Classe, offrendo un contributo di
700.000 euro nel 2010 e di 2.100.000 per gli anni 2011 e 2012.
1.3 Il Sistema come strategia di gestione dei musei
del territorio
Una della maggiori criticità della valorizzazione di Ravenna
come città d’arte e di cultura riguarda la logistica: a meno che
il visitatore non sia automunito o non preveda Ravenna nel
proprio programma di visita, la città è esclusa da qualsiasi
traiettoria di viaggio. Per raggiungere la città con i mezzi ferroviari,
è necessario effettuare dei cambi nelle stazioni di Bologna
o di Ferrara. È essenzialmente fuori dall’asse turistico
principale Firenze-Venezia, un asse - si badi bene - che contribuisce
in maniera limitata allo stesso turismo di città d’arte
come Bologna e Ferrara.
Un altro aspetto importante concerne i giovani e l’offerta universitaria:
sarebbe necessario potenziare la formazione e l’offerta
didattica e incentivare rapporti con gli istituti di cultura
italiani all’estero e con gli istituti stranieri a Roma, tramite
stage o prestiti di opere a musei internazionale.
Inoltre, la presenza turistica in città è piuttosto bassa e caratterizzata
per lo più da escursionisti. Questa criticità pare derivi
soprattutto dalla mancanza di posti letto nelle strutture alberghiere
in Ravenna città.
Tuttavia, l’aspetto maggiormente critico riguarda il rapporto
tra i “soggetti gestori” del territorio: il dialogo tra gli enti coinvolti,
soprattutto tra quelli laici e religiosi, è meno attivo di
quanto sarebbe auspicabile per più efficaci e meno dispendiosi
interventi di gestione e di valorizzazione.
La Provincia di Ravenna ha strutturato una strategia di ge-
42
16 Cfr. art. 30 del T.U.E.L. che definisce
il Sistema una rete territoriale istituita
mediante convenzione.
17 Cfr. Gennaro E., Il Sistema Museale
della Provincia di Ravenna. Strategie e
soluzioni gestionali per difendere la qualità
dei musei (nonostante tutto), Appunti
del Corso di Perfezionamento in
Economia e Management dei Musei e
dei Beni Culturali, Università di Ferrara,
18 febbraio 2011. La Provincia di Ravenna
possiede circa 50 musei pubblici
o privati e per lo più di piccole dimensioni.
Musei aderenti al Sistema: 11 del
Comune di Ravenna, 6 del Comune di
Cervia e Russi, 10 dell’Unione Bassa
Romagna, 7 di Faenza e Castelbolognese
e 5 dell’Unione di Brisighella, per
un totale complessivo di 39 musei. Tipologia
museale: 16% scienze naturali;
6% scienza e tecnica; 15% storia; 15%
demo-etnologia; 15% archeologia; 6%
casemuseo; 2% industria e artigianato;
23% arte. Proprietà dei musei: Comunale
59%; Privato 36%; Statale 5%.
18 Cfr.: Codice deontologico di ICOM;
Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici
e sugli standard di funzionamento
e sviluppo dei musei (art. 150 D. Lgs
112/98) (Decreto ministeriale 10 maggio
2001); Del. Giunta Regionale Emilia-
Romagna n. 309/2003: “Standard e
obiettivi di qualità per biblioteche, archivi
storici, musei e beni culturali”.
19 Cfr.: “Atto di indirizzo sui criteri tecnico-
scientifici e sugli standard di funzionamento
e sviluppo dei musei (art.
150 D-Lgs 112/98); “La Carta nazionale
delle professioni museali” (2006;
“Profili e qualifiche professionali per i
Musei della Regione Emilia-Romagna”
(2007).
MAR Museo d'arte della città di
Ravenna e Santa Maria in Porto
43
stione che ha permesso di ottenere buoni risultati nell’ambito
museale. Si tratta del Sistema Museale della Provincia di Ravenna16,
creato nel 1997 con lo scopo di strutturare un’offerta
ricca e diffusa dei musei presenti sul territorio17.
Il Sistema è una rete territoriale pluri-ente di tipo“leggero”
che, attraverso il coordinamento e lo sviluppo delle attività
dei musei aderenti alla convenzione, mira alla valorizzazione
museale realizzando strumenti di promozione, erogando contributi
su progetti, favorendo la crescita collettiva dei musei,
supportando in particolare quelli più piccoli.
Nel rispetto degli Standard di Qualità dei Musei18, il Sistema
Museale della Provincia di Ravenna è dotato di un regolamento
in cui sono specificati natura, obiettivi e finalità di ciascun
museo aderente al Sistema, i ruoli principali e le responsabilità
dei soggetti operanti nei musei. Inoltre, il Sistema Museale
della provincia di Ravenna si adopera per garantire qualità nell’ambito
delle professioni museali19, attraverso un laboratorio
didattico per gli operatori e per le scuole e attraverso l’offerta
di formazione e di consulenza in materia di professioni museali
e di assetti organizzativi.
Per quanto riguarda le collezioni, il Sistema sostiene i musei
erogando contributi per gli allestimenti e per le attività di restauro
e di catalogazione. Per la comunicazione e i rapporti
con il pubblico, è stato creato un sito web20 per operatori e visitatori
allo scopo di facilitare il reperimento d’informazioni
ed esplorare i percorsi culturali; sono stati realizzati una collana
monografica dei musei del sistema, alcuni quaderni didattici
e una guida alle attività didattiche per le scuole e
disponibile anche online, una collana di guide a fumetti per gli
adolescenti, un gioco di ruolo sulla guerra e sulla resistenza,
delle audio guide per la fruizione museale. Per il mantenimento
di rapporti costanti e trasparenti con il pubblico, il Sistema
Museale ha definito anche un modello di carta dei
servizi, declinato da ciascun museo nell’osservanza delle proprie
caratteristiche.
Gli investimenti effettuati per i musei dal 2006 al 2010 sono
cresciuti notevolmente, passando da un importo di poco inferiore
ai 200.000 euro ad uno pari quasi a 300.000 euro.
Le spese in valorizzazione dal 2006 al 2010 attestano un costante
impegno economico che quasi raggiunge i 50.000 euro annui.
Rispettando i principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione21,
l’amministrazione è riuscita a strutturare un Sistema
funzionale, specializzazione delle strutture nuovi servizi, coor-
20 www.sistemamusei.ra.it
21 Cfr. art. 118 Cost.; artt. 3 e 4 T.U.E.L.
Ravenna, Basilica di Sant'Agata
Ravenna, Basilica di Santa Maria
Maggiore
Territori della Cultura
dinamento delle attività, capacità progettuale.
Il 70% circa dei Musei del Sistema ha raggiunto
l’accreditamento regionale ed è riconosciuto
“museo di qualità”; il numero dei
visitatori è cresciuto costantemente, raggiungendo
una media annua di circa 250.000-
300.000 visitatori nella totalità dei musei
aderenti e, per quanto riguarda l’apertura al
pubblico, quindici musei su trentanove raggiungono
lo standard regionale22.
Sul totale di trentanove musei, trentatre sono
in gestione diretta o mista, quattro sono gestiti
tramite Fondazione, uno tramite un’istituzione
ad hoc e uno tramite una cooperativa esterna.
I servizi affidati a terzi riguardano soprattutto la
sorveglianza e l’accoglienza, per la quale ventidue musei del Sistema
si avvalgono di soggetti esterni. Dodici musei hanno
esternalizzato i servizi educativi e le visite guidate; nove i servizi
di pulizia; otto la manutenzione degli impianti; sei la biglietteria;
cinque musei la promozione e l’attività editoriale;
quattro i servizi accessori; quattro le attività di conservazione e
di ricerca; due le esecuzioni espositive; altri due la direzione e
cinque tutti i servizi e le funzioni. Difficile stabilire in che misura
queste differenziazioni siano il risultato del caso o di una strategia.
La questione merita di essere esaminata dal Sistema.
Tanto più che il Sistema favorisce la messa in rete dei know
how e quindi induce a condividere le specializzazioni necessarie,
ad accrescere la capacità di attirare nuove entrate, a ridurre
di contro le spese e a garantire l’offerta costante dei
servizi fondamentali, quali la conservazione e la cura delle collezioni
e del patrimonio museale; i servizi educativi e didattici;
la sorveglianza, la custodia e l’accoglienza; le funzioni tecniche
e direttive.
2 Ravenna Festival
2.1 Breve Storia del Festival
Il Ravenna Festival nasce nel 1989 per contribuire a fare riscoprire
la grandezza della città e introdurvi il mondo, sotto forma
di musica, danza, teatro, poesia, cinema. Una elegante pubblicazione
del 2009 riassume i primi venti anni del Festival ed
include un’utile serie di saggi per comprenderne obiettivi, spi-
44
Ravenna, Mausoleo di Teodorico
veduta generale
22 Apertura al pubblico: 47% aperto
meno di 24 ore settimanali; 38%
aperto più di 24 ore settimanali; 10%
aperto solo su richiesta; 5% è chiuso.
45
rito e risultati (Mazzavillani, Muti, 2009) della manifestazione.
Il Festival ha luogo nelle basiliche, nei teatri, nelle chiese sconsacrate,
sotto la cupola imponente del Pala De André, lungo
le strade, nelle piazze, sulle banchine del porto, nei magazzini
di vecchie fabbriche, nei chiostri, nei giardini e sulle spiagge ai
bordi della pineta.
In tempo di Festival, anche le liturgie vere e proprie diventano
spettacolo e nelle chiese della città la consueta messa domenicale
prende la forma dell’antico canto gregoriano oppure dei
grandi capolavori di Palestrina e Monteverdi, o ancora delle liturgie
armena o etiope-ortodossa. Ravenna, da sempre crocevia
di popoli e di culture, ha adottato la musica come proprio
linguaggio per proiettarsi in una dimensione senza confini.
Da qui l’idea delle “Vie dell’amicizia”, gemellaggio nato in
nome della musica intesa come “parola di fratellanza che unisce
i popoli” nel 1997 con Sarajevo e poi con Beirut nel 1998,
Gerusalemme nel 1999, Mosca nel 2000, Erevan e Istanbul nel
2001, New York nel 2002, Il Cairo nel 2003 e Damasco nel 2004,
a Sarajevo nel 2009, a Nairobi nel 2011.
Così i “temi” che hanno ispirato la rassegna sono passati da
indagini all’interno della storiografia musicale (“Cherubini e la
scuola francese”, “Intorno a Rossini”, “Bellini e Wagner”) ad
itinerari di viaggio e cammini di pellegrinaggio (“Cantastorie,
gitani e trovatori...”, “Dalla via dell’ambra alla via della seta...
in compagnia del grande bardo”, “Ravenna visionaria, pellegrina
e straniera”).
La rassegna ha celebrato, di volta in volta, quasi tutti i nomi di
coloro che hanno creato il “moderno” in musica: Poulenc, Mahler,
Richard Strauss, Britten, Debussy, Ravel, Satie, Bartók,
Schönberg, Berg e Webern, gli americani Bernstein, Copland
e il visionario Varèse, poi Busoni, Milhaud, Weill, Messiaen,
Janáchek, Petrassi, e i russi Rachmaninov, Mussorgskij, Stravinskij,
Prokof’ev, Shostakovich, e ancora i ‘post-weberniani’
Nono, Boulez, Donatoni, Maderna, Berio, fino a Sciarrino,
Manzoni, Mansurjan, Górecki, Pärt, Kancheli, Sollima, ma
anche Piazzolla, Morricone, Nyman. Senza, peraltro mai rinunciare
alla tradizione operistica classica, riproposta in versioni
particolari come la trilogia italiana di Mozart e Da Ponte
realizzata da Riccardo Muti insieme ai Wiener Philharmoniker,
o gli atti unici di Mascagni e Leoncavallo riletti dallo stesso
Muti per la regia di Liliana Cavani.
Un Festival da sempre interdisciplinare, dunque, all’insegna
della commistione tra i generi, che ha proposto le voci dei Ravenna, San Giovanni Evangelista
Territori della Cultura
maggiori interpreti della tradizione classica, quali Luciano Pavarotti,
Barbara Frittoli, Juan Pons, Placido Domingo, Renato
Bruson, Barbara Hendricks, José Cura, insieme a quelle di Bob
Dylan, Marianne Faithfull, Lou Reed, Paolo Conte, Renato
Zero, Franco Battiato, Youssou N’Dour.
I palcoscenici della città hanno ospitato nel tempo i grandi
nomi della danza, da Alessandra Ferri ad Emio Greco, da Antonio
Gades a Cristina Hoyos a Julio Bocca e tanti altri, fino ai
prodigiosi “galà” del Bolshoi di Mosca e del teatro di prosa:
Federico Tiezzi e Sandro Lombardi, Marco Martinelli ed Ermanna
Montanari.
2.2 Il finanziamento del Festival
Il Festival è sostenuto, principalmente da enti locali, fondazioni
bancarie ed imprese private che ne coprono oltre due terzi del
bilancio; di conseguenza, il Consiglio d’Amministrazione è
composto principalmente dai loro rappresentanti. Circa l’80%
della spesa è direttamente per fini artistici. Un buon 12% è destinato
alla manutenzione e al miglioramento degli impianti.
La spesa per promozione, marketing e comunicazione non supera
il 4% del totale. Il Festival chiude regolarmente i propri
conti in pareggio e ha la reputazione di essere una delle manifestazioni
musicali meglio gestite in Italia. Il pubblico (circa
60.000 presenze l’anno, a cui aggiungere 5-10.000 ogni anno al
concerto delle “via dell’amicizia”) è in gran misura (70%) italiano
e la partecipazione di residenti in Emilia-Romagna è pari
ad oltre la metà del totale; a differenza di altre manifestazioni
– ad esempio il Rossini Opera Festival di Pesaro – il cui pubblico
è per due terzi non italiano e per circa l’80% non residente
nella Regione, il Ravenna Festival ha un forte
radicamento nel territorio. I suoi programmi e le sue attività
di collaborazioni con altre istituzioni artistiche i nel corso degli
anni (da quella con il Teatro dell’Opera Helikon di Mosca a
quella con il Festival di Pentecoste di Salisburgo) hanno avuto
tra i loro obiettivi principali di offrire a spettatori italiani, e specialmente
della Regione, spettacoli di alto valore culturale, di
cui altrimenti non avrebbero potuto fruire.
Mentre da oltre 40 anni esiste una letteratura economica molto
ricca sulle arti sceniche (Besharov, 2003; Asuag, Lecuerder, 2009;
Palma, Auguado, 2010), la letteratura economica sui festival è
molto limitata23; alcune analisi empiriche, basate su Festival italiani
(Pesaro, Macerata), utilizzano principalmente l’aumento dei
46
Ravenna, Mausoleo
di Galla Placidia
47
flussi turistici da imputarsi all’evento come misura approssimativa
principale e dei benefici e degli effetti. Tale approccio viene
considerato obsoleto; in materia di economia della cultura sta
prendendo gradualmente piede anche in Italia il metodo delle
“valutazioni contingenti” – ossia della valutazione puntuale che
si riesce ad ottenere tramite sondaggi con i fruitori24 . L’applicazione
del metodo delle “valutazioni contingenti” è particolarmente
complessa per Festival multidisciplinari e richiede
notevoli risorse (per l’approntamento dei questionari, la loro
somministrazione e la loro analisi). Le volte che il metodo è stato
applicato (Turriziani, 2003) ha lasciato a desiderare.
Tuttavia, ci sono tre aspetti specifici che possono essere utili
per un esame quantitativo del Festival di Ravenna, un’analisi
che supera gli obiettivi di questo articolo ma che può prendere
spunto da articoli come questo:
in che misura il Festival ha contribuito e contribuisce a ridurre
l’asimmetria informativa e logistica, che, come si è visto nei
paragrafi precedenti, pare avere penalizzato il ruolo di Ravenna
come città d’arte, rispetto a altre meno dotate in termini
di architettura, musei e paesaggio;
in che misura il Festival ha contribuito alla crescita economica
di Ravenna e del suo hinterland;
in che misura il Festival ha contribuito a rafforzare il “capitale
sociale” alla base dello sviluppo economico di qualsiasi territorio
(North, 1994).
A tal riguardo si possono dare alcune risposte preliminari.
In primo luogo, il Festival di Ravenna è nato proprio quando
l’altro maggiore Festival multidisciplinare italiano (il Festival di
Spoleto) stava attraversando una profonda crisi, peraltro non
ancora superata. Ciò ha rappresentato, indubbiamente, una determinante
che, unitamente alla qualità e varietà dell’offerta,
alla durata (circa sei settimane) e alle partnership internazionali,
ha contribuito ad attrarre attenzione sull’evento, anche in
quanto si differenziava marcatamente da altri o monografici
(come i Festival dedicati a Rossini e a Puccini) o dedicati esclusivamente
alla musica lirica (Sferisterio, Verona). Il mix di of-
Ravenna, Rocca di
Brancaleone - esterno
23 Il principale testo di riferimento tradotto
in Italiano Frey,- Pommerehnhe.
Successivamente B. Frey è tornato sul
tema in B. Frey 2000.
24 Per una rassegna: Necula Bucharest,
2008. Per applicazioni italiane, Signorello,
1994; M. Pollicino 2003;
Cioffi, Palombini, G.Pennisi, 2005.
Territori della Cultura
ferta è stato tale da attirare varie fasce di età e la vasta gamma
di preferenze è stato elemento importante per fare conoscere
Ravenna e indurre ad affrontare le stesse difficoltà logistiche
afferenti la localizzazione della città e del suo hinterland.
In secondo luogo, occorre notare che non solo nei periodi storici
in cui Ravenna è stata capitale, ma anche nell’Ottocento le
arti dal vivo sono probabilmente state un motore dello sviluppo
economico della città. Ravenna - vale la pena ricordarlo - ha un
bellissimo teatro, il Teatro Alighieri, nel pieno centro della città.
Non c’è un esame quantitativo del tema. Lo si può tuttavia dedurre
per analogia raffrontando il “caso” Ravenna con quello
di un recente studio condotto in Germania (Flick, Fritsh, Heblich,
2010).
Lo studio analizza la localizzazione di 29 teatri d’opera barocchi
in luoghi che ancora oggi godono di un benessere economico
relativamente elevato. L’analisi affronta quello che
potrebbe essere chiamato “il problema dell’uovo e della gallina”:
la decisione di costruire un teatro è il risultato della crescita
economica oppure il fatto di disporre di un teatro ha
attirato capitale umano, ha teso reti di capitale sociale e ha,
quindi, stimolato lo sviluppo. Seguendo un metodo statistico
innovativo, i tre economisti tedeschi concludono che il teatro
è stato il magnete che ha attratto altre risorse, specialmente
quelle immateriali che hanno innescato un processo di sviluppo
sostenibile. A Ravenna, dopo una lunga fase in cui le
leve per la crescita sono state il settore agro-alimentare e il petrolchimico,
il Festival ha verosimilmente permesso di tornare
ad uno sviluppo di lungo periodo ancorato al capitale umano
e al capitale sociale.
2.3 Alcune considerazioni economiche
A questo punto, si inserisce un’altra riflessione che parte dal
secondo dei lavori di Bruno Frey sui Festival in generale e su
quello di Salisburgo in particolare. Il primo dei due lavori di
Frey analizza le distorsioni economiche (specialmente informative
e posizionali) derivanti dall’elevato livello d’intervento
pubblico. Nel secondo, Frey sottolinea due aspetti di politica
dell’intervento pubblico:
a) l’esigenza che abbia un contenuto di “premialità”, ossia che
il livello d’intervento venga agganciato alla generazione di risorse
proprie (biglietteria, sponsorizzazioni) tale da testimoniare
il gradimento della varietà e della qualità dell’offerta;
b) che la mano pubblica debba interferire il meno possibile.
48
Ravenna, Basilica di San Vitale
25 Considerando il fatto che il concetto
di distretto presuppone l’idea di prodotto,
generalmente industriale, può risultare
difficile accettare questa stretta
corrispondenza tra distretto industriale
e distretto culturale: la chiave di volta è
data dal fatto che lo stesso patrimonio
culturale, i musei, il territorio, sono dei
prodotti, possono articolarsi in filiere e
possono essere organizzati e gestiti
sotto forma di distretti, attraverso la
formazione di imprese integrate nel
territorio e nella comunità locale, con
specifiche conoscenze e competenze.
49
Il Ravenna Festival – come si è visto – ha un finanziamento statale
limitato al 18% del suo budget e un finanziamento pubblico
totale pari a meno di un terzo del totale, è strutturato in
una Fondazione e in un’Associazione a cui partecipano tutti i
principali soggetti pubblici e privati presenti sul territorio; da
un lato ciò promuove giochi ripetuti e cooperativi alla base dal
capitale sociale e, da un altro, ciò minimizza interferenze della
mano pubblica in materie artistico-organizzative-gestionali.
Conclusioni
Ravenna è città molto attiva a livello culturale grazie alla notevole
importanza che rivestono i musei, riuniti attualmente in
sistema e l’evento Ravenna Festival.
Sulla base dei risultati raggiunti con l’attuazione del Sistema
museale e grazie al Festival (elemento trainante per fare conoscere
la città e la sua dotazione di beni culturali), nonché
consapevoli dei vantaggi che il lavoro in “rete” comporta, le
amministrazioni non dovrebbero trascurare l’ipotesi di fare di
Ravenna un distretto culturale museale: il concetto di distretto
culturale deriva dal distretto industriale e di questo conserva
alcuni aspetti come il legame tra “prodotto”25 e territorio, la
qualità dei beni e dei servizi offerti, lo scambio di saperi e di
competenze, la presenza del settore pubblico a sostegno della
produzione culturale e soprattutto il forte “capitale sociale”.
La strutturazione di un distretto comporterebbe ulteriori vantaggi,
poiché agevolerebbe l’organizzazione del lavoro e incentiverebbe
un’elevata specializzazione e flessibilità delle
competenze specifiche che variano in base alla domanda.
Inoltre, nel distretto culturale museale l’attività di comunicazione
è di fondamentale importanza e, considerate le finalità
educative e divulgative dei musei, la strutturazione del distretto
agevolerebbe la diffusione di informazioni e di conoscenza
(Bagdadli, 1997).
A proposito sia del Festival, sia delle altre risorse storico-artistiche,
si crede che una collaborazione e cooperazione provinciale
(per esempio con Faenza, vista l’importanza della
lavorazione della ceramica) e interregionale (per esempio, la
creazione di circuiti con Verona per l’aspetto Festival e con Venezia
per quanto riguarda i legami storico-artistici) possano
essere efficaci per migliorare l’attuale percezione, conoscenza
e fruizione della città, aumentando così investimenti in cultura
e limitandone i costi.
Ravenna, Battistero degli Ariani
Territori della Cultura
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Interviste
Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici per le Province di Bologna,
Ferrara, Forlì/Cesena, Ravenna e Rimini:
Dott. Franco Faranda
Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia Romagna
dott.ssa Laura Carlini, Responsabile Servizio Musei e Beni Culturali
Provincia di Ravenna:
dott.ssa Rosella Cantarelli, Responsabile delle Attività Culturali
dott.ssa Eloisa Gennaro, Responsabile delle Attività Museali
Comune di Ravenna:
dott.ssa Maria Grazia Marini, Dirigente del Servizio Turismo e Attività Culturali
dott.ssa Stefania Canosani, Responsabile dell’Ufficio Informazione ed Accoglienza Turistica
dott.ssa Francesca Masi, Responsabile dell’Ufficio Promozione Culturale
Fondazione Casa di Oriani:
dott. Dante Bolognese, Direttore
Fondazione Ravenna Manifestazioni:
dott. Antonio De Rosa, Sovrintendente della Fondazione
dott. Fabio Ricci, Responsabile Ufficio Stampa
Territori della Cultura
“Il simbolo del cerchio si manifesta nel culto solare dei primitivi
e nelle religioni moderne, nei miti e nei sogni, nei mandala dei
monaci tibetani, nei piani regolatori delle città: indica sempre
l’aspetto essenziale della vita, la sua complessiva globalità.
È il tentativo di riportare l’armonia del macrocosmo, nell’uomo
microcosmo, al fine di trasformare positivamente tutto ciò che
ne venga a contatto, dagli aspetti materiali ai caratteri psico -
spirituali dell’individuo “.
Così l’ecologo Memmi sentenziava riguardo la necessità intrinseca
di ogni essere raziocinante di ritrovare dentro di sé un
simbolo - archetipo, dal quale partire prima di realizzare qualunque
struttura.
Il termine mandala, infatti, è una parola sanscrita che significa:
“centro“, “cerchio“, “ciò che circonda“.
La storia universale dell’uomo è scandita dalle tappe evolutive
che ha raggiunto e che ne hanno modificato il corso degli
eventi nella sfera sociale, culturale ed economica.