TORNARE A CRESCERE, UNICO ANTIDOTO ALL’INCERTEZZA
Giuseppe Pennisi
Nonostante l’approvazione a tempo di record della manovra di finanza pubblica, i mercati finanziari e le Borse sono in agitazione. Cosa non li convince? Non tanto gli aspetti di equità distributiva – anche se oltre trent’anni di programmi di riassetto strutturale supportati da Banca mondiale e Fondo monetario insegnano che senza una forte dose di coesione sociale viene a mancare lo slancio collettivo per risanare la finanza e rimettere al passo l’economia. Di tali aspetti, i mercati, di norma, si accorgono con un divario temporale di alcuni mesi.
Nel breve termine, le piazze finanziarie sono inquiete perché le misure approvate non danno priorità allo sviluppo: se la crescita resta rasoterra, non aumenta il Pil e le misure di riduzione della spesa e di nuove entrate incidono poco sugli indicatori (quali i rapporti tra indebitamento e stock di debito, da un lato, e produzione di beni e servizi, dall’altro) a cui più guardano i mercati.
Nei giorni precedenti il varo della manovra, lo ha detto ad Avvenire il Consigliere Delegato del gruppo Intesa Sanpaolo, Corrado Passera. Il giorno successivo alla pubblicazione della normativa sulla Gazzetta Ufficiale, lo ha ribadito al Corriere della Sera (pur precisando di parlare a titolo personale) il rappresentante dell’Italia (ed di un’altra mezza dozzina di Paesi) nel CdA del Fondo monetario, Arrigo Sadun. In un saggio, sulla “political economy of fiscal consolidation” , diramato ieri 18 luglio, lo ha sottolineato Robert Price dell’Ocse.
C’è, quindi, accordo generalizzato sulla necessità di riprendere a crescere. Senza darsi obiettivi da “miracolo economico” o da Paesi caratterizzati da ed industrie giovani (il 3%-4% l’anno vagheggiato quando si parlò della “frustata” al cavallo addormentato dell’economia italiana. Per mostrare che si è cambiata marcia, occorre portare il tasso di crescita al 2%-2,5% l’anno; si smentirebbero i servizi studi della Commissione Europea e della Banca centrale europea che hanno stimato il tasso “potenziale” di aumento del Pil dell’Italia sull’1,3-1,7% l’anno (rispetto ad uno effettivo sull’1% l’anno).
Per farlo, ci sono essenzialmente due strumenti: liberalizzazioni e privatizzazioni. Le liberalizzazioni riguardano non solo gli ordini professionali (su cui si è incentrato il dibattito nei giorni scorsi) ma soprattutto i servizi pubblici. E’ materia in gran misura di competenza di Regioni, Province e Comuni. L’elenco di imprese e beni da privatizzare è ancora lungo (ed in buona parte anche esso sotto il controllo di enti locali). Dato che non c’è stato tempo e modo per un’efficace interazione tra centro e periferia prima del varo della manovra, occorre farlo con urgenza adesso. Il Governo ed il Parlamento possono incoraggiarlo, senza interferire con la strada verso il federalismo, con una “sunset regulation” (“normativa del tramonto”) in base alla quale qualsiasi norma statale o regionale “tramonta” (ossia decade) se non ri-approvata. Misure di questa natura hanno accelerato liberalizzazioni e privatizzazioni in molti Paesi in transizione dal piano al mercato.
Tanto nelle prime quanto nelle seconde – lo ha ricordato anche il Cnel nelle sue osservazioni – occorre tenere conto del potenziale di capitale umano e sociale in quello che è chiamato “il terzo settore”; in un quadro di effettiva sussidiarietà parte dei compiti oggi svolti da s.p.a. in house di amministrazioni pubbliche centrali e locali (o da aziende da esse controllate) possono essere devoluti (come avviene in Germania, Francia ed altri Paesi) a forme di collaborazione pubblico-privato tipiche del “terzo settore”.
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