giovedì 27 giugno 2013

Le fondazioni liriche in Astrid Rassegna del 29 giugno

1
Le fondazioni liriche
di Giuseppe Pennisi
Background
Quasi contemporaneamente, il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali (Mibac), la Società Italiana degli Autori e degli Editori (Siae) e l’Economist Intelligence Unit (Eiu) hanno pubblicato dati sul teatro in musica dal vivo. Non si tratta di dati omogenei: quelli del Mibac sono racchiusi in una paginetta relativa al 2012 (diffusa nel febbraio di quest’anno) e si riferiscono all’intero comparto dello spettacolo dal vivo da cui enucleare le statistiche sul teatro musicale. La Siae arriva sempre con un po’ di ritardo; quindi, l’ultimo annuario riguarda il 2010 ma sono stati anche pubblicati raffronti tra l’andamento dello spettacolo dal vivo nel primo semestre 2011 e nel primo semestre 2010. Il lavoro Eiu (riassunto sul settimanale The Economist del 4-10 maggio) riguarda un solo comparto del teatro in musica: il musical in alcune delle sue molteplici accezioni. Ne approfondisce più gli aspetti commerciali e gestionali che quelli artistici.
Dai numeri tuttavia si possono trarre spunti per alcune riflessioni. Iniziamo da quelli Mibac. Nonostante il sostegno dato dal Fondo unico per lo spettacolo alla lirica, alla musica ed alla danza (290 milioni di euro su un totale Fus di 360 milioni di euro), il settore sta complessivamente facendo retromarcia (i tagli del Fus hanno probabilmente influito): 3.500 rappresentazioni liriche, 14.000 concerti di musica leggera, 6.800 di danza rispetto a 81.000 di teatro di prosa. Due milioni di spettatori paganti per la lirica, 3.4 milioni per la concertistica, 2 milioni per il balletto rispetto a 14.2 milioni per la prosa. Raffronti con altre forme di spettacolo (ad esempio il cinema) sarebbero impietosi.
I dati Siae confermano tutto sommato questo quadro. Per quanto riguarda i dati 2010, la spesa al botteghino per l’acquisto di biglietti e abbonamenti ha superato i 2,370 miliardi con un aumento del 3,97% rispetto al 2009 grazie ai risultati
ASTRID RASSEGNA - N. 12/2013
2
conseguiti soprattutto dal comparto cinema, mostre e teatro. In flessione invece il volume d’affari (-3,14%). Il cinema è il settore che ha fatto registrare i migliori risultati con segni positivi in tutti gli indicatori, dal numero di spettacoli (+43,26%) e biglietti venduti (+10,39) alla spesa al botteghino (+16,37%), spesa del pubblico (+14,33%) e volume di affari (+16,22%). Nel complesso stabile l’attività teatrale, mentre in ascesa è il settore delle mostre ed esposizioni con un volume d’affari cresciuto del 28,01% rispetto al 2009. Invece, l’attività concertistica che comprende sia la musica popolare che quella classica, a fronte di una maggiore offerta di spettacoli, ha fatto registrare un calo degli altri indicatori (-3,47% negli ingressi, -3,6% nella spesa al botteghino e -4,63% nella spesa del pubblico). Raffrontando il primo semestre del 2011 con lo stesso periodo nel 2010, il comparto delle attività teatrali (prosa e musica) è caratterizzato da forti flessioni: spesa al botteghino (-5,68%); spesa del pubblico (-7,97%); volume d’affari (-6,60%) e ingressi (-1,24%). In aumento solo l’offerta di spettacoli (+1,79%). In questo comparto, l’unico settore che mostra un andamento generalmente positivo è la lirica (spettacoli +4,84%; ingressi +12,68%; spesa al botteghino +11,18%; spesa del pubblico +11,27% e volume d’affari +11,27%). I concerti hanno visto diminuire il loro pubblico (ingressi -6,48%) e questa flessione ha inciso sulla spesa al botteghino (-2,75%), sulla più generale spesa del pubblico (-5,41%) e sul volume d’affari (-0,68%). Anche in questo settore è aumentata solo l’offerta di spettacoli (+17,13%). Senza dubbio, la crisi economica e finanziaria in corso dal 2007 (e che incide sui portafogli delle famiglie) è una determinante importante. Difficile dire da cosa dipenda l’andamento anomalo della lirica; vi hanno probabilmente influito gli appelli (tra cui quello di Riccardo Muti al Teatro dell’Opera di Roma alla presenza del Capo dello Stato) per evitare che, nel comparto, si spegnessero le luci.
La settantina di Conservatori italiani producano ogni anno diplomati costretti a cercare lavoro principalmente all’estero, le orchestre sinfoniche languiscono e la situazione delle Fondazioni liriche (quattro su tredici commissariate, ma pare che
G. PENNISI – LE FONDAZIONI LIRICHE
3
in autunno verrà commissariato anche il Teatro dell’Opera di Roma) sia allo stremo. Nel 2010, ultimo esercizio di bilancio consuntivo per il quale si dispone di dati completi, soltanto quattro delle tredici Fondazioni liriche (teatri come La Scala, il San Carlo, l’Opera di Roma, il Massimo di Palermo) hanno chiuso i loro bilanci consuntivi in attivo. Da anni, però, il bilancio della Scala espone un disavanzo contabile di circa 9 milioni, saldato in autunno da ‘contributi addizionali dei soci’. Leggermente migliore la situazione dei ventotto Teatri di tradizione, finanziati principalmente dagli enti locali — gravano infatti sul Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus) unicamente per il 4 per cento del totale — e per i quali le risorse statali sono meno della metà del finanziamento complessivo. Sono invece imprese private, spesso del territorio, a fornire mediamente il 24 per cento delle risorse totali per il loro funzionamento. A fronte di tale situazione, numerosi Teatri di tradizione hanno formato efficienti circuiti e coproduzioni per abbattere i costi: la loro situazione debitoria è così sotto controllo, pur con qualche eccezione. Le Fondazioni sono caratterizzate da alti costi (una recita costa mediamente il 140 per cento della media dell’UE a 15 ed oltre il 200 per cento di quella della UE a 25) e bassa produttività (60-70 alzate di sipario per opera e balletto ogni anno rispetto a 150 nell’UE a 15, con oltre 200 nei Paesi di cultura e lingua tedesca).
Nonostante alcune recenti inchieste giornalistiche presentino una situazione rosea nel resto d’Europa, la riduzione dei finanziamenti pubblici alle arti dal vivo — conseguenza delle politiche di bilancio per contenere disavanzi e ridurre il debito pubblico — sta incidendo anche su Paesi con profonda e diffusa cultura musicale, come la Germania. A Berlino si discute se porre sotto un’unica gestione i tre maggiori teatri d’opera del Land allo scopo d’effettuare economie; così anche in Francia, dove il finanziamento pubblico ai Teatri d’opera è rimasto tendenzialmente costante tra il 2000 e il 2009, dal 2010 sono in atto ingenti restrizioni. Negli Stati Uniti, il quadro è marcatamente differenziato. A New York, da una parte, il Metropolitan Opera House sta ottenendo nuovo pubblico e nuovo
ASTRID RASSEGNA - N. 12/2013
4
supporto (privato) grazie all’utilizzazione di tecnologie avanzate che consentono dirette in alta definizione in millesettecento cinema in tutto il mondo (sessanta in Italia), dall’altra, la New York City Opera, travolta dai debiti, ha una stagione di pochi titoli in sale secondarie (cinematografi, strutture di istituzioni politiche, ecc.). Ad ogni modo nel 2010 (anno di crisi economica) negli Stati Uniti ci sono state ben dodici prime mondiali: lavori spesso tratti da romanzi o film di successo, quali Il giardino dei Finzi Contini, Il postino o La Ciociara di Marco Tutino, che inaugurerà la prossima stagione della San Francisco Opera. In Asia, prevedibilmente, il mercato è in piena espansione: sono stati completati nuovi teatri a Pechino, Shanghai – dove è stata aperta una nuova Festival Hall con la produzione di Otello del nostro Teatro La Fenice – Hong Kong e Singapore; altri sono in costruzione; il pubblico, qui anche molto giovane, gareggia per riempirli. Nella sola Cina sono in costruzione oltre cento strutture polivalenti per opera e concerti all’occidentale: l’Oriente così potrebbe presto diventare una meta di brain drain dei nostri giovani professionisti formatisi nei Conservatori italiani e nei nostri Teatri di tradizione. Qui, tra l’altro, non fanno difetto i finanziamenti, pubblici o privati.
Questa rapida carrellata ripresenta non solo gli ormai frequenti interrogativi sui problemi delle Fondazioni liriche italiane (caratterizzate da alti costi e bassa produttività) e su come sanarli, ma pone domande (a cui di rado si è data risposta) sul ruolo del teatro in musica nello sviluppo economico di un Paese. La storia economica riconosce che ci sono stati periodi e Paesi — Venezia nel Seicento, la Gran Bretagna nella prima metà del Settecento, Italia e Germania nel secolo successivo — in cui l’opera lirica non era un fardello per le casse dello Stato, ma un comparto remunerativo per chi vi investiva e che, tramite l’imposizione fiscale, questa contribuiva notevolmente alla finanza pubblica. Di norma, però, l’impressione generale è che «la musa bizzarra e altera» (secondo l’acuta definizione del musicologo tedesco Herbert Lindenberger) fosse considerata come un “bene posizionale”, una misura di prestigio e sfarzo offerta dal Governo di
G. PENNISI – LE FONDAZIONI LIRICHE
5
turno nella competizione tra comunità. Ciò spiega, ad esempio, il pullulare di teatri lirici in regioni italiane relativamente piccole (come l’Umbria e le Marche), ma con città economicamente rilevanti e molto competitive.
Nella letteratura convenzionale, il teatro d’opera è stato l’uovo che nasceva da galline prospere, ossia vedeva luce in aree già sviluppate sotto il profilo economico e sociale. Questa tesi viene ribaltata da un interessante studio dei tedeschi Oliver Falck (IFO, il maggior centro di ricerca economica della Repubblica Federale), Michael Fritsch (Università di Jena) e di Stephan Heblich (Max-Planck-Institut) e pubblicato dall’IZA (l’Istituto tedesco di studi sul capitale umano) come Discussion Paper No. 5065. Il lavoro utilizza una complessa strumentazione statistica per studiare i nessi tra musica lirica e sviluppo economico, utilizzando come campione ventinove teatri costruiti in età barocca in differenti località di un’area che va dalla Renania alla Silesia (regione oggi parte della Polonia). La ricerca impiega una vasta gamma di indicatori per comprendere se i teatri sorgessero in aree già in fase di sviluppo prima della decisione di costruirli (l’ipotesi dominante) o se invece, nati in contesti non più avanzati della media dell’area di espressione tedesca, siano stati essi stessi gli artefici di un processo di espansione economica.
I dati disponibili permettono di affermare che Trier, Bautzen, Stralsund, Rostock, Dessau, Passau, Regensburg — per non citare che alcuni dei luoghi dove sono localizzati i teatri del campione — non avevano indici di sviluppo economico e sociale migliori degli alti territori. Anzi, in molti casi, nel periodo precedente la costruzione e la messa in funzione del teatro, questi esponevano indicatori inferiori alla media. L’analisi non si limita a offrire una fotografia di quella che era la situazione nel momento in cui la comunità decise di darsi un teatro con le caratteristiche specifiche per rappresentare opere liriche, ma problematizza, invece, una questione centrale: ovvero se e perché il teatro ha contribuito allo sviluppo economico della zona circostante. Alla prima domanda, i dati forniscono una
ASTRID RASSEGNA - N. 12/2013
6
risposta positiva. Per affrontare la seconda, lo studio fa ricorso a scuole economiche più recenti che hanno evidenziato in gran parte delle ventinove aree un incremento della concentrazione di capitale umano (lavoratori specializzati, musicisti, orchestrali, cantanti) e una maggiore apertura allo spazio circostante (tramite le compagnie di giro impiegate per numerosi spettacoli). In effetti, il capitale umano attira altro capitale umano e avvia e sostiene il processo di sviluppo. Questo chiarisce che la decisione dell’Asia emergente di investire in teatri d’opera è razionale anche dal punto di vista strettamente economico e non solo culturale. Alla luce delle conclusioni dello studio, forse andrebbero riconsiderate le politiche di restrizione al supporto pubblico di teatri d’opera. Soprattutto nei confronti delle realtà efficienti in termini di costi e produttività.
Molto differente il quadro dai dati Eiu. Il teatro musicale di stile anglosassone è vivo e prospero come non mai e si sta espandendo in tutto il mondo. Senza tener conto dei diritti cinematografici e televisivi, al solo botteghino, dal 1986 la rock opera The Phantom of the Opera ha incassato 6 miliardi di dollari, The King Lion (debutto nel 1997) 5 miliardi di dollari, uno spettacolo a basso costo come Cats (1981) 3 miliardi di dollari, un altro low cost del 1999, Mamma Mia!, 2 miliardi di dollari, Miss Saigon, un adattamento di Madama Butterfly (1991) 1,5 miliardi di dollari. E via discorrendo. L’Estremo Oriente sta entrando nel giro: è partito da Seul un revival di Dreamgirls che arriverà in Europa ed in America. Sta per debuttare Shangai, Shangai che dovrebbe essere cantato (arie, concertati, recitativi) in cinese ed andare per il mondo con sottotitoli.
Si può facilmente ironizzare sostenendo che questi titoli hanno poco o nulla a che vedere con la musica colta. Non solamente il teatro in musica di marca anglosassone è spesso il modo più efficiente e più efficace per avvicinare nuovo pubblico alla musa bizzarra ed altera ma negli Stati Uniti ed altri Paesi, nei quali l’opera e la concertistica non ricevono quasi alcun sussidio pubblico, prosperano ed innovano. Numerosi teatri d’opera tedeschi (il cui pubblico è tutt’altro che incolto) hanno nel loro repertorio lavori come A Streetcar Named Desire di André
G. PENNISI – LE FONDAZIONI LIRICHE
7
Previn, A View from the Bridge di William Bolcon, A Postcard from Morocco di Dominik Argento, Dead Man Walking di Jake Heggie, Willie Starl di Carlisle Floyd, Sophie’s Choice di Nicholas Maw. Solo due di questi lavori si sono visti in Italia. In effetti, mentre da noi a parte qualche raro caso e per volontà di poche istituzioni la produzione di nuove opere liriche appassisce, negli Stati Uniti è in pieno sviluppo: nel 2010 (anno di crisi) ci sono state 12 prime mondiali tra cui lavori tratti da romanzi come Il Giardino dei Finzi Contini e Il Postino. Grande attesa già adesso per La Ciociara commissionata a Marco Tutino per l’inaugurazione della nuova stagione della San Francisco Opera (2014-15).
Chi scrive ha vissuto oltre tre lustri a Washington senza mai annoiarsi ad una nuova opera americana (se ne vedevano ed ascoltavano un paio l’anno). Non solo, nei teatri commerciali americani accanto a nuove opere di compositori statunitensi si potevano ascoltare capolavori da noi quasi abbandonati come Il Volo di Notte di Dallapiccola. I deludenti dati Siae e Mibac e l’analisi dell’Eiu ci impongono quanto meno ad aprire un dibattito.
Molte misure da prendere sono microeconomiche e gestionali ma possono essere indirizzate dalla politica. Sarebbe sufficiente un decreto ministeriale che prevedesse accesso al Fus (Fondo unico per lo spettacolo), unicamente se il 70% della programmazione è in co-produzione. In una Italia fatta a Stivale, è più facile spostare gli spettacoli che il pubblico. Il costo di scene e costumi è appena il 5% di un allestimento ma in Italia i cachet degli artisti sono mediamente il doppio di quelli nel resto d’Europa e negli Usa perché vengono scritturati per poche (4-6) rappresentazioni; sarebbero molto più bassi se tramite una politica di coproduzioni venissero scritturati per replicare lo stesso lavoro in vari teatri 25 -30 volte. Inoltre, si dovrebbe prevedere una “premialità”, analoga a quella dei fondi europei: le fondazioni che chiudono i conti in attivo e hanno attuato una buona programmazione (in termini di numeri e qualità di spettacoli, quali valutati dalla critica italiana e straniera) dovrebbero ricevere una dotazione aggiuntiva l’esercizio
ASTRID RASSEGNA - N. 12/2013
8
successivo. Soprattutto occorre promuovere il ricambio del pubblico attirando i giovani, come sta facendo egregiamente l’AsLiCo di Como che, in co-produzione con teatri francesi e tedeschi, porta in una trentina di città un Olandese Volante di Wagner in edizioni per bambini, adolescenti e ragazzi.
Perché ciò funzioni sono essenziali quelli che gli economisti chiamano incentivi a basso ed a alto potenziale. I primi operano nel lungo termine come il migliora-mento dell’istruzione musicale nelle scuole (e in famiglia): la Rai (finanziata con il canone) dovrebbe tornare a svolgere un ruolo in questo campo. I secondi, invece, operano rapidamente. Il regolamento approvato dal governo ne prevede uno molto forte, ma “negativo”; il declassamento (a Teatri “di tradizione”) delle Fondazioni che non chiudono il bilancio almeno in pareggio. Occorre affiancarlo con uno “positivo”: una revisione degli sgravi tributari (attualmente una detrazione del 19%) per le elargizioni liberali per portarle alla media europea (30%) ove non necessariamente al livello della Francia (60%).

Il governo canterà vittoria, ma a Bruxelles sarà disfatta in Formiche 27 giugno



Il governo canterà vittoria, ma a Bruxelles sarà disfatta
27 - 06 - 2013Giuseppe Pennisi Il governo canterà vittoria, ma a Bruxelles sarà disfatta
Se è non è certo, è verosimile o altamente probabile: i “nostri eroi” torneranno da Bruxelles, dove è in corso il Consiglio Europeo (l’organo che riunisce i Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea) cantando vittoria e ringraziando la maggioranza che ha contribuito loro a farla ottenere. Anche se avranno quasi certamente perso.
Il comunicato finale, già steso da tempo e da un paio di settimane in giro non solo tra le Cancellerie ed i parlamentari europei (il documento è timbrato “SEC” ossia “segreto” ma nelle istituzioni europee la trasparenza è totale e la riservatezza nulla), sostiene che finalmente in Europa si vede una luce alla fine del tunnel e ci sono prospettive di ripresa per l’UE a 27; per i “discoli” mediterranei tali prospettive dipendono dai tempi e dai modi con cui faranno le riforme; all’Italia si riserva un sorriso – tra il tenero ed il beffardo – quasi a dire che il solco della buona strada sta per essere tracciato.
Naturalmente, “vittoria” e “sconfitta” dipendono dagli obiettivi che ci era prefissi. Se si voleva una pacca sulle spalle e qualche miliardo di euro (sempre che lo si sappia spendere) per l’occupazione giovanile, si può essere convinti di tornare vincitori, come il Radames dell’Aida. Soprattutto se ai sorrisi del resto dell’UE, se ne aggiunge uno particolarmente affettuoso da Frau Merkel.
Se, invece, – come ha suggerito il 24 giugno alla “lezione Ippolito” Dominick Salvatore (l’economista italiano naturalizzato americano i cui libri sono tra i più tradotti ed i più venduti al mondo)- ci si proponeva di avviare una reale trattativa che rivedesse le norme del Fiscal Compact e dello stesso Trattato di Maastricht al fine di consentire all’Italia (ed ad altri Paesi dell’Eurozona) di porsi su un sentiero di crescita, l’esito del Consiglio Europeo deve essere considerato una sconfitta.
Mettersi sul solco della crescita dopo circa otto di recessione non vuole dire ottenere nel 2014 un aumento del Pil dello 0,5-1%.
Non vuole neanche dire “effettuare un salto” dal sottozero al 3% l’anno per una dozzina di mesi. Significa un tracciato che ci consenta per un lungo lasso di anni di segnare tassi di aumento del Pil tra l’1,5% ed il 2% l’anno , quale consentito da una struttura demografica anziana e da una struttura produttiva matura, e fortemente danneggiata (specialmente nel manifatturiero) dall’evoluzione economica degli ultimi sette anni. Occorre effettuare le riforme (riduzione della pressione fiscale, revisione degli incentivi alle imprese, miglioramento di istruzione e formazione, completamento del riassetto del mercato del lavoro) essenziali per ricostruire la struttura industrial manifatturiera e fare sì che si cresca a tassi sul 2% piuttosto che su meno dell’1%.
Vuole anche dire effettuare una vera “spending review” per distinguere la spesa pubblica produttiva (da potenziare) e spesa pubblica improduttiva (da ridurre gradualmente sino ad elimimare). Significare pure rilanciare l’investimento pubblico al fine di ridurre il costo all’economia (40 miliardi di euro l’anno unicamente nel comparto dei trasporti) dell’inadeguatezza delle infrastrutture.
Questo elenco non è che indicativo. Qualsiasi economista con un po’ di formazione econometrica – ce lo dica Marco Buti che è capo della Direzione Generale Affari Economici e Finanziari dell’Unione Europea, UE- sa che non è possibile mettersi sul solco della crescita, mantenere il disavanzo contabile al di sotto del 3% del Pil e ridurre di ventesimo l’anno quanto ci separa da un rapporto del 60% tra stock di debito e Pil.
Senza qualche risultato di questa natura, il coretto a cappella potrà essere di vittoria. Speriamo che non ci credano e lo facciano unicamente per tenere alto il morale delle truppe.

mercoledì 26 giugno 2013

I "buchi" nell’energia che nessuno vuol vedere in Il Sussidiario 27 giugno



IL CASO/ I "buchi" nell’energia che nessuno vuol vedere

giovedì 27 giugno 2013
Approfondisci

IL CASO/ Saipem, Eni e la "tempesta" peggiore del crollo in Borsa, di A. Lodolini

ALITALIA/ La fusione con Fs per "spiazzare" Air France e Turkish, di G. Gazzoli

NEWS Energia e Ambiente

IL CASO/ I "buchi" nell’energia che nessuno vuol vedere

Per mera coincidenza, il 25 giugno Reinaldo Figueredo, a lungo ministro degli Esteri del Venezuela, per dieci anni ai vertici del Segretariato delle Nazioni Unite (con competenze in materia di energia) e da otto anni residente in Val d’Acri per studiare come le piccola Basilicata (mezzo milione di residenti) sta sfruttando il proprio potenziale di petrolio, era all’Istituto Affari Internazionale per uno dei seminari a porte chiuse del programma Global Outlook. Gran parte delle due ore dell’incontro con dirigenti del settore ed esperti sono stati dedicati alla “fragilità” energetica dell’Italia: nel 1972-73 - ha ricordato Figueredo - l’Italia era tecnologicamente molto più avanzata della Francia, specialmente in materia di energia nucleare per scopi civili. Oggi siamo circondati da centrali nucleari francesi e svizzere, compriamo dai nostri vicini energia nucleare, ma siamo i primi a essere danneggiati nell’eventualità di una riduzione dei rifornimenti dal Nord Africa, dal Medio Oriente e dalla Russia. Neanche in Val d’Acri - secondo Figueredo- nonostante il buon lavoro dell’Eni, riusciamo a organizzarci per trarre maggior vantaggio dalle risorse a nostra disposizione.
Queste frasi mi sono tornate in mente ascoltando la relazione del Presidente dell’Autorità dell’Energia e del Gas, Guido Bortoni, nella Sala della Lupa della Camera dei Deputati la mattina di ieri. L’Autorità - è vero- ha compiti regolatori, ma avrebbe potuto - come ha fatto settimana scorsa il Presidente dell’Antitrust - dare indicazioni. Soprattutto in quanto la Strategia energetica nazionale (di cui abbiamo già parlato) è parsa debole e frettolosa sotto diversi aspetti.
Bortoni ha ricordato che “il calo dell’attività economica, rivelatosi nella perdita di ben sette punti di Pil dal 2008 a oggi, si è riflesso anche nella picchiata (verso il basso) della domanda di energia del Paese, che nel 2012 è tornata ai livelli del 1998 e non dà segni di ripresa”. Ha sottolineato che “nel settore elettrico preoccupa il crescente peso degli oneri di sistema sulle bollette: il continuo rialzo (+10% in 4 anni per la famiglia tipo) sta riducendo gli effetti positivi del mercato”. Ha dato a se stesso e ai suoi colleghi una pacca sulle spalle, auto-congratulandosi per il fatto che “le bollette nel settore del gas sono in calo in seguito alle riforme introdotte dall’Autorità dal 2011” e sottolineando che “all’interno di questo cambiamento strutturale dei mercati e di ritrovata coesione europea ha trovato origine il progetto dell’Autorità di riforma delle condizioni economiche del servizio di tutela gas (famiglie e piccole imprese), con la principale finalità di trasferire a tutti i clienti i benefici derivanti da prezzi spot all’ingrosso della materia prima allineati a quelli europei”.
Ha ammesso che “il fatto che le tariffe italiane si collochino tra le più basse d’Europa, non ci esime dall’affrontare, insieme a Governo e Parlamento, il tema della salvaguardia completa delle utenze deboli e di quelle non disalimentabili”. Si è anche auto-complimentato sulla bassa età media (43 anni) e sulla presenza femminile (la metà) nel personale dell’Autorità.
La relazione fa riferimento ai benefici di una maggiore integrazione regolatoria mitteleuropea, ma non tratta della vocazione internazionale dell’Italia in materia di energia. Si parla di una politica energetica europea sin dagli anni Sessanta, ma neanche le crisi petrolifere degli anni Settanta hanno contribuito alla sua formazione. Il Trattato di Lisbona pone l’energia al centro dell’attività europea e le conferisce una base giuridica che le mancava nei precedenti trattati (articolo 194 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue)). In questa materia ci si sarebbe aspettato più di qualche cenno anche in quanto l’Ue ha adottato nel dicembre 2008 una serie di misure il cui obiettivo è ridurre il suo contributo al riscaldamento del clima e garantire l’approvvigionamento energetico. Non c’è accenno alla proposta della Sen di trasformare il Paese in un hub del gas sud-europeo al fine di accentuare competitività ed efficienza. Anche se ho dubbi su tale proposta, essa (ove attuata) avrebbe implicazioni regolatorie molto profonde che mi aspettavo indicate nel documento.
Infine, in materia di energia e gas il sistema di “governance” è molto complesso: si accavallano numerosi livelli di governo e più di un’autorità indipendente, ma si trascura il ruolo chiave, a livello locale, dei sindaci e dei consigli comunali per giungere a decisioni condivise. Occorre guadare a due livelli, da un lato, all’Europa - quello più alto ma più distante -, dall’altro al Comune - quello più vicino ai cittadini - per giungere a una Sen davvero operativa. Su questi argomenti l’Autorità non ha nulla di dire?


© Riproduzione Riservata.


Il centenario dell’Arena di Verona in Artribune del 27 giugno



Il centenario dell’Arena di Verona

È iniziato il 14 giugno il 91esimo Festival dell’Arena di Verona, ossia la “stagione del centenario”, poiché l’anfiteatro - che sino al 1820 era stato adibito ad abitazioni e in epoca napoleonica a magazzini - ebbe la prima rappresentazione lirica (ovviamente “Aida”) nel 1913.

Scritto da Giuseppe Pennisi | mercoledì, 26 giugno 2013 · Lascia un commento
http://cache-02.cleanprint.net/media/pfviewer/images/CleanPrintBtn_gray_small.pnghttp://cache-02.cleanprint.net/media/pfviewer/images/PdfBtn_gray_small.pnghttp://cache-02.cleanprint.net/media/pfviewer/images/EmailBtn_gray_small.png

Aida, 2013 - Bozzetto della Fura dels Baus - Per gentile concessione della Fondazione Arena di Verona
Aida, 2013 – Bozzetto della Fura dels Baus – Per gentile concessione della Fondazione Arena di Verona
Prima del 1913, l’anfiteatro di Verona era stato adibito a spettacoli (ad esempio una grandiosa festa danzante per celebrare, nel 1822, la fine del Congresso di Verona) oppure ad attività sportive (corse di cavalli, ciclismo e anche ascensioni in aerostato). Non era mancato un tentativo di adibirla alla lirica, nel 1856, quando vennero eseguite le operine Il Casino di Campagna e La fanciulla di Gand dell’ormai dimenticato Pietro Lenotti e Le convenienze teatrali e I pazzi per progetto di Gaetano Donizetti. Si trattò di un evento sporadico. Dal 1813, l’opera trovò una casa permanente in Arena. Non c’è stata una stagione ogni estate perché all’inizio gli impresari furono titubanti; in due guerre mondiali, poi, Verona fu l’epicentro del conflitto: basti pensare alla “rotta di Caporetto” e al “processo” che prese il nome proprio dalla città veneta.
Occorre ricordare che l’utilizzazione di arene e teatri antichi caratterizzò la vita culturale italiana all’inizio del Novecento: l’Arena di Verona fece da battistrada. Pochi mesi dopo, il 16 aprile 1914, viene inaugurato il Primo Ciclo di Spettacoli Classici, secondo la denominazione dell’epoca, al Teatro Greco di Siracusa con Agamennone di Eschilo. Nel 1921 (ancora con Aida) veniva aperto alla lirica lo Sferisterio di Macerata. Non si trattava solo di una curiosità un po’ dannunziana (La Città Morta del Vate trovava la sua scena ideale nel Teatro greco-romano di Taormina) ma anche un modo di aprire l’opera e i classici a un nuovo pubblico.
Aida - La Fura dels Baus - photo Tommasoli - Per gentile concessione della Fondazione Arena di Verona
Aida – La Fura dels Baus – photo Tommasoli – Per gentile concessione della Fondazione Arena di Verona
Gli anfiteatri e i teatri antichi erano molto capienti (14mila spettatori a Verona) rispetto alle consuetudini dei teatri italiani (tranne poche eccezioni, costruiti per un migliaio di spettatori). Inoltre, stucchi e palchetti intimidivano parte del nascente ceto borghese, che però non voleva sedere nelle panche non numerate del loggione: così come nella società civile i “partiti di massa” sostituivano soggetti politici elitari (in cui le donne erano al più tollerate e il censo era elemento determinante), l’Arena di Verona fu l’antesignano dell’opera per le masse. I prezzi dei biglietti erano fortemente differenziati: dalle “poltronissime cuscinate” alle varie sezioni delle gradinate. Per circa un secolo, l’Arena è stata il teatro per le famiglie. In quanto tale, prediligeva il repertorio (specialmente quello che poteva essere spettacolare) anche se ha spesso ospitato Lohengrin in traduzione ritmica italiana e negli Anni Trenta pure opere e balletti contemporanei.
Prima di venire alla stagione del centenario vale la pena ricordare che nel secondo dopoguerra l’Arena era, in pratica, la succursale estiva del Teatro alla Scala; nel volume Antonio Ghiringhelli, Una Vita per la Scala, Vieri Poggiali ricorda come l’industriale- sovrintendente della Scala ospitasse, a spese proprie, artisti e corpo di ballo nella sua villa e tenuta sul Garda, in modo che in quegli “anni difficili” si potesse fare stagione in Arena. La “Milano-che-può” (così la si chiamava allora) si trasferiva in Veneto e incontrava amici che varcavano il Brennero e “weekendavano” (questo era il lessico) con loro a Cortina.
Aida - La Fura dels Baus - photo Tommasoli - Per gentile concessione della Fondazione Arena di Verona
Aida – La Fura dels Baus – photo Tommasoli – Per gentile concessione della Fondazione Arena di Verona
Questa estate Aida apre e chiude gli spettacoli areniani in due versioni molto differenti: la prima è una nuova produzione affidata a La Fura dels Baus, la seconda è una rievocazione dello spettacolo storico del 1913. Aida è diventata nell’immaginario popolare l’opera colossale per eccellenza, anche se è stata scritta per il vecchio Teatro dell’Opera del Cairo, un edificio con una capienza di 800 posti modellato sul Teatro Valle di Roma (l’italiano era la lingua franca alla Corte del Khedivé d’Egitto). Verdi pensava in effetti a un dramma in musica intimista in cui solo in alcune scene ci sono più di tre personaggi sul palcoscenico. Molto tecnologica la produzione della Fura, già replicata cinque volte sulle televisioni in chiaro (e vista anche in mondovisione); dal vivo è ovviamente ancora più spettacolare (pur se in numerosi punti è molto prossima al Ring wagneriano presentato dalla Fura a Firenze e a Valencia tra il 2006 ed il 2010). Delicata e graziosa come le figurine Liebling, la ripresa dell’allestimento storico che in questo ultimo quarto di secolo si è visto molto spesso (e sempre con successo in Arena).
La stagione del centenario presenta, oltre alla doppia Aida, titoli sicuri Nabucco con la regia di Gianfranco De Bosio, La Traviata vista da Hugo de Ana, Il Trovatore allestito da Zeffirelli, Rigoletto nella produzione di Ivo Guerra e Roméo et Juliette quale letto da Francesco Micheli, e il Requiem verdiano.
Aida - La Fura dels Baus - photo Tommasoli - Per gentile concessione della Fondazione Arena di Verona
Aida – La Fura dels Baus – photo Tommasoli – Per gentile concessione della Fondazione Arena di Verona
Si è messo l’accento sulle regie perché l’Arena è soprattutto spettacolo teatrale: l’inquinamento atmosferico ha danneggiato l’acustica di cui si favoleggiava un tempo. Dopo aver precisato che l’Aida da me preferita è quella allestita da Franco Zeffirelli al Teatro Verdi di Busseto (400 posti), cosa suggerire? Il Trovatore di Zeffirelli e Romèo et Julette di Micheli, due registi molto distanti non solo sotto il profilo generazionale ma che hanno saputo, con questi due lavori, estrarre il meglio dall’Arena. E dalla sua magia.
Giuseppe Pennisi
http://www.arena.it/

Salpa il 30 giugno il Festival Pontino di Musica in Qutidiano Arte 27 giugno


Inizio modulo
stampa
Fine modulo
Fino al 2 agosto 2013, 18 concerti in provincia di Latina
http://www.quotidianoarte.it/nl/clienti/4394/img/Rea_Paoli_def.jpg
Salpa il 30 giugno il Festival Pontino di Musica
Giuseppe Pennisi
Torna, pur nelle difficoltà che stanno segnando tutta la vita musicale italiana e della regione Lazio, il "Festival Pontino di Musica", in programma dal 30 giugno al 2 agosto.
Presenta un cartellone di diciotto concerti che, come ogni anno, toccano alcuni dei luoghi storici e di maggiore bellezza artistica della provincia di Latina: il castello Caetani di Sermoneta, che ospita anche i Corsi di perfezionamento e interpretazione musicale del Campus con giovani musicisti provenienti da tutto il mondo, l’abbazia di Fossanova a Priverno, il palazzo Caetani e il chiostro di S. Domenico a Fondi, la chiesa di Santa Maria a Sperlonga e il chiostro di Sant'Oliva di Cori.
Recentemente trasformato in Fondazione, il Campus Internazionale di Musica garantisce un alto livello artistico con la presenza dei docenti dei Corsi di Perfezionamento impegnati nella doppia veste di insegnanti e interpreti sono: Franco Petracchi (direttore dei corsi), Elissò Virsaladze, Roberto Prosseda, Mariana Sirbu, Mirela Vedeva, Rocco Filippini, Fabrizio von Arx. All’esperienza dei grandi concertisti si affiancheranno giovani talenti avviati verso una brillante carriera, vincitori di importanti concorsi internazionali. Ampia le scelte dei programmi, dai repertori più classici fino ai nostri giorni, con incursioni anche nel jazz con Roberto Gatto e nel cantautorato con Gino Paoli e Danilo Rea.
L’apertura del Festival è fissata per domenica 30 giugno alle 19.30 nella suggestiva cornice dell’infermeria di Fossanova con il concerto del grande pianista Alexander Lonquich, impegnato in un programma tutto dedicato a Franz Schubert. Secondo concerto del Festival, questa volta nel Castello di Sermoneta alle ore 21 con 'I Fiati di Parma' diretti da Claudio Paradiso e una serata dal titolo: “Mozart – Strauss L’ultima dedica musicale e affettiva di Strauss” che prevede l'esecuzione a confronto della Serenata n. 10 KV 361 “Gran Partita” di Mozart, scritta nel 1781, e la Symphonie für Bläser op. post. “Fröliche Werkstatt” di Richard Strauss del 1945 (in allegato il dettaglio del programma).

info e biglietti: Fondazione Campus Internazionale di Musica, Via Varsavia, 31 - 04100 Latina, tel. 0773 605551, www.campusmusica.it; info@campusmusica.it