Roma, il
“Ballo” di Pappano
Foto di Musacchio & Ianniello
Opera • In
forma di concerto il titolo verdiano diretto da Sir Anthony all’Accademia
Nazionale di Santa Cecilia
di Giuseppe Pennisi
Giuseppe Verdi è uno degli autori preferiti da Antonio
Pappano. Lo dimostra la frequenza con cui il Cigno di Busseto è presente a
Londra nel cartellone della Royal Opera House (RHO) al Covent Garden, di cui
Sir Anthony è direttore musicale. Pappano ha concertato raramente, però, opere
verdiane in Italia e all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, dove ha un
incarico gemello a quello che ricopre alla RHO.
Grande attesa, quindi, per Un ballo in maschera che
ha proposto quasi a conclusione della stagione sinfonica 2012-2013
dell’Accademia di Santa Cecilia. Tanto più che questa produzione verrà
probabilmente replicata a Londra e sarà la base di un CD, molto differente da
quello (peraltro di difficile reperimento) del 2005, frutto di una live
performance alla RHO con un cast di livello (Marcelo Álvarez, Thomas
Hampson, Karita Mattila, Elisabetta Fiorillo, Camilla Tilling nei ruoli
principali).
«È un’opera che ho nel cuore» dice Pappano
riferendosi a Un ballo in maschera «perché sono cresciuto
suonandola, dato che mio padre la cantava interpretando il ruolo di Riccardo».
Per Pappano, Il Ballo è un lavoro «di una passionalità che ci
avvolge, a cui non ci si può opporre». La lettura di Pappano, quindi, è
molto distante da quella “politica” data ai tempi di Verdi ed ancor più ai
giorni nostri. Nel 1859, per accontentare la censura (diretta dal poeta
romanesco Giuseppe Gioacchino Belli) si dovette spostare l’azione dalla Svezia
del Seicento, dove erano avvenuti i fatti, ad un’improbabile Boston coloniale.
In recenti edizioni a Piacenza ed a Macerata, Pier Luigi Pizzi ambientò l’opera
a Dallas nei giorni dell’assassinio di Kennedy, a Madrid Calixto Bieito la
situa in un complotto Anni Sessanta per il ritorno del franchismo, alla Scala
(nella produzione che debutta il 9 luglio) Damiano Michieletto la colloca nel
clima delle primarie americane ai giorni nostri. Senza più o meno forzate e
forzose interpretazioni politiche, si svelano i più importanti valori musicali
del Ballo. «Verdi, nelle sue lettere» precisa Pappano «parla
più volte del suo approccio “francese” alla stesura dell’opera, fa sempre
riferimento al contrasto portato alla massima tensione tra l’atmosfera cupa
della tragedia e la leggerezza delle situazioni. Per Riccardo e per Oscar la
musica è disinvolta, brillante, quasi falstaffiana e tuttavia si contrappone
repentinamente alla scena di Ulrica, massima espressione del mistero, della
superstizione, dell’inquietudine per un futuro che non si conosce». In breve,
«la musica è geniale, costruita secondo un meccanismo perfetto; parla per sé
stessa ed i personaggi sono delineati musicalmente con estremo nitore. Certo è
un’opera dalla valenza teatrale molto forte ma la scrittura è talmente geniale
che è possibile anche la realizzazione in forma di concerto».
Veniamo alla cronaca della serata. Auditorium
strapieno, e con alcuni spettatori in piedi, anche perché parte della seconda
galleria era occupata dalla Banda Musicale della Polizia di Stato che, nel
terzo quadro del terzo atto (la scena del ballo) fa le funzioni della piccola
orchestra prevista in palcoscenico. Più che una versione da concerto in senso
stretto, viene presentata un’edizione che in francese verrebbe chiamata mise
en espace: in breve, i cantanti non sono attorno al podio con leggii
di fronte a ciascuno, ma appaiono in varie parti del palco (frammisti
all’orchestra) e, dato che conoscono le parti a menadito, recitano ed
utilizzano raramente i leggii. Non ci sono ovviamente né scene né costumi;
quindi, l’attenzione è unicamente sul dramma quale espresso dall’orchestra, dai
solisti e dal coro. È un Ballo imperniato sulla doppia vicenda
dell’amore impossibile e dell’amicizia che, sino alle ultime battute, si
ritiene tradita. Sul doppio intreccio aleggiano la cupezza di Ulrica e la
leggerezza di Oscar.
Sin dall’introduzione, Pappano giustappone gli
elementi più drammatici del melodramma caratterizzati da una cupezza quasi da Trovatore
con la lievità della commedia in musica francese, con echi di Auber e
Offenbach (pure un coro che ricorda il Can Can alla fine del primo
atto). In effetti, mentre nel secondo quadro del primo atto (la scena tra
Riccardo ed Ulrica) e nel finale del secondo, il dramma italiano e la commedia
francese si fronteggiano abilmente (magnifici i fiati e gli ottoni), nel finale
del terzo atto dopo il francesissimo e lievissimo coro «Fervono amori e
danze» e la densissima romanza in cui Riccardo morente perdona
i suoi avversari, le due componenti si fondono in un grandioso “do”. In
un’esecuzione da mise en espace risalta, poi, la carnalità del duetto
del secondo atto, un unicum in Verdi (l’eros verrà appena sfiorato nei
duettini tra Nannetta e Fenton in Falstaff) e più in generale nel
melodramma ottocentesco italiano. Tra il 1828 (Le Comte Ory di
Giaocchino Rossini) e il 1893 (Manon Lescaut di Giacomo Puccini) per
l’opera italiana c’è una lunga notte senza eros (presentissimo, invece, proprio
in quei decenni nel teatro lirico tedesco e francese, nonché in alcuni lavori
di quello nazionale russo). Anche se carnale piuttosto che erotico, il duetto
del Ballo rappresenta una vera eccezione.
Veniamo alle voci. Il ruolo di Riccardo è
particolarmente arduo perché è l’unico da solista che appartiene a due distinti
universi: il melodramma italiano e la commedia lirica francese. Lo interpreta
Francesco Meli in piena forma; ricordiamo che Meli ha iniziato la carriera come
belcantista e che ha affrontato gradualmente parti più “pesanti” (la vera
svolta fu nel 2010 con il suo trionfale Werther a Parma). Il suo
Riccardo ha echi della carriera belcantistica e va facilmente dalla mezza voce
a registri intensamente drammatici. Dizione perfetta ed un timbro vellutato
(come quello di Carreras nei suoi anni migliori) che gli permettono di cogliere
tinte vocali e sfumature di un personaggio tra i più difficili della scrittura
vocale verdiana. Accanto a lui, Amelia è Liudmyla Monastyrska, un soprano
drammatico ucraino già notato alla Scala in Aida ed a cui si prospetta
un’interessante carriera. Renato è Dmitri Hvorostovsky, buon baritono anche se
in un ruolo differente da quelli (specialmente Evgenij Onegin) in cui ha
primeggiato. Ulrica è la veterana Dolora Zajick; la tecnica le consente ancora
ancora di scendere in registri gravi ed austeri. Di grande livello l’Oscar di
Laura Giordano, un soprano leggero di coloratura che svolazza in vocalismi
spericolati mentre si prepara la tragedia. Ottimo il coro guidato da Ciro Visco
e quindici minuti di ovazioni al termine dell’esecuzione.
© Riproduzione riservata
Nessun commento:
Posta un commento