FINANZA/ 2.
Il "jolly" di Letta può salvare Italia (e Ue)
lunedì 3 giugno 2013
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NEWS Economia e Finanza
Si sono stappate centinaia di bottiglie di prosecco all’annuncio, il 29
maggio, che la Commissione europea proporrà al Consiglio dei Capi di Stato e di
Governo dell’Unione europea, in calendario per il 27-28 giugno, di fare cessare
la “procedura d’infrazione” per deficit eccessivo (ne restano in piedi numerose
altre nei confronti del nostro Paese per materie che vanno dal pagamento dei
debiti della Pubblica amministrazione a vari aspetti della gestione delle
“politiche comuni”). Era il caso di farlo? Dei numerosi commenti espressi in
questi giorni, il più appropriato mi sembra sia stato quello di Stefano Zamagni:
i vantaggi maggiori per l’Italia sono in termini di “reputazione”, vantaggi -
ha aggiunto Zamagni - che si potranno toccare con mano solo tra almeno sei
mesi. Dipendono, infatti, da come Governo e Parlamento leggeranno la decisione
dell’Ue (sempre che, come probabile, a fine giugno il Consiglio accetti la
raccomandazione della Commissione).
In effetti, sotto il profilo giuridico si può dare un’interpretazione più
“benevola” al concetto di “equilibrio strutturale di bilancio”, ma resta
l’obbligo di non superare un disavanzo contabile superiore al 3% del Pil,
sempre che non si voglia cadere in una nuova “procedura d’infrazione per
disavanzo eccessivo” con un’ancora maggiore perdita di faccia, ossia di
reputazione L’artificio contabile di non includere nel computo i fondi di
contropartita ai co-finanziamenti europei (su cui tanto si è fantasticato)
significa non più di 6 miliardi di euro spalmati su sette anni - poco più del
gettito, per un anno, dell’Imu sulla prima casa. Quindi, un volume di finanziamenti
trascurabile.
Tuttavia, per il Governo Letta si apre una nuova fase nell’interazione con
l’Ue. In primo luogo, occorre notare (lo hanno fatto pochissimi quotidiani
italiani) che la raccomandazione della Commissione non riguarda solo l’Italia,
ma anche Lettonia, Ungheria, Lituania e Romania, che Malta, uscita dalla
procedura d’infrazione sei mesi fa, vi è già rientrata, che Spagna, Portogallo
e ovviamente Grecia vi sono dentro. E anche la Francia e - quel che più conta-
la Germania potrebbero finire tra le “pecore nere”, specialmente in quanto
Parigi (che ha appena ottenuto un “rinvio” per mettere in ordine il proprio
disavanzo) e Berlino (che ha varato il primo giugno un programma d’espansione
della spesa pubblica) potrebbero trovarsi lontane dai parametri definiti nei
trattati.
Tutto ciò implica che l’Ue - e in particolare l’eurozona- è in seria
difficoltà con le proprie regole. Ciò non vuol dire che gli “azionisti di
maggioranza” siano pronti a riscrivere i trattati - operazione che rischierebbe
di provocare l’affossamento di quanto è stato faticosamente fatto negli ultimi
vent’anni - prima di ricominciare a costruire. Ciò implica che è iniziato un
complesso “gioco” su più tavoli. Sul tavolo europeo ciascun Paese (e le
istituzioni europee) hanno come posta la propria reputazione (come
efficacemente detto da Stefano Zamagni). Su quello interno, la propria
“popolarità” con i propri elettorati. Il gioco è reso complicato dal fatto che
non siamo alle prese con due giocatori che operano parallelamente su due tavoli
(come negli esempi di “teoria dei giochi multipli” presentati nei manuali
universitari), ma con almeno diciassette giocatori nazionali e tre distinti
giocatori europei (Commissione, Bce e Consiglio nelle sue varie forme di
Eurogruppo, Ecofin e assise dei Capi di Stato e di Governo), ciascuno alle
prese con differenti problemi di reputazione e popolarità.
Inoltre, gran parte dei governi dell’eurozona è composto da coalizioni di
soggetti politici o da soggetti politici divisi in correnti. Per ciascun
soggetto politico (o corrente di soggetto politico) si pone il problema di
popolarità con il proprio bacino elettorale e di reputazione (quanto meno di
lealtà) nei confronti dei propri partner di governo. Analogamente, i giocatori
europei sono alle prese con reputazione e popolarità tra di loro e con ciascuno
degli Stati membri. È necessario, sotto il profilo analitico, un algoritmo
molto, ma davvero molto, complicato per trovare un punto di equilibrio tale da
massimizzare reputazione ed equilibrio di tutte la parti in causa nel rispetto
dei vincoli dei trattati, di patti aggiuntivi come il Fiscal Compact. Si
tratterebbe, comunque, di un “equilibrio dinamico”, sempre sul punto di andare
in frantumi .
Lasciamo gli aspetti tecnici ai matematici e agli esperti di “teoria dei
giochi a più livelli”. Soffermiamoci sulla “finestra d’opportunità” per
l’Italia e per il Governo Letta. È una finestra che, come sostenuto in sede più
accademica, deriva dall’incertezza che, in certe condizioni, può essere vista
come un bene pubblico che apre opzioni a chi le sa cogliere. Nell’aggrovigliato
“poker” europeo, il Governo Letta può giungere a coniugare risanamento
finanziario e sviluppo utilizzando, in lessico finanziario, un’opzione di flessibilità
tale da aiutare le stesse istituzioni Ue portandole a negoziare (come
sussurrato negli ultimi due Consigli Ue) accordi individuali con i singoli
Stati membri su programmi di riassetto strutturale che per aumentare
produttività, competitività e occupazione dei fattori produttivi prevedano
anche temporanei superamenti dei vincoli nel quadro di politiche economiche
concordate.
Se questo approccio venisse accettato non solo aumenterebbe la reputazione
dell’Italia e di chi la governa, ma si trarrebbe l’intera Ue fuori da un
complesso groviglio che minaccia di paralizzarla.
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