giovedì 23 dicembre 2010

La lezione della "Vedova allegra" ai ministri dell'Eurogruppo Il Foglio 23 dicembre

La lezione della "Vedova allegra" ai ministri dell'Eurogruppo

Se invece di scervellarsi con cinture di sicurezza (a spese dei contribuenti dei Paesi “virtuosi”), con nuove agenzie per controllare questo e quello (nei meandri dei servizi finanziari), con burocrazie aggiuntive, i ministri dell’Economia e delle finanze dell’Eurogruppo si mettessero alla ricerca di vedove generose, anche se “allegre”, ben disposte ad aprire il portafoglio per saldare qualche pesante “debito sovrano“ ed evitare contagi grandi e piccoli? Il pensiero, molto “buonista”, non può non venire in mente dopo avere gustato, al Teatro Filarmonico di Verona, l’allestimento de “La Vedova allegra” di Franz Lehár che la fondazioni lirica della città scaligera co-produce con quelle di Trieste, Napoli e Genova - una prassi efficace per assicurare buona qualità a costi contenuti.
La regia di Federico Tiezzi non sposta l’azione alla crisi finanziaria dei giorni nostri - come fa Christof Loy nella mirabile “Arabella” di Richard Strauss in scena a Francoforte – ma al 29 ottobre 1929, ossia al “venerdì nero” preso, convenzionalmente, come data d’inizio della Grande Depressione. In “Arabella” – lo sappiamo – siamo alle prese con un famiglia nobile ma spiantata dopo la guerra austro-prussiana del 1866: l’unica speranza è un ricco matrimonio per la bella figlia maggiore. In “Vedova allegra” il quadro è molto più simile a quello della crisi odierna: in una Parigi visionaria, che lo spiantato Lehár aveva solo sognato, si tenta di evitare la bancarotta di uno stato per insolvenza del proprio debito sovrano “combinando” il matrimonio di un diplomatico godereccio con una connazionale, diventata, dopo solo otto giorni dalle nozze, vedova, ed ereditiera di un banchiere il quale possiede il 51 per cento del patrimonio del Paese (e verosimilmente almeno il 60 per cento del Pil). Sul fondale del palcoscenico, scivolano i listini di Borsa e i principali indici azionari, come “ticker” dei programmi delle televisioni finanziarie.
Sul boccascena, eros e denaro si sciolgono nella profondità e nella leggerezza dei valzer con i loro tempi in ¾ che seducono con eleganza, e languore misto a brio. La vicenda è nota, anche perché “La Vedova allegra” è una delle operette più rappresentate, nonostante il genere fosse già considerato al crepuscolo quando il 30 dicembre 1905 (solo tre settimane dopo la prima mondiale di “Salomé” di Richard Strauss, una coincidenza non solo casuale) debuttò in un teatro “leggero” di Vienna. Sovente viene messa in scena nel periodo di fine anno da compagnie in economia, semplificando una partitura che, giustamente, Bernstein, Karajan, Kleiber, Matacic, Rudel e altri Dei della bacchetta consideravano tra le più raffinate.
Nell’edizione in scena a Verona, Julian Kavatchev dispone di una orchestra di classe, le danze sono affidate ad un corpo di ballo di grande professionalità, e i cantanti- attori sono in gran parte giovani già sulla cresta dell’onda. Inoltre, le parti dialogate sono, fortunatamente, scarnite dai frizzi, lazzi e giochi di parole volgarotti, entrati (in Italia) nella tradizione. Pur sapendo come va a finire (la “vedova” risolve tutti i problemi del debito sovrano ed anche una buona parte di quelli di lenzuola e di corna), ci si diverte e si gustano musica, canto e danze. Torniamo ai “debiti sovrani” nell’Eurogruppo. C’è una “vedova” pronta a fare da cavaliere bianco? La wagneriana di ferro Frau Merkel non sembra gradire il ruolo non solamente perché non è vedova - pur se il discretissimo consorte compare unicamente al Festival di Bayreuth - ma perché i suoi elettori seguono il principio secondo cui condoni, sanatorie e salvataggi fanno più male che bene. Anche e soprattutto a chi si è indebitato.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi

Roma e Bari omaggiano il coreografo Roland Petit in Milano Finanza 24 dicembre

Roma e Bari omaggiano il coreografo Roland Petit di Giuseppe Pennisi


Nel periodo delle Feste di Natale e Capodanno balletto e operetta tornano a spopolare sui palcoscenici. Fino al 30 dicembre al Teatro dell'Opera di Roma e fino al 10 gennaio al Teatro Petruzzelli di Bari viene presentato, in collaborazione con la Scala, uno spettacolo dedicato al coreografo Roland Petit, di cui vengono rappresentati in entrambi i teatri due atti unici che hanno come matrice comune la musica di Georges Bizet e tragiche vicende d'amore: L'Arlésienne e Carmen.

Il primo balletto, creato da Petit nel 1974, riguarda la passione che conduce un giovane uomo alla follia e alla morte. La seconda, del 1949, riassume in 45 minuti i momenti salienti di una delle opere più rappresentate al mondo. Nelle varie repliche, i protagonisti dei due atti unici cambiano: ne L'Arlésienne si alternano tre coppie di étoiles - Erika Gaudenzi e Ivan Vasiliev, Eleonora Abbagnato e Benjamin Pech, Sara Loro e Alessandro Riga. In Carmen si avvicendano due coppie, formate da Polina Semionova e Robert Tewsley, Gaia Straccamoree e Mario Marozzi. La bacchetta è affidata a Nir Kabaretti. Il corpo di ballo è guidato da Micha von Hoecke che, con questo lavoro, debutta come direttore della danza all'Opera di Roma. Petit, ormai prossimo agli 86 anni, ha seguito questa nuova edizione dei suoi due lavori. La coreografia è ancora moderna e interpreta efficacemente la musica di Bizet. Tra i primi ballerini spicca la giovanissima coppia Erika Gaudenzi e Ivan Vasiliev. (riproduzione riservata)

PER LA RIPRESA NON BASTA L’INGEGNERIA FINANZIARIA Il Velino 23 dicembre

PER LA RIPRESA NON BASTA L’INGEGNERIA FINANZIARIA
Giuseppe Pennisi
Sul futuro dell’Europa si stagliano le conclusioni della riunione dei Capi di Stato e di Governo del 16 e 17 dicembre scorso. Tanto nei loro aspetti positivi. Quanto nelle loro lacune.
Il comunicato finale pone l’accento sull’operazione d’ingegneria finanziaria per l’eurozona al centro del vertice: l’entrata in funzione, operativamente dal giugno 2013, di un “meccanismo di salvaguardia della stabilità finanziaria” ed illustra alcune modifiche tecniche ai trattati. Al raggiungimento degli obiettivi di “crescita inclusiva” del programma “Europa 2020” viene dedicata una riga per riconfermarli. Le conclusioni del vertice non hanno entusiasmato i mercati, nonostante l’operazione d’ingegneria finanziaria fosse diretta essenzialmente a rassicurarli che la solidarietà europea sarebbe intervenuta in caso di minaccia d’insolvenza di questo o quello Stato dell’area dell’euro.
Molti aspetti della stessa operazione sono rimasti nebulosi. Ad esempio, la ciambella di salvataggio dovrebbe essere disponibile subito nell’eventualità che fossero necessarie risorse ben più ampie di quelle racimolate il 9-10 maggio scorso (quando la Grecia sembrava sull’orlo del baratro), mentre “l’operatività” del “nuovo meccanismo” è rinviato al giugno 2013. Inoltre, nonostante l’assicurazione che “il meccanismo” lavorerà d’amore e d’accordo con il Fondo monetario, c’è sempre il rischio di differenze, e di contrasti, istituzionali nel valutare questa o quella situazione. Infine, strumenti come gli “Eurobonds” vengono rinviati “alla prossima puntata” e sulla loro eventuale natura regna una certa confusione di idee (chi li considera ancore di salvataggio per il debito sovrano – come i “Brady Bonds” di fine Anni Ottanta; chi li vede come veicoli di finanziamento dello sviluppo – come i “Delors Bonds” del 1990). Nonostante questi limiti, un’indicazione (anche parziale”) di solidarietà europea nei confronti di Paesi a rischio era necessaria per evitare il pericolo dello smottamento della stessa unione monetaria.
Neanche un’operazione d’ingegneria finanziaria perfetta nei suoi dettagli tecnici, però, è sufficiente a risolvere il nodo relegato nella riga finale del comunicato: la crescita. Si esce dal debito soltanto producendo meglio e di più e distribuendo i benefici dello sviluppo più equamente di quanto fatto nell’ultimo quarto di secolo. Per il futuro a breve termine, le prospettive non sono incoraggianti: il 21 dicembre, i 20 istituti econometrici considerati il gruppo del “consenso” prevedono un rallentamento dell’eurozona – da un aumento del Pil dell’1,7% nel 2010 ad uno dell’1,4% nel 2011 che sta per iniziare- tassi più bassi di quel 2,5% -3% che potrebbe essere fattibile pure in un continente “vecchio” in termini di demografia e di struttura produttiva. Alla luce dell’esperienza degli ultimi 25 anni di progressiva erosione dei redditi da lavoro e di incremento di quelli da capitale, l’obiettivo di una “crescita inclusiva” (il tema di fondo di “Europa 2020”) ha il sapore amaro di uno mero slogan.
La strada è, senza dubbio, stretta a ragione dell’integrazione economica internazionale, dei vincoli di finanza pubblica e della minaccia di vampate d’inflazione da costi provenienti dai corsi delle materie prime. Essa passa per una politica dei prezzi e dei redditi che tenga conto anche di nuovi metodi d’organizzazione industriale tale da aumentare la produttiva dei fattori produttivi e la competitività di merci e servizi. In questo quadro, il dibattito italiano sul futuro dell’auto merita attenzione nell’intera UE.

Eurobond: manuale per l'uso Il Velino 23 dicembre

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ECO - Eurobond: manuale per l'uso

Roma, 23 dic (Il Velino) - Gli Eurobond sono il tema rimasto, per così dire, senza risposta al vertice europeo del 16-17 dicembre per motivi sia politici (l’opposizione principalmente della Germania) sia tecnici. Sul tema c’è una vasta letteratura e il lavoro migliore e più recente è un saggio di Carlo A. Favero e Alessandro Missale, rispettivamente della Bocconi e dell'Università di Milano. Pure questo lavoro, però, presenta delle lacune. Cerchiamo di fare una sintesi sulla base dell’esperienza in un linguaggio che possa essere utile ai nostri lettori. Non si tratta di un’idea nuova. Ne sono state fatte numerose formulazioni in passato. Ad esempio, già negli Anni Sessanta, Alexandre Lanfalussy propose obbligazioni a supporto della politica agricola comune. Negli Anni Settanta, venne fatta una proposta da François-Xavier Ortoli, all’epoca presidente della Commissione europea (giornalisticamente vennero chiamati “Ortoli Bonds”): avrebbero avuto essenzialmente lo scopo di rilanciare occupazione e crescita tramite grandi investimenti. Ne circolarono varie versioni: secondo alcune sarebbero stati emessi dalla Banca Europea per gli Investimenti (Bei), secondo altre dalla Commissione europea in prima persona. Vennero, poi, proposti, sempre in chiave di finanziamento dello sviluppo, nel piano Delors per l’integrazione del mercato europeo.

L’ultima proposta, formulata da Mario Monti, riguarda “Eurobond” a più valenze, che verrebbero emessi da un’Agenzia europea per il debito ancora da istituire. In prima battuta, servirebbero ad alleggerire il debito “sovrano” di Stati iper-indebitati; in seconda, allo sviluppo, alla stregua degli “Ortoli Bonds” e dei “Delors Bonds”. In questo quadro, si collocano anche gli Eurobond lanciati da Giulio Tremonti e Jean-Claude Juncker. Se ho ben compreso la proposta a sottoscriverli sarebbero i Tesori e le banche degli Stati iper-indebitati dell’Unione monetaria; in tal mondo si alleggerirebbe (a tassi e termini più conveniente) il fardello dei loro debiti (principalmente quelli con l’estero). Al pari dei bond di Bei, di Banca mondiale, di banche regionali di sviluppo, gli "Eurobond" potrebbero arrivare al dettaglio tramite i normali canali bancari ed essere acquistati dai risparmiatori che si recano dai promotori finanziari e dai “borsini” (in linguaggio colloquiale) d’intermediari finanziari per essere consigliati su come collocare quanto messo da parte. Gli Eurobond proposti da Mario Monti non salverebbero l’euro ma toglierebbero d’impaccio (alleviando il peso del debito sovrano) alcuni Stati.

In effetti, uno schema analogo (i “Brady Bonds” dal nome del Segretario al Tesoro Usa Nicholas Brady) è stato applicato, con successo, a cavallo tra la fine degli Anni Ottanta e l’inizio degli Anni Novanta e, poi, nel 1998-99, per agevolare Stati altamente indebitati principalmente dell’America Latina e dell’Asia. Vennero utilizzati per riscattare parte del debito in valuta forte. I “Brady Bonds”, però, coprivano solo il 70 per cento del valore nominale dei titoli portati al riscatto: chi aveva investito in Brasile o in Malesia attratto da alti interessi (o alti spread), ci rimetteva parte del valore in conto capitale e in futuro sarebbe stato più accorto. “Bonds” pari al 100 per cento del valore facciale – come sembra sia la versione più recente – sarebbero come un condono od una sanatoria: secondo Berlino incoraggerebbero a razzolare male nella prospettiva di qualche buon samaritano (i contribuenti europei, ossia tutti noi). Gli elettori tedeschi hanno inviato al loro governo un messaggio del tutto condivisibile, nonostante i maggiori beneficiari degli “Eurobond” sarebbero le banche tedesche che, con quelle francesi, si sono più esposte nei confronti di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna (in ordine rigorosamente alfabetico).

martedì 21 dicembre 2010

Operetta, quattro teatri per la “Vedova” veronese Il Velino 21 dicembre

CLT -

Roma, 21 dic (Il Velino) - L’operetta di Franz Lehar “La Vedova allegra” andò in scena in un teatro di Vienna dedicato agli spettacoli “leggeri” il 30 dicembre 1905. Poche settimane prima c’era stato il debutto mondiale di “Salomé” di Strauss a Dresda e poco più di un anno prima c’era stato il tonfo della prima edizione di “Madama Butterfly” di Puccini alla Scala. “La Vedova allegra”, nel suo genere, è un lavoro rivoluzionario tanto quanto quelli di Richard Strauss e di Giacomo Puccini lo sono “nel filone aureo” del teatro in musica. Tutti e tre sono eminentemente femministi e l'eros femminile, in vari modi, ne è il motore. In effetti, all’inizio del XX secolo, l’operetta pareva una forma di spettacolo ormai al tramonto. In Austria con la morte di Johann Strauss era terminata l’età dell’oro del genere nel quale si rispecchiava una borghesia ricca e molto poco “imperiale”. In Francia, non c’erano più né Jacques Hoffenbach né il mondo (principalmente quello del Secondo Impero) nei cui confronti le sue operette trasgressive lanciavano un’ironia graffiante. Viveva nelle satire sottilmente perverse che in Gran Bretagna la “premiata ditta” Gilbert & Sullivan lanciava nei confronti della società vittoriana e post-vittoriana, in lavori densi di “idioms” (frasi idiomatiche e doppi sensi) e, quindi, difficilmente traducibili e apprezzabili a sud della Manica.

Al pari di “Salomé” e di “Madama Butterfly”, “La Vedova allegra” arrivò sulla scena europea con una vera carica rivoluzionaria per tre motivi. In primo luogo, per quanto adattata al teatro in musica da una mediocre “pochade” di successo, non era una rappresentazione, più o meno ironica, della società e della politica del tempo ma una lettura visionaria di come la Mitteleuropa (Lehar veniva da un piccolo villaggio ungherese e per lustri si era guadagnato il pane nell’esercito e guidando, quando poteva, bande di paese) si immaginava fosse Parigi (metropoli dell’avvenire) e prendeva in giro gli statarelli balcanici che volevano autoconsiderarsi in via di modernizzazione. In secondo luogo, utilizza una linea melodica ricchissima e vi inserisce brani da “filone aureo” (la “Canzone di Vilja” al secondo atto) unitamente a prestiti dal melologo (parlato accompagnato da orchestra). In terzo luogo, l’azione drammatica slitta, oltre che nei numeri musicali, in una danza in cui, oltre ai valzer, alle polke, alle mazurche e alle marce tradizionali, viene inserita la musica etnica per l’appunto slava, portando in orchestra liuti d’ascendenza araba. Infine, la commedia in musica è coperta da un velo di malinconia, anticipatore, quasi quanto lo avrebbe fatto sei anni dopo “Der Rosenkavalier” di Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal, dei colpi di pistola di Sarajevo, nonché, con la Prima guerra mondiale, della fine di un mondo e della centralità internazionale dell'Europa. L’orchestrazione e la vocalità, in linea con questi tre aspetti fondanti, ne fanno un capolavoro musicale, adorato da concertatori del livello di Kleiber, Rudel, von Karajan e von Matacic.

Questa premessa è essenziale per comprendere la tesi secondo cui quale che sia l’adattamento de “La Vedova allegra”, occorre rispettarne lo spirito. Non ci sarebbe da scandalizzarsi di fronte a una ambientazione “visionaria” magari nella New York di oggi (quale immaginata da una piccola borghesia europea) con il Pontevedro come una Repubblica bananiera dei Caraibi o dell’America centrale. Oppure in una Islanda in bancarotta o in Irlanda e Grecia sull'orlo di esserlo, e in cui Hanna Glawary avesse parte delle caratteristiche di Angela Merkel. Sempre che venissero rispettati il carattere “visionario”, l’equilibrio tra parole e musica e la magnifica partitura. Nel 1990, il Teatro dell’Opera di Roma presentò un allestimento curato da Mauro Bolognini in cui la vicenda veniva ambientata negli anni Trenta, prima della Seconda guerra mondiale i cui spari restavano distanti: costruito attorno a Raina Kabaivanska e Mikael Melbe, funzionò perfettamente e fu ripreso sia nella Capitale sia in altre città. Nel 2008 ha invece toppato miseramente la messa in scena di una costosa edizione, in parte in dialetto, nella Napoli della “munnezza”.

L'edizione in scena al Teatro Filarmonico di Verona sino al 2 gennaio non è un allestimento natalizio a basso costo. E' il risultato di una coproduzione tra quattro teatri (quelli di Trieste, Genova e Napoli, oltre che la fondazione della città scaligera). La regia di Federico Tiezzi sposta l’azione dal 1905 al 1929, più precisamente al 29 ottobre di quell’anno, crollo di Wall Street e inizio della grande depressione economica e finanziaria, evidenziata da indici di Borsa evocati sullo sfondo. La trovata non è del tutto originale ma, come si è detto in precedenza, più che legittima: un’edizione di “Arabella” di Strauss in scena a Francoforte porta la vicenda da una Vienna sconfitta dopo la guerra austro-prussiana del 1866 alla crisi dei mutui subprime nel 2007, ma funziona efficacemente e sottolinea la centralità di denaro ed eros, i motori dell’intreccio. Le scene di Edoardo Sanchi e i costumi di Giovanna Buzzi esprimono bene il clima. “La Vedova allegra” si svolge in una Parigi visionaria, quale immaginata dal piccolo ufficiale Lehar e in cui nonostante la crisi sempre sul sottofondo e l'imminente bancarotta di uno Stato sovrano, si danza, ci si corteggia, si fa l'amore in locali notturni (Chez Maxim's) assolutamente immaginari. Il gioco funziona bene.

“La Vedova allegra” è soprattutto grande musica. Julian Kovatchev ha il tocco giusto per una partitura in cui tre quarti dei numeri musicali sono senza l'ambiguo tempo di valzer caratterizzato da profondità della leggerezza. Un tempo, afferma il protagonista maschile, che fa dimenticare “tre quarti della propria virtù” e che, secondo “La vedova”, potrebbe indurre “a metter di canto anche l'ultimo quarto” . Kovatchev ha l'equilibrio corretto, al tempo stesso profondo e leggero, tra ironia e nostalgia per un mondo al crepuscolo, anche perché assecondato da un orchestra e corpo di ballo appropriati (quelli dell’Arena di Verona). Con l’eccezione di Bruno Praticò, veterano dell’opera comica e sempre presente al Rossini Opera Festival, il cast è giovane e canta, recita e balla bene. La protagonista femminile è Silva Della Benetta, una voce ben educata e in grado di cantare efficacemente la grande “aria-canzone” del secondo atto, ma con un volume piccolo per il grande Teatro Filarmonico. Il baritono albanese Gezin Myshketa è il protagonista maschile. Una voce agile e vellutata e una bella presenza: è destinato, al pari dei connazionali, Mula e Pirgu a una promettente carriera. Nella seconda coppia (Velencienne e De Rossignol) Davinia Rodriguez vince ai punti (per sensualità e voce) su Ricardo Bernal. Di buon livello i numerosi cantanti attori in parti secondarie. Esilarante Gennaro Cannavacciuolo nel ruolo di Njegus.

lunedì 20 dicembre 2010

Il segreto della crescita? si chiama capitale umano Ffwebmagazine 20 dicembre

FOCUS


Qualche proposta per affrontare la crisi e far ripartire il paese
Il segreto della crescita?
Si chiama "capitale umano"
di Giuseppe Pennisi Dopo le vicende politico-parlamentari delle ultime settimane è indispensabile, tanto per il Governo quanto per le opposizioni, trovare un denominatore comune di politica economica a medio termine per riportare l’Italia nel sentiero di crescita nella stabilità. Ci sono rischi e incertezze ancora forti nel contesto internazionale; mosse sbagliate o anche soltanto l’impressione di essere senza obiettivi chiari e senza strumenti per pilotarli può causare una crisi finanziaria (con forti aumenti dello spread tra titoli italiani e tedeschi a lungo termine e una crescita esponenziale del debito pubblico) analoga a quella del settembre 1992.
Ecco in anticipo alcune proposte che verranno esposte più compiutamente nel prossimo numero di Charta Minuta. La politica economica italiana non ha alternativa al muoversi nel solco segnato da un lato da Europa 2020 e dall’altro dal nuovo Patto di Crescita e di Stabilità. A ragione della propria struttura produttiva e delle caratteristiche del proprio sistema di servizi finanziari, l’Italia è riuscita a scansare le implicazioni peggiori della crisi finanziaria ma il reddito pro-capite è rimasto immobile, il divario tra “chi e chi non ha” (su base principalmente territoriale) aumenta, il tasso di disoccupazione tende verso il 10% di coloro che vogliono e possono lavorare, l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni è attorno al 5% del Pil e lo stock di debito pubblico avanza verso il 120% del reddito nazionale. Le mie stime indicano la necessità di un saldo primario attivo di bilancio (ossia risultato di esercizio al netto del servizio del debito) almeno del 5% del Pil l’anno per i prossimi dieci anni al fine di rientrare nel solco europeo. Dato che tale obiettivo non può essere raggiunto tramite un aumento della pressione tributaria e contributiva, si dovrà perseguire una strategia rigorosa della riduzione della spesa pubblica. Come farlo senza mettere ulteriormente in pericolo la coesione sociale è il problema centrale che dovrà essere affrontato da chiunque abbia responsabilità (di Governo o di opposizione).
In primo luogo, le riduzioni della spesa hanno, se ben modulate, un buon effetto moltiplicativo su consumi, investimenti e occupazione, un effetto maggiore del deficit financing di stampo keynesiano. Occorre tenere presente che la struttura produttiva del paese, costituita da piccole e medie imprese specialmente nel manifatturiero, da elemento di forza durante la crisi può diventare elemento di debolezza. La Germania mostra di essere riuscita ad aumentare il grado d’internazionalizzazione tramite un processo di concentrazioni aziendali in cui servizi e manifatturiero sono stati integrati nella stesse imprese al fine aumentare competitività tramite una più efficiente catena del valore. La politica pubblica dovrebbe adesso favorirne uno analogo in Italia.
La semplificazione normativa e le liberalizzazioni sono gli strumenti principe per farlo: oggi il groviglio di norme e di regolamenti è tale che piccole e medie italiane si trasferiscono non solo in Stati neo-comunitari dell’Europa dell’Est ma nello stesso Canton Ticino e nel francese Departement Rhones-Alpes quasi ai confini con il Piemonte. Appare urgente una sunset legislation (normativa del tramonto) che, dopo un certo numero di anni, imponga il decadimento di leggi e regolamenti se non approvati di nuovo dall’autorità politica (Parlamento, Consiglio Regionale, o Provinciale o Comunale).
In secondo luogo, il metodo delle “riduzioni lineari” per la spesa pubblica ha il fiato corto. Occorre adottare un metodo selettivo. Si è tentato, di mutuare, non con grandi esiti, le Spending Reviews britanniche ma si è posta poca attenzione al Programme de Rationalization des Choix Budgettaires grazie al quale la Francia degli Anni Ottanta è passata da una situazione di deficit crescenti e svalutazioni periodiche al Patto del Louvre del 1987 con il quale veniva stabilito (a conti risanati) il cambio fisso tra franco francese e marco tedesco. Caratteristiche del Programme erano la selettività e la trasparenza poiché gli studi e le analisi che portavano a tagli selettivi venivano pubblicati in un periodico edito da La Documentation Française e diventavano oggetto di dibattito. Quale che sia la strada scelta, sarà essenziale rivalorizzare il servizio studi della Ragioneria Generale dello Stato (che è stato creato alcuni anni fa appositamente a questo scopo) e i servizi studi dei due rami del Parlamento. Una selettività delle politiche di spesa non deve restare declamatoria. Si possono proporre due obiettivi, in linea con quelli europei: crescita e innovazione, da un canto, coesione sociale, dall’altro.
Una proposta interessante emerge dalle analisi relative ai “miracoli economici” del secondo dopoguerra . Essi sono stati avviati ma anche affievoliti e spenti a ragione della esistenza di uno forte stock di capitale umano e della sua erosione: quando il capitale umano non è più in linea con le trasformazioni della struttura della produzione e del mercato del lavoro, la spinta che ha dato vita al “miracolo” si esaurisce e si torna su una tendenza di lungo periodo. Quindi, l’indicazione di una politica economica basata su una politica attiva della formazione del capitale umano, nonché su quella del funzionamento del mercato del lavoro, della politica della salute e del sistema previdenziale.
Un’ipotesi analoga è stata formulata di recente dal Premio Nobel James Heckman della Università di Chicago e da Bas Jacobs della Università di Tilburg : il rallentamento di lungo periodo dell’Ue viene individuato nella carenze delle politiche della formazione e di utilizzazione di capitale umano, politiche che dovrebbero essere “re-inventate” anche a ragione dell’invecchiamento della popolazione. La formazione di capitale umano viene frustrata se il resto delle politiche economiche ha l’effetto di abbassare i rendimenti dell’istruzione e della formazione: ad esempio, alti tassi marginali d’imposizione tributaria e ammortizzatori occupazionali e sociali molto generosi riducono i tassi di partecipazione alla forza lavoro e le ore effettivamente lavorate con la conseguenza di una utilizzazione del capitale umano più bassa dell’ottimale. Osservazioni analoghe possono essere fatte per sistemi o regimi previdenziali che incentivano a lasciare la vita produttiva in età relativamente giovane.
Da queste analisi si può partire per giungere a indicazioni più specifiche sia in materia di riduzioni di bilancio sia di politiche attive per l’inclusione sociale. Per individuare cosa fare in materia di politiche attive, particolarmente utile un lavoro di David Card (Università della California a Berkeley), Jochen Kluve (Iza, ossia istituto federale tedesco per lo studio del lavoro) e Andrea Weber (Università di Mannhin) . Il lavoro copre un periodo lungo – dal 1995 (massima diffusione delle politiche ”attive”) al 2007 (lo scoppio della crisi)- ed esamina l’impatto di 199 programmi sulla base di 97 studi empirici al fine di trarne implicazioni di politica legislativa e di allocazione di risorse. La conclusione è che le politiche “attive” meno efficaci sono quelle imperniate su programmi d’occupazione nel settore pubblico (per intenderci, i lavori socialmente utili o di pubblica utilità). Abbastanza efficaci , invece, le misure di assistenza alla ricerca di un impiego. Mentre, nel breve periodo, la formazione e la riqualificazione sembrano avere impatti modesti, dopo due-tre anni paiono avere risultati significativi.
Ciò ha implicazioni significative per l’Italia . Gran parte della spesa pubblica per ammortizzatori occupazionali è per politiche “passive” di sostegno del reddito, nel cui ambito hanno assunto un ruolo sempre maggiore quelle “in deroga” (ossia per categorie tradizionalmente al di fuori dal “comparto” degli ammortizzatori). Siamo, però, riusciti a smaltire una percentuale molto significativa dei programma d’occupazione straordinaria nel settore pubblico. Non fanno difetto le risorse per la formazione, e riqualificazione; tuttavia, dati recenti indicano che le Regioni dove le esigenze sono maggiori (quelle del Sud e delle Isole) sono in grande ritardo nell’utilizzazione di fondi europei (che rischiano di essere convogliati verso altri Stati dell’Ue).

20 dicembre 2010

venerdì 17 dicembre 2010

La Vedova allegra ritorna alle origini Milano Finanza 18 dicembre

La Vedova allegra ritorna alle origini
di Giuseppe Pennisi


La Vedova allegra di Franz Lehár approdata al Filarmonico di Verona (dove è in scena fino al 2 gennaio) non è un frettoloso spettacolo natalizio ma una ricca coproduzione per la quale si sono coalizzate ben quattro fondazioni liriche (Trieste, Genova e Napoli, oltre ovviamente alla veronese).
Vengono eliminati i frizzi e i lazzi entrati nella tradizione e sia il testo sia la musica sono presentati in un'edizione il più vicino possibile all'originale. La regia di Federico Tiezzi sposta l'azione dal 1905 (anno del debutto a Vienna) al 1929, ossia alla grande crisi economica e finanziaria, evidenziata da indici di Borsa evocati sullo sfondo. La trovata in effetti non è originale, visto che un'edizione di Arabella di Strauss in scena a Francoforte porta la vicenda da una Vienna sconfitta dopo la guerra austro-prussiana del 1866 alla crisi dei mutui subprime nel 2007, ma funziona efficacemente e sottolinea la centralità di denaro e d'eros, i motori dell'intreccio. Le scene di Edoardo Sanchi e i costumi di Giovanna Buzzi esprimono bene il clima. Julian Kovatchev ha il tocco giusto, nonché un'orchestra e corpo di ballo appropriati. Il direttore trova inoltre un buon equilibrio tra ironia (sul piccolo Stato balcanico prossimo alla bancarotta) e nostalgia per un mondo al crepuscolo. Con l'eccezione di Bruno Praticò, veterano dell'opera comica, il cast è giovane e canta, recita e balla bene. Spicca, oltre a Silva Della Benetta nel ruolo della protagonista, il baritono albanese Gezin Myshketa, destinato, al pari dei connazionali, Mula e Pirgu, a una promettente carriera. (riproduzione riservata)

Musica, a Santa Cecilia un tocco viennese con la “Quarta” di Mahler, Il Velino 17dicembre

Musica, Musica, a Santa Cecilia un tocco viennese con la “Quarta” di Mahler
Roma, 17 dic (Il Velino) - Applausi per l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Per l’esecuzione integrale delle sinfonie di Gustav Mahler, nella doppia ricorrenza dei 150 anni dalla nascita e dei 100 dalla morte del compositore, ha trovato in poche ore un “rincalzo” di lusso per sostituire Andris Nelsons fortemente influenzato, il quale avrebbe dovuto dirigere la Quarta sinfonia. Ha chiamato Christian Arming che già in giugno aveva chiuso la stagione 2009-2010 con una splendida esecuzione della Terza. Concettualmente la Terza e la Quarta sinfonia sono molti distanti. Grandiosa la prima (di una durata che, in mano a certe bacchette, sfiora le due ore), con notevoli interventi corali e vocali per sottolineare il risveglio di una natura verosimilmente boema se non da Foresta nera. Delicata la Quarta, in cui Mahler torna ai canonici quattro tempi sinfonici quali definiti da Haydn. Primaverile e piena della dolcezza dei boschi che circondano Vienna, come quello di Laxemburhg. Tra le più brevi delle sinfonie di Mahler dura appena 55 minuti. Nella delicatezza cela quasi il dramma del rapporto di Mahler con quella che era allora la capitale della duplice corona austro-ungarica: ebreo laico (e probabilmente non credente) si convertì in grande pompa al cattolicesimo per diventare direttore generale dell’Opera della città. Un incarico che soffrì, tanto che fu probabilmente una delle determinanti delle crisi cardiache della sua vita e della sua morte ad appena 51 anni.

A 39 anni, ma visto dalla platea sembra poco più che trentenne, Arming ha il tocco esatto del viennese come immaginato da chi viennese non è: biondo, alto, slanciato, elegantissimo nel suo impeccabile frac, gestisce la musica con un tocco spettacolare. Una malizia, se si vuole, per quella che potrebbe sembrare la meno spettacolare delle sinfonie di Mahler: un organico ridotto, senza tromboni o basso tuba, l’intervento della voce (ma solo un soprano) per introdurre la “Via Celestiale”. Nel primo movimento, si avvertono echi della linea melodica della sinfonia Jupiter di Mozart, ascoltata nella prima parte del concerto. Il secondo e il terzo movimento proseguono con accurata eleganza. Poi uno stacco e la “Via Celestiale”, con un giovane soprano russo, Ekaterina Sadovnikova, perfetta nell’emissione anche se con un volume buono per un teatro lirico da 1000-1500 posti ma non sufficiente per la smisurata Sala Cecilia con i suoi 2800 posti. In breve una prova di grazia dalla Sadovnikova e di raffinatezza da Arming. Cosa di meglio per rievocare Vienna in questa fase pre-natalizia?
Roma, 17 dic (Il Velino) - Applausi per l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Per l’esecuzione integrale delle sinfonie di Gustav Mahler, nella doppia ricorrenza dei 150 anni dalla nascita e dei 100 dalla morte del compositore, ha trovato in poche ore un “rincalzo” di lusso per sostituire Andris Nelsons fortemente influenzato, il quale avrebbe dovuto dirigere la Quarta sinfonia. Ha chiamato Christian Arming che già in giugno aveva chiuso la stagione 2009-2010 con una splendida esecuzione della Terza. Concettualmente la Terza e la Quarta sinfonia sono molti distanti. Grandiosa la prima (di una durata che, in mano a certe bacchette, sfiora le due ore), con notevoli interventi corali e vocali per sottolineare il risveglio di una natura verosimilmente boema se non da Foresta nera. Delicata la Quarta, in cui Mahler torna ai canonici quattro tempi sinfonici quali definiti da Haydn. Primaverile e piena della dolcezza dei boschi che circondano Vienna, come quello di Laxemburhg. Tra le più brevi delle sinfonie di Mahler dura appena 55 minuti. Nella delicatezza cela quasi il dramma del rapporto di Mahler con quella che era allora la capitale della duplice corona austro-ungarica: ebreo laico (e probabilmente non credente) si convertì in grande pompa al cattolicesimo per diventare direttore generale dell’Opera della città. Un incarico che soffrì, tanto che fu probabilmente una delle determinanti delle crisi cardiache della sua vita e della sua morte ad appena 51 anni.

A 39 anni, ma visto dalla platea sembra poco più che trentenne, Arming ha il tocco esatto del viennese come immaginato da chi viennese non è: biondo, alto, slanciato, elegantissimo nel suo impeccabile frac, gestisce la musica con un tocco spettacolare. Una malizia, se si vuole, per quella che potrebbe sembrare la meno spettacolare delle sinfonie di Mahler: un organico ridotto, senza tromboni o basso tuba, l’intervento della voce (ma solo un soprano) per introdurre la “Via Celestiale”. Nel primo movimento, si avvertono echi della linea melodica della sinfonia Jupiter di Mozart, ascoltata nella prima parte del concerto. Il secondo e il terzo movimento proseguono con accurata eleganza. Poi uno stacco e la “Via Celestiale”, con un giovane soprano russo, Ekaterina Sadovnikova, perfetta nell’emissione anche se con un volume buono per un teatro lirico da 1000-1500 posti ma non sufficiente per la smisurata Sala Cecilia con i suoi 2800 posti. In breve una prova di grazia dalla Sadovnikova e di raffinatezza da Arming. Cosa di meglio per rievocare Vienna in questa fase pre-natalizia?

giovedì 16 dicembre 2010

MA NELL'AGENDA C'E' POCO REDITO IN Avvenire 16 dicembre

MA NELL’AGENDA C’E’ POCO REDDITO
Giuseppe Pennisi

I Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea (UE) si riuniscono nell’ultimo (in ordine di data) vertice del 2010 per riflettere su dove sta andando l’UE in un “dopo-crisi” di cui non si vedono ancora i lineamenti. Appena tre giorni fa, un rapporto dell’Ocse sull’eurozona ha ammonito che la ripresa della produzione sarà lenta; ancora più distanti sono i tempi del rilancio dell’occupazione e del lavoro. I 20 maggiori istituti econometrici internazionali prevedono il ritorno, per alcuni anni, di quei tassi di disoccupazione a due cifre che sembravamo avere dimenticato. Uno studio, al momento disponibile unicamente in tedesco, della Friedrich Ebert Stiftung, FES (il pensatoio tradizionalmente vicino al Partito Social Democratico tedesco) documenta che le diseguaglianze stanno crescendo non solo tra Paesi (il Pil pro-capite del Lussemburgo è 60.000 euro l’anno, quello della Romania non raggiunge i 3.000 euro) ma anche all’interno dei singoli Paesi, come affermano gli stessi dati Eurostat che pur , secondo l’analisi della FES, sottostimano il fenomeno. All’interno dell’eurozona, già prima della crisi, era in corso una compressione dei redditi da lavoro rispetto ai redditi da capitale: tra il 1970 ed il 2006, nell’area dell’euro la proporzione dei redditi da lavoro sul totale era scesa dal 68% al 57% del totale – curiosamente una quota analoga a quella rilevata in Italia nel 1967, alla vigilia, quindi, dell’”autunno caldo”. Dal 2006 alle stime preliminari per il 2010, i redditi da lavoro nell’eurozona hanno avuto un’ulteriore compressione ed ora sfiorano il 55% del totale. Ciò vuol dire che l’obiettivo di fondo di “Europa 2020” – “la crescita inclusiva”- si sta allontanando. Non avvicinando.
Inoltre, le reti di tutela sociale differiscono profondamente da Stato a Stato sia sotto il profilo normativo sia sotto quello del loro effettivo funzionamento: a fine novembre, la Banca centrale di Finlandia ha diramato un’analisi statistica relativa specificamente al funzionamento, non solo alle normativa, delle “ciambelle di salvataggio” per chi scende sotto il livello di povertà nei 27 dell’EU ed in particolare nell’eurozona. Il divario si sta accentuando: lo studio avverte che è una mina vagante che mette a repentaglio tanto l’Unione quanto l’area dell’euro.
L’agenda del vertice europeo sfiora appena questi temi. L’attenzione dei Capi di Stato e dei Ministri che li accompagnano con il consueto seguito di barracuda-esperti, è concentrata su tematiche immediate, principalmente quelle dell’aumento di capitale della Banca centrale europea (Bce) e della capacità del Fondo Europeo di Stabilizzazione a fare fronte al rischio di insolvenze di “debiti sovrani” nell’area dell’euro – insolvenze che minacciano l’esistenza stessa dell’unione monetaria e, quindi, il processo d’integrazione europea. In questo contesto si pone anche il dibattito sulla desiderabilità ed opportunità di Eurobonds e su come tali “bonds” debbano essere strutturati (se coprire il 100% del valore nominale del debito che andrebbero a riscattare od una percentuale minore), chi debba emetterli, chi sottoscriverli prima che vengano venduti al dettaglio tramite i consueti canali bancari. Questi non sono unicamente problemi di breve periodo: un’analisi dell’autorevole centro studi Bruegel documenta che senza ridurre il fardello del debito (e di quello con creditori esteri in particolare), in Europa, ed in specie nell’area dell’euro, la crescita sarà rasoterra per il decennio che sta per iniziare. Aggravando anche i problemi di coesione sociale.
Tuttavia, proprio il nesso forte (anche se poco visibile nella diplomazia economia europea e nei media) tra il risanamento finanziario e la coesione sociale nell’UE e nell’eurozona, dovrebbe indurre i Capi di Stato e di Governo ad un maggiore equilibrio, nelle loro discussioni al vertice, tra le due categorie di temi e problemi. E’ compito specifico loro, non del codazzo di “barracuda esperti”. Lo auspichiamo.

mercoledì 15 dicembre 2010

Rischi e indici al vertice europeo Il Velino 15 dicembre

ECO - Roma, 15 dic (Il Velino) - Silvio Berlusconi può recarsi soddisfatto al vertice dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea in programma a Bruxelles il 16 ed il 17 dicembre. Meglio presentarsi ai partner dopo avere incassato un voto di fiducia (anche se risicato) che arrivarvi dopo essere stato “sfiduciato” dal Parlamento. Senza dubbio, ove fosse avvenuto e non ci fosse stata una soluzione immediata alla crisi – un’eventualità da considerarsi impossibile a meno di 48 ore del voto - l’Italia sarebbe parsa, a torto o a ragione, sull’orlo dell’ingovernabilità e, quindi, con poca voce in capitolo in una riunione uno dei cui obiettivi principali è l’individuazione di strumenti e risorse per bloccare sul nascere focolai di crisi finanziaria (specialmente della capacità di far fronte alle scadenze del debito). Nella “ventiquattrore” di chi lo accompagna al “vertice” c’è un lavoro ancora in gran parte inedito e particolarmente utile in una fase in cui la agenzie tradizionali di rating non vanno per la maggiore. È una proposta di due giovani economisti italiani, Angelo Baglioni (docente di micro-economia alla Cattolica di Milano) e Umberto Cherubini (docente di matematica finanziaria all’Università di Bologna) su come valutare il rischio sistemico di un sistema bancario ed i suoi effetti sui conti di Pantalone nonché, in ultima istanza, sul debito sovrano.

La proposta è stata testata empiricamente su 414 grandi banche in dieci Stati europei nel periodo gennaio 2007-settembre 2010. È ora presentata in un paper a circolazione limitata (tra gruppi di economisti e specialisti di finanza). Non sappiamo se la delegazione italiana la porrà sul tavolo del vertice. È, tuttavia. utile anticiparne il contenuto anche al fine di aprire un dibattito (gli indici di rischio sono essenziali a qualsiasi tipo di Eurobond ed a qualsiasi sistema di governance nazionale ed europeo). Senza entrare negli aspetti tecnico-statistici (l’indice si basa sui premi di rischio per differenti categorie di CDS (Credit Default Swaps) per tutelarsi da eventuali insolvenze), lo strumento permette di misurare le probabilità dei costi per il Tesoro di uno Stato, derivanti da garanzie implicite di salvataggio date al settore finanziario. L’analisi empirica dimostra che durante la crisi finanziaria, la componente sistemica di rischio di insolvenze bancarie è aumentata in tutti i dieci Stati, tranne la Germania e l’Olanda; è cresciuta moltissimo in Irlanda (ove l’indice fosse stato utilizzato sarebbe stato premonitore e si sarebbero potute prendere, per tempo, le misure appropriate, è aumentato di meno negli altri PIIGS (l’Italia è, nel gruppo, il Paese dove l’indice è rimasto più stabile) ma ha subìto un forte balzo nel Regno Unito (chi lo avrebbe sospettato).

Interessante notare una correlazione tra l’indice di Baglioni e Cherubini e quanto i singoli Governi si sono impegnati in vari piani di salvataggio, tanto europei quanto nazionali. In breve, Irlanda e Germania hanno impegnato più di quanto dovrebbero, mentre l’Italia, sottovalutando i rischi, ha impegnato meno di quanto, in base all’indice, avrebbe dovuto fare. Tutto ciò può sembrare molto tecnico e per iniziati. Ha, però, un significato profondo a cui possono darsi due letture apparentemente divergenti. Da un lato, il nostro sistema bancario, pur polveroso, ha retto abbastanza bene l’urto della crisi. Da un altro, proprio per questo motivo ci potrebbe venir richiesto un contributo maggiore alla “cintura di sicurezza” stabilita per aiutare Paesi dell’eurozona in difficoltà e contenere i rischi di contagio.
(Giuseppe Pennisi) 15 dic 2010 09:53
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lunedì 13 dicembre 2010

UN RADICALISMO ILLUMINATO AL SERVIZIO DEL SINGOLO Charta minuta dicembre 2010

UN RADICALISMO ILLUMINATO AL SERVIZIO DEL SINGOLO
Giuseppe Pennisi
Il pensiero e l’azione economica delle due Amministrazioni Reagan si distinsero dalle altri per un “radicalismo liberale” tutt’altro che tipico del Partito Repubblicano Usa in generale e della stessa cultura liberista americana in particolare. Tale cultura ha sempre avuto radici moderate in cui il favore per le libertà di mercato era accompagnato da un forte senso d’intervento pubblico (a livello federale) in materia di difesa, di ordine pubblico e di tutela delle risorse naturali , nonché (a livello dei singoli Stati dell’Unione ed ancora di più di enti territoriali decentrati come le contee) di afflati “comunitari” (che in Europa continentale verrebbero, invece, considerati caratteristici della sinistra) per la produzione e la gestione di beni sociali come la scuola. Il “radicalismo” del pensiero e dell’azione Reaganiana si allacciava , in gran misura, alla visione libertaria di Murray Rothbard, sino ad allora fortemente minoritaria negli stessi ambienti politico culturali più liberisti o, per usare un termine coniato di recente, mercatisti.
Lo si vede in due tratti poco noti in Europa continentale, ed in particolare, in Italia. Il primo è il confronto con la “rivoluzione liberale” che, nello stesso arco di tempo, Margaret Thatcher stava portando avanti in Gran Bretagna: mentre nel Regno Unito, pochi aspetti di grande visibilità (ad esempio, lo scontro con i sindacati dei minatori) venivano accompagnati da molti piccoli passi nelle materia più sensibili che costituivano i nervi ed il cuore dell’economia e della società (ad esempio, come ricordato da Paul Pielson in un suo libro fondamentale sulle esperienze Reagan-Thatcher in materia di riassetto del welfare state ,le modifiche della legislazione sul lavoro vennero annidate nelle pandette di una quarantina di leggi e leggine che unicamente giuristi davvero esperti sarebbero stati in grado di scoprire e comprendere), negli Stati Uniti sin dal primo “Messaggio sullo Stato dell’Unione” di Ronald Reagan venne iniziato un “nuovo federalismo” spostando competenze dall’Amministrazione federale agli Stati dell’Unione, con l’invito che questi ultimi , a loro volta, li passassero alle Contee e così via. Un ritorno “radicale”, quindi, agli Stati Uniti quali concepiti dai Padri Fondatori – molto più spinto di qualsiasi “principio di sussidiarietà”, mutuato dalla Repubblica Federale Tedesca, introdotto alla fine degli Anni Ottanta tra i cardini dell’Unione Europea. Ciò avrebbe consentito ai poteri federali di concentrarsi sui suoi “compiti propri”: difesa internazionale, sicurezza interna (in caso di reati “inter-statuali”), tutela delle risorse naturali. Tranne che in poche materie integrate per motivi tecnici (ad esempio, i mercati finanziari), la tutela della concorrenza, le liberalizzazioni, e via discorrendo diventano competenza dei singoli Stati dell’Unione e, spesso, trasferiti da questi ultimi alle contee. Ciò venne attuato non con una riforma della Costituzione ma attuando “radicalmente” quando definito nel 1787 a Philadelphia. Un ritorno, quindi, al futuro.
Il secondo tratto “radicale” fu l’attenzione alla micro-economia, ossia al corretto funzionamento dei mercati e dello stesso intervento pubblico quando chiamato a correggere quelle che noi economisti chiamiamo “imperfezioni di mercato” (esistenza di beni pubblici e di beni sociali, asimmetrie informative e posizionali, effetti esterni, interdipendenze,e via discorrendo). Nei primi mesi dopo l’insediamento, l’Amministrazione Reagan adottò una misura, approvata rapidamente (e senza accorgersi della portata) dal Congresso. Da allora (sono passati trent’anni) nessun Presidente e nessun Congresso ha proposto di modificarle: qualsiasi provvedimento federale (leggi, regolamenti, investimenti) deve essere accompagnato da un’attenta analisi dei costi e dei benefici finanziari ed economici. Non si “affamava la bestia”, ma si metteva una camicia di forza a burocrazie con l’innata tendenza a diventare tentacolari , con inevitabili conseguenze per la dilatazione della spesa pubblica. Nel suo “totalitarismo” (si applicava e si applica ancora anche al regolamento più minuto) era , ed è, una misura “radicale” di limitazione dell’intervento pubblico a campi, grandi o piccoli, in cui non riesce a dimostrare, in modo quantitativo, che i benefici della mano pubblica superano i costi.
Questi due aspetti non furono il frutto di elaborazioni di cenacoli di economisti – quali i “Chicago Boys”- ma del gruppo di amici con cui David Stockman, deputato a 31 anni e Ministro del Bilancio a 34, si riuniva la sera non nel proprio disordinatissimo mini-appartamento ma in un saletta di un bar-trattoria, in effetti la ricostruzione di un saloon texano (“Mr. Smith”) di Georgetown, a pochi passi dalla Casa Bianca. Stockman (che si sarebbe dedicato alla finanza, una volta lasciata la politica) era un “clean cut red-blooded” texano di bell’aspetto e vivace cordialità, aveva studiato all’Università del Michigan un po’ tutto ed un po’ niente ma aveva preso un dottorato in teologia a Harvard. Masticava poco di economia ma con una forte intelligenza intuitiva e la destrezza analitica che si acquista diventando un teologo, aveva, con i suoi giovani amici, afferrato i punti essenziali per una “rivoluzione liberale radicale”.
Meno “radicali” gli altri aspetti della politica economica reaganiana, pur se più noti in Europa, ed affidati al Tesoro ed alla Federal Reserve. La strategia macro-economica di base adottata nel 1981 si rifaceva ad un teorema elaborato da Robert Mundell quando, negli Anni Sessanta, viveva a Bologna dove insegnava a tempo pieno alla Università Johns Hopkins. Il teorema- chiamato “del ragù alla bolognese” dimostrava, matematicamente, la possibilità di dilatare il disavanzo pubblico, al fine di promuovere la crescita, senza generare inflazione in presenza di una politica monetaria restrittiva, come quella adottate negli Usa dall’ottobre 1979. La dilatazione del disavanzo avvenne, sempre seguendo il teorema “del ragù alla bolognese”, non per aumento della spesa pubblica ma per drastico, “radicale”, riduzione delle tasse.
Il deficit del bilancio federale assunse dimensioni tali che nel 1985, venne approvato il Gramm-Rudman-Hollings Balanced Budget and Emergency Deficit Control Act, che postulava il pareggio di bilancio (peraltro mai ottenuto) con strumenti analoghi a quelli mutuati, in Europa, qualche anno dopo con il Trattato di Maastricht e, successivamente, con il patto di crescita e di stabilità (ora in corso di revisione). Come da teorema, il “ragù alla bolognese” ebbe gli effetti auspicati: la riduzione della pressione fiscale e la dilatazione del disavanzo, neutralizzate da una politica di rigore monetario, furono la leva della forte crescita macroeconomica Usa dalla metà degli Anni Ottanta alla crisi del 2007.
Quasi contemporaneamente al varo della legge Gramm-Rudman-Hollings sul pareggio di bilancio, il primo agosto 1985 Stockman diede le dimissioni dal proprio incarico. Le due misure “radicali” da lui proposte – il “nuovo federalismo” e l’analisi dei costi e dei benefici finanziarie di qualsiasi misura di politica pubblica – sarebbero rimaste e sarebbero diventate parte del DNA dell’Amministrazione Usa, qualche che fosse la connotazione politica dell’inquilino della Casa Bianca e la maggioranza prevalente in Congresso.
La matrice “colbertista” della destra liberale dell’Europa continentaleJean- Baptiste Colbert non ha lasciato alcun scritto di economia (di altro); Ministro delle Finanze di Luigi XVI ha , però, firmato decine e decine di decreti, i quali hanno formato il “corpus” del “colbertismo” , una scuola di pensiero favorevole dapprima all’intervento pubblico in materia di commercio con l’estero e gradualmente nel resto dell’economia. In Europa continentale, il liberismo è stata una merce che ha avuto una breve stagione di popolarità in quanto anche la fase dell’industrializzazione trionfante nel Diciannovesimo Secolo è stata marcata da una presenza dello Stato tanto forte e tanto pregnante quanto la capacità d’imporre tributi e regolamenti e di farli osservare. In linea di massima, in Europa continentale il liberismo è stata una parentesi tra il “colbertismo” delle varie “destre” e l’allora nascente movimento socialista (nelle sue più diverse configurazioni), parentesi associata alla prima “globalizzazione” convenzionalmente definita tra il 1870 ed il 1910 e spinta dalla rivoluzione tecnologica nella manifattura e nei trasporti e dalle innovazioni dovute all’elettricità. I Padri Fondatori degli Stati-Nazioni europee (Francia, Germania ed anche Italia) erano “colbertisti” anche senza saperlo: in Italia, ad esempio, la breve esperienza liberale dell’età giolittiana terminò con lo “scandalo della Banca Romana” a cui la stessa “Destra Storica” reagì con misure fortemente interventiste; in Francia la fase liberista della Terza Repubblica affondò con lo scandalo Stavinski.
Interessante notare le profonde differenze con cui Europa continentale e Stati Uniti risposerò alla “Grande Depressione” degli Anni Trenta. In Europa, venne perseguita una politica di salvataggi di imprese e di banche in difficoltà; in Italia, dove era al Governo la “destra”, ciò portò alla creazione dell’Iri; in Germania al controllo dello Stato su gran parte dell’industria pesante ed a privatizzaioni selettive per ingraziarsi alcuni settori della finanza; in Francia, andò al Governo il Fronte Popolare che teorizzò ed attuò una strategia di nazionalizzazioni; in Spagna, dopo una guerra cruenta, non si tornò al passato liberismo monarchico ma venne messo in piedi un sistema economico “corporativo”, con intervento pubblico pregnante, ad imitazione di quello italiano. Negli Stati Uniti, invece, quando andò al Governo la “sinistra” rooselvetiana, il “New Deal” portò unicamente alla creazione di un sistema federale di autostrade (ancora in vigore e ben funzionante) ed ad una rete di accordi tra Stati ed enti locali (simili ai “patti territoriali” dell’Italia del primo scorcio del Ventunesimo Secolo) per la valorizzazione di alcune aree (quali quella del Tennessee).
Se non si tiene conto di queste profonde differenze, non si comprende perché gli economisti liberisti di Vienna e di Losanna emigrarono prima in Gran Bretagna e poi negli Usa. Non si comprende, a maggior ragione, perché, pur affascinati dalla “rivoluzione reaganiana”, le “destre” europee non ne percepiro il “radicalismo” e non se ne compresero i passaggi fondamentali.
In Italia, in particolare, il problema centrale della politica economica degli Anni Ottanta era ben differente da quelli che preoccupavano l’Amministrazione Reagan: riguardava il rientro dall’inflazione (che alla fine degli Settanta aveva toccato tassi annuali di due cifre) mantenendo un saggio adeguato di crescita ed un buon grado di coesione sociale per evitare di ricadere in una nuova “notte della Repubblica”. Vennero tentate varie misure di freno alla spesa pubblica con risultati alterni sull’avanzo primario (essenziale a ragione del forte peso del servizio del debito pubblico), ma le misure essenziali riguardarono la riforma dell’indicizzazione salariale, su cui venne anche fatto un referendum.
Si cercò, in vario modo, di trovare una versione all’italiana della legge Gramm-Rudman-Hollings, con i vari “piani di rientro” (iniziati a cavallo tra gli Anni Settanta e gli Anni Ottanta) dal deficit e dallo stock di debito pubblico, ma il Governo cadde nell’estate 1986 proprio quando si era giunti ad un accordo tecnico tra gli specialisti dei cinque partiti allora all’Esecutivo ed il successivo non ne fece più nulla in quanto, sostanzialmente, ebbe pochi mesi di vita prima di una nuova tornata elettorale. Il tentativo di introdurre l’analisi costi benefici per l’analisi di una piccolissima parte dell’investimento pubblicò (con il progetto di estenderlo gradualmente al resto della spesa pubblica in conto capitale), finì miseramente. Curiosamente in Francia, dove , per gran parte degli Anni della Reaganeconomics, l’inquilino dell’Eliseo era un socialista e si nazionalizzano banche ed alcune grandi imprese, uno degli aspetti “radicali” della “rivoluzione reaganiana” venne recepito (e restò in vigore per una quindicina d’anni):il “programma des choix budgettaires” (“programma delle scelte di bilancio”) in cui si mettevano a confronto (anche pubblico) Ministeri sulla base della qualità delle proprie analisi economiche sottostanti le scelte di bilancio. In breve, qualcosa molto simile a quanto Reagan, sotto l’impulso di Stockman, aveva introdotto nella pubblica amministrazione federale americana.
Ciò non vuole, però, dire che l’esperienza non lasciò neanche un seme. Il vento dall’Atlantico soffiava e sarebbe arrivato , anche se in ritardo, in Europa e nella stessa Italia. Rendendone meno “colbertista” la destra.
La Reaganeconomics a scoppio ritardato A dare l’avvio a programmi di riforme, in parte modellati sull’esperienza americana, fu la decisione di dare vita all’unione monetaria e di trovare regole comune in materia di bilancio e di concorrenza (la politica monetaria veniva trasferita ad un’autorità sovra nazione, il Sistema Europeo di Banche Centrali con proprio perno la Banca Centrale Europea) e la successiva crisi finanziaria che travolse Stati (in particolare l’Italia) non ritenuti, dai mercati internazionali, in grado di fare fronte agli impegni assunti con il Trattato di Maastricht.
In effetti, le misure adottate dal Governo Amato tra il luglio 1992 e il gennaio 1993 recepivano in parte del vento proveniente d’Atlantico, specialmente in materia di drastiche riforme alla spesa sociale (in particolare alla previdenza) e di regolazione del mercato del lavoro.
Il “radicalismo” della Reaganeconomics plasmava in buona misura il programma della “Casa della Libertà” che, con un doppia alleanza di Forza Italia (al Nord con la Lega, al Centro-Sud con Alleanza Nazionale) vinse inaspettatamente le elezioni –un segnale che la società italiana era pronta a recepire aspetti di fondo della Reaganeconomics più di quanto non pensassero i think tank prevalenti e soprattutto quella che veniva definita la grande stampa borghese. La stagione fu breve e terminò proprio su un test da Reaganeconomics: ulteriori riforme previdenziali tanto necessarie da essere successivamente varate da un Esecutivo formalmente “tecnico” ma con il supporto parlamentare della sinistra.
Nel periodo 1996-2001 in cui le “destre” erano all’opposizione, presero vita cenacoli di varia intonazione (dalla Fondazione Ideazione all’Osservatorio Parlamentare, dall’Istituto Bruno Leoni, all’Istituto Acton) , in cui le caratteristiche “radicale” della Reaganeconomics diventarono oggetto di analisi e di dibattito, con particolare attenzione a come potessero trasferiti nel pensiero e nella politica economica italiana. Il “patto con gli italiani” del 2001 e “le sette missioni” del 2008, pur se non “radicali” quanto il succinto ma denso programma elettorale del 1994 mostravano un centro-destra liberal-liberista (pur se con sfumature contrarie al “mercatismo”) anche in quanto aveva subito una scissione da parte della componente più marcatamente “colbertiana”.
I nodi di politica economica dell’Italia (il divario Nord-Sud, l’elevato stock di debito pubblico, le conseguenze dell’invecchiamento della popolazione, la bassa produttività) restavano profondamente differenti da quelli degli Stati Uniti, caratterizzati da popolazione giovane, alta produttività, fortissimo indebitamento delle famiglie e delle imprese, divari sociali non chiaramente connessi ad aree territoriali, un dilagante disavanzo dei conti con l’estero. Ciò nonostante, alcuni aspetti della “Reaganeconomics” incisero (tardivamente) non solo sui programmi ma anche sull’azione di politica legislativa.
I settori dove stanno lasciando maggiormente il segno riguardano le denazionalizzazioni (o privatizzazioni) e le riforme del welfare . Hanno inciso, anche in parte, sulle riforme della pubblica amministrazione (in specie quelle per migliorarne efficienza ed efficacia). Non hanno avuto effetti di rilievo sulla politica di bilancio (data la profonda differenza di problemi da affrontare) e non hanno avuto che effetti declamatori i tentativi di introdurre misure di analisi micro-economica (quali l’analisi costi benefici) come strumento per valutare e selezionare l’azione pubblica.
In sintesi, in materia di de-nazionalizzazioni, occorre distinguere due fasi: quella dal 1992 al 1995 di preparazione degli strumenti e quella dal 1995 ad oggi di effettiva realizzazione delle privatizzazioni. Nonostante le profonde differenze di ruolo del settore pubblico nell’economia americana ed italiana e di assetto istituzionale in generale, la fase 1992 – 1995 (in cui si sono succeduti due Governi “tecnici” ed uno di centro-destra) ha mutuato alcuni aspetti (non necessariamente quelli “radicali”) da esperienze d’oltre-Atlantico e d’oltre-Manica. Seguo in dettaglio la materia dal 2001 pubblicando ogni anno un saggio nel rapporto dell’Associazione Società Libera Processi di Liberalizzazioni in Italia – a cui rimando. Mentre le “partecipazioni statali” sono sostanzialmente terminate (non sempre lo si è fatto seguendo percorsi lineari), molto resta da fare in materia di servizi pubblici locali , specialmente di “capitalismo municipale”. In materia, il provvedimento più marcato dalla Reaganeconomics è la recente “Legge Ronchi” in cui sostanzialmente si recepisce normativa dell’Unione Europea (non molto differente da quella adottata negli Anni Ottanta negli Stati Uniti).
In materia di welfare, le successive riforme della previdenza pubblica, soprattutto le più recenti che collegano spettanze a aspettativa di vita alla nascita, vanno nella direzione del full funding della social security Usa , una parte integrante della Reaganeconomics, realizzata soltanto in parte ma confermata anche dall’Amministrazione Obama.
In materia di mercato del lavoro, le varie leggi di riassetto (dal pacchetto Treu alla legge Biagi), pur se non specifiche alla destra ma riflesso di profondi cambiamenti nella società italiana, possono considerarsi una premessa per una più vasta riforma che elimini gli steccati tra “chi è dentro” (con contratti a tempo indeterminato) e “chi è fuori” (con la cinquantina di contratti a termine previsti dalla Legge Biagi) – passo importante per ridurre discriminazioni ed offrire a tutti le stesse opportunità.
L’aspetto più importante , però, è ancora in itinere: riguarda il federalismo. Con vent’anni di ritardo vale la pena guardare al “nuovo federalismo” del “Messaggio sullo Stato dell’Unione” del 1981, con il suo afflato , da un lato, sulla devoluzione e, dall’altro, sul “capitale sociale” a livello comunitario e sui relativi vincoli e controlli sociali all’azione pubblica, posti là dove meglio funzionano.

De Vroey M. Gettinng Rido of Keynes? A Survey of the History of Macroeconomics from Keynes to Lucas and Beyond, National Bank of Belgium Working Paper No. 187, Bruxelles 2010
Edwards Ch. Downsizing the Federal Government Cato Policy Analysis No. 515 , Washington 2009
Gaoven A.B., A-Niaz Z. The Global Economic Crisis and the Future of Neoliberal Globalization: Rupture Versus Continuity Koc University, 2010
Malloy R.P. Adam Smith in the Courts of the United States Loyola Law Review No. 3 2010
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Sill, Igor "Looking at Reaganomics, Yet One More Time" Topix, 2009
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Giuseppe Pennisi, consigliere del Cnel e professore emerito della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, è docente all’Università Europea di Roma ed al Link Campus dell’Università di Malta. E’ consigliere scientifico di varie istituzioni, tra cui la Cassa Depositi e Prestiti

domenica 12 dicembre 2010

URGONO RIMEDI EFFICACI AI DIFETTI DI MAASTRICHT Avvenire 12 dicembre

URGONO RIMEDI EFFICACI AI DIFETTI DI MAASTRICHT
Giuseppe Pennisi
Nel settembre 1991 rientravo con la famiglia dalla Francia. Avevamo già stipato la macchina, dato che, al cambio, i prezzi in franchi francesi sembravano molto convenienti rispetto a quelli in lire per merci analoghe in vendita in Italia. Comprammo un portabagagli da mettere sul tetto e facemmo un’ultima ondata di spese (anche di alimentari di lunga conservazione) a Mentone prima di varcare la frontiera di Stato.
Questo episodio, simile a quelli di tante famiglie italiane in vacanza all’estero in quella estate, spiega meglio di tanti grafici ed equazioni il malessere di oggi nell’area dell’euro. Cosa era successo nei mesi precedenti? E cosa avvenne negli anni successivi?. Semplice, nel gennaio 1990, al tredicesimo riallineamento del Sistema monetario europeo (Sme) dalla sua creazione ,la lira era stata rivalutata del 4% rispetto alle altre monete. In ottobre, nonostante avessimo un tasso d’inflazione più alto della media Sme, lasciammo la fascia ampia di oscillazione (6%) per entrare in quella stretta (2,25%), più prestigiosa ma anche impegnativa per un Paese abituato a gestire la svalutazioni del cambio per favorire le esportazioni. Buon senso avrebbe richiesto di abolire prima quel che restava dei controlli valutari, aspettare qualche settimana per vedere a che livello la lira si sarebbe assestata e, solo allora, entrare nella fascia stretta. Invece, quel passo venne compiuto da una lira sovrapprezzata e che a ragione del differenziale d’inflazione, si sarebbe sovrapprezzata ancora di più. Tanto che era diventato conveniente comprare la polpa di pomodoro in scatola fuori dai confini nazionali.
In buona sostanza, c’eravamo fatti male da soli. E non eravamo gli unici a saperlo. Quando, infatti, nel 1991 siglammo il Trattato di Maastricht, i mercati si fecero una risata, che ci costrinse ad uscire dallo Sme ed a deprezzare la lira del 30%. Avremmo potuto correggere l’errore quando rientrammo nello Sme, nel 1996? Purtroppo ci trovammo nella condizione di chiedere con il cappello in mano di essere riammessi nel club, e la regola di base del negoziato di Maastricht prevedeva che i cambi non fossero oggetto di trattativa: i rapporti tra le monete di chi aspirava di far parte dell’unione monetaria sarebbero stati quelli fissati nel 1990. Fu quindi una lira “sovrapprezzata” riguardo al suo reale valore del momento quella che lasciò il posto all’euro. Per compensare lo svantaggio, avremmo dovuto applicare una terapia d’urto in materia di finanza pubblica e di politica dei prezzi e dei salari per avere tassi di aumento della produttività e della competitività maggiori di quelli degli altri, recuperando, così, lo svantaggio di cambio. Non lo abbiamo fatto: dal 1991 ad oggi la quota del “made in Italy” sul mercato mondiale si è dimezzata (dal 6% al 3%).
Un prezzo elevato per il nostro sistema produttivo quello del cambio lira-euro con il quale – vale la pena sottolinearlo – la Germania si è pagata parte dei costi della riunificazione. Siamo in compagnia: Spagna e Portogallo hanno commesso errori analoghi, mentre l’Irlanda ha avuto una breve stagione di euforiche illusioni, mentre la Grecia ha manipolato i conti.
Non è possibile rimettere l’orologio indietro di vent’anni. Non è neanche possibile uscire dall’area dell’euro: oltre alla perdita di prestigio internazionale, ci costerebbe il 5% del Pil ed il tasso di disoccupazione andrebbe alla stelle prima di un’eventuale ma assai poco probabile ripresa economica.
Un’implosione dell’unione monetaria fa paura a tutti, nonostante non si riesca a sanare i debiti sovrani di Stati al limite dell’insolvenza. Ma, piuttosto che ostentare serenità, varrebbe la pena aprire un dibattito su come rimediare ai difetti di Maastricht, anche curando i malanni che alcuni Stati membri si sono fatti da soli ma oggi sono un potenziale siluro per l’intera area.

sabato 11 dicembre 2010

Come affinare il piano Amato&co. per “crescita nella stabilità” in Ue Il Velino 10 dicembre

ECO - Come affinare il piano Amato&co. per “crescita nella stabilità” in Ue

Roma, 10 dic (Il Velino) - A pochi giorni dal Consiglio dei capi di Stato di governo dell’Ue (16-17 dicembre), Giuliano Amato ha inviato – con una piccola ma autorevole schiera di economisti (Richard Baldwin del Cepr; Daniel Gros del Ceps; Stefano Micossi di Assonime, Pier Carlo Padoan dell’Ocse) – una lettera-programma al presidente del Consiglio europeo Hermann Van Rompuy su come promuovere lo sviluppo economico senza rinunciare al riassetto dei conti pubblici. Perfetta la tempistica. Il leitmotiv della lettera sembra echeggiare l’antico slogan della DC “crescita nella stabilità” o, se si vuole, il tema di fondo della politica economica degli Anni Ottanta (ricordato in un recente libro curato da Gennaro Acquaviva) – la sconfitta dell’inflazione e il rientro dal debito (vi ricordate i “piani” Pandolfi, Andreatta, Goria e via “tentando di rientrare”?) stimolando simultaneamente la crescita. In effetti, se l’Europa non cresce, resta schiacciata dal debito aggravatosi dal 2007. Lo ricorda anche uno dei pochi “radical economists” ancora su piazza, Steve Keen. Il piano è, per molti aspetti, ineccepibile: un “patto politico” per “la crescita nella stabilità”, un nuovo meccanismo per la gestione delle crisi, rigore nei conti pubblici, liberalizzazioni (specialmente dei servizi) e grandi infrastrutture. Come tutti i piani “ineccepibili” rischia o di restare nel limbo delle buone intenzione oppure, per fare contenti tutti, di essere caricato di orpelli e, in parallelo, annacquato. è, però, un punto di partenza che può diventare più mordente (e più efficace).

In primo luogo, è difficile comprendere perché l’attuazione del “patto politico” debba essere certificata da un’Autorità indipendente. Non solo l’Europa e i singoli Stati dell’Unione pullulano di Autorità nominalmente indipendenti, della cui efficacia è legittimo dubitare. Soprattutto, però, se il patto è “politico”, la “politica” non può e non deve scansare la responsabilità di verificarne l’attuazione (anche con sanzioni automatiche nei confronti di chi sgarra). Nel lessico internazionale sarebbe un cop out. Che la Politica, con la “P” maiuscola, pagherebbe caro in termini di disaffezione da parte dei cittadini.

In secondo luogo, le proposte in materia di gestione delle crisi rappresentano un miglioramento rispetto a quanto fatto di recente per la Grecia e l’Irlanda poiché delineano un meccanismo che tutela i depositanti assicurati ma penalizza quei crediti che alla ricerca di utili elevati hanno accettato un grado di rischio anche esso elevato. È davvero necessario, un Fondo monetario europeo (la cui istituzione comporterebbe anni di negoziati e che potrebbe venire in conflitto con il Fondo monetario internazionale, Fmi)? Perché non fare ricorso per stabilizzare i mercati proprio all’Fmi, evitando una costosa e inefficiente proliferazione di strumenti regionali in varie aree del mondo?

In terzo luogo, la liberalizzazione dei servizi – correttamente vista come veicolo per attivare la crescita – richiede una sospensione del “principio di sussidiarietà” poiché sono regolamentati specialmente a livello locale. Morderebbe ancora di più se accompagnata da un regolamento europeo di “sunset regulation”- ogni legge o regolamento “tramonta” dopo un certo numero di anni, se non ri-approvata dall’autorità competente.

In quarto luogo, difficile comprendere perché si debba creare una Superbanca dalla fusione di Bei e Bers (altro obiettivo a lunghissimo termine e difficilmente realizzabile) per l’emissione di Eurobond per il finanziamento di grandi infrastrutture – differenti da quelli proposti da Giulio Tremonti e Jean- Claude Juncker, ma affini a quelli delineati negli Anni Sessanta da Alexandre Lamfalussy, negli Anni Settanta da da François-Xavier Ortoli e negli Anni Ottanta da Jacques Delors. Al contrario, dato che si tratterebbe di “project bonds”, la concorrenza tra emittenti dovrebbe essere incoraggiata, in modo da premiare, in linguaggio, shakespeariano the quality of lending – ossia il portafoglio progetti finanziati.

(Giuseppe Pennisi) 10 dic 2010 18:35

giovedì 9 dicembre 2010

ECCO I TEATRI CHE FUNZIONANO BENE ANCHE SENZA I QUATTRINI DELLO STATO Il Foglio 10 dicembre

ECCO I TEATRI CHE FUNZIONANO BENE ANCHE SENZA I QUATTRINI DELLO STATO
Giuseppe Pennini
Daniel Barenboim ama i tempi dilatati. Pochi maestri concertatori sono in grado di dare al primo atto, come il 7 dicembre alla Scala, de “La Valchiria” il tocco di Kammerspiel (opera da camera) come voluto da Wagner . Tempi dilatati, però, vuole dire non accorgersi dei cambiamenti in atto. La dieta in corso da qualche tempo (e probabilmente destinata a prolungarsi per anni) fa in certe condizioni bene alla cultura ed in particolare alla spettacolo dal vivo. Sta incoraggiando, ad esempio, le coproduzioni internazionali con benefici e artistici e finanziari- derivanti non tanto dall’utilizzazione più intensa di scene e costumi quanto dal fatto che la globalizzazione, in particolare, della “musa bizzarra ed altera” (l’opera lirica) implica cachet più bassi (per ciascuna rappresentazione) e rompe l’oligopolio di alcune agenzie.
Questa sera, 10 dicembre, ricorrono i cento anni dalla prima rappresentazione de “La Fanciulla del West” – New York con la bacchetta di Toscanini e due grandi voci (Emma Dustinn e Enrico Caruso). Il Teatro Massimo di Palermo (una delle poche fondazioni risanatasi senza interventi speciali di Pantalone) lo celebra con la “prima” di una coproduzione con la San Francisco Opera e l’Opéra Nationale de Wallonie. La settimana prossima, a Verona salpa un nuovo allestimento de “La Vedova Allegra” co-prodotto con Trieste, Napoli e Genova. L’anno viene chiuso , a Roma, con uno spettacolo su musiche di Bizet e coreografie di Roland Petit, nato alla Scala e che aprirà il 2011 a Bari. Sempre a Roma, il nuovo anno viene aperto dalla prima europea di “A view from the bridge” di Bolcon in collaborazione con il Lyric Theatre di Chicago. Pochi giorni più tardi, di nuovo Palermo lancia un’attesa prima mondiale “Senso” di Tutino (dalla novella di Boito) in coproduzione con Bologna e Varsavia. L’ideale sarebbe giungere ad un cartellone “nazionale” tra le 13 fondazioni liriche (i circuiti regionali già lo stanno facendo). Verrebbe incentivato se i regolamenti ministeriali imponessero un numero minimo di co-produzione – in un Paese a forma di stivale come l’Italia dove il pubblico non si muove ma si possono muovere gli spettacoli sarebbe ragionevole pensare ad un buon 70 per cento- unitamente a premi a chi razzola bene e penali a chi persegue le vecchie cattive abitudini.
Inoltre, il buon Barenboim non sa che da oltre 15 anni, quale che sia il Governo ed il Ministro, il MIBAC accumula residui in “contabilità speciali”. Il 13 dicembre, il Consiglio Superiore è stato chiamato a riflettere sul tema sulla base di uno studio non ancora trasmesso alle 17 del 9 dicembre.

martedì 7 dicembre 2010

Valchiria riempie la Scala in Milano Finanza 8 dicembre

Musica L'opera di Wagner ha inaugurato la stagione scaligera. Direzione rigorosa di Barenboim
Valchiria riempie la Scala
La regia di Guy Cassiers lascia perplessi. Di ottimo livello il cast di attori

di Giuseppe Pennisi


La Scala ha inaugurato ieri la stagione lirica 2010-2011 con La Valchiria di Richard Wagner nell'ambito del progetto, coprodotto con la Staatsoper Unter Den Linden di Berlino, che persegue l'intento di mettere in scena una nuova edizione dell'intero Anello del Nibelungo entro il 2013, bicentenario della nascita del compositore.
La direzione musicale di Daniel Barenboim è rigorosa e passionale, mentre la scelta registica di Guy Cassiers non convince del tutto.
Delle opere che compongono la tetralogia, La Valchiria, alla Scala fino al 2 gennaio, è la più frequentemente rappresentata, anche al di fuori del ciclo. In primo luogo, è opera compatta: tre atti, ciascuno di un'ora e venti minuti circa nonché diviso, sotto il profilo drammaturgico e musicale, in tre parti distinte (nonostante il continuo flusso sinfonico orchestrale). In secondo luogo, racconta una storia d'amore come nella tradizione operistica più antica, anzi molteplici storie d'amore intrecciate. Le vicende sentimentali principali sono lo stupro di Sieglinde da parte del sadico Hunding, la passione totalizzante ma innocente, nonostante sia adultera e incestuosa, tra Siegmund e Sieglinde, il rapporto coniugale consunto tra Wotan e Fricka, nonché l'amore paterno, materno, fraterno e filiale tra tutti i principali protagonisti. L'intreccio di amori è frammisto a una vicenda di potere, ambientata sia nel mondo degli Dei sia in quello degli uomini. La Valchiria è poi lavoro denso di azione; se si eccettua il monologo di Wotan al secondo atto (15 minuti di tormento per i registi), le vicende avvengono sulla scena e comprendono tanto slanci appassionati quanto battaglie. Il lavoro, inoltre, è ancorato per molti aspetti alla convenzione dell'opera romantica tedesca nella scrittura sia orchestrale sia vocale. La scrittura comporta equilibri delicatissimi sia nel golfo mistico sia nelle voci. Il sinfonismo è il vero protagonista: l'orchestra ha infatti un grande organico e questa massa strumentale permette la più ampia prospettiva sonora. Sotto il profilo vocale, il declamato si accompagna a clamorose espressioni liriche, quali la scena di passione tra Siegmund e Sieglinde nel primo atto e lo struggente dialogo tra Brünnhilde e Wotan che chiude l'opera. Gli aspetti musicali di questa edizione sono di alto livello. Daniel Barenboim frena leggermente la propria tendenza a dilatare i tempi e si attiene con trasparenza, rigore e passione alla partitura, dandole un'intonazione lirica e sottolineando, nel primo atto, gli aspetti di «opera da camera». Tra gli interpreti giganteggiano Nina Stimme (Brünnhilde), Vitalij Kowaljow (Wotan) e Ekaterina Gubanova (Fricka). Waltraud Meier (Sieglinde) e Simon O'Neill (Sigmund) scansano le difficoltà con abilità tecnica ed evitano gli acuti più impervi. Di John Tomlinson è meglio ricordare il glorioso passato. La regia di Guy Cassiers (autore, con Enrico Bagnoli, anche delle scene) lascia perplessi, anche se è meno confusa di quella dell'Oro del Reno, prima opera del ciclo, presentata lo scorso maggio. Il palcoscenico non è più affollato da danzatori e mimi, ma è, per contro, costantemente al buio, mentre l'opera ha momenti decisamente solari. I costumi atemporali, con le Valchirie in vesti di lutto stile primo Novecento, non agevolano la comprensione del testo. (riproduzione riservata)

Una “Valchiria” intimista inaugura la Scala in Il Velino 8 dicembre

Il Velino presenta, in esclusiva per gli abbonati, le notizie via via che vengono inserite.

SPE - Una “Valchiria” intimista inaugura la Scala


Roma, 7 dic (Il Velino) - Il ricco cartellone della stagione 2010-2011 del Teatro alla Scala (il solo teatro italiano con un livello di produzione analogo a quello dei teatri tedeschi) è stato inaugurato da “ La Valchiria ” di Richard Wagner. La scelta rientra nel progetto, coprodotto con la Staatsoper Unter Den Linden di Berlino, di mettere in scena una nuova edizione dell’intero “Anello del Nibelungo” entro il 2013, bicentenario della nascita del compositore. Delle quattro opere che compongono “L’Anello del Nibelungo”, “ La Valchiria ”è quella più frequentemente rappresentata al di fuori dal resto del ciclo. Ci sono varie spiegazioni. In primo luogo, è relativamente compatta: tre atti, ciascuno di un’ora e venti minuti. Inoltre, racconta una storia d’amore come nella tradizione operistica più antica. Anzi, molteplici storie d’amore sovrapposte : lo stupro di Sieglinde da parte di Hunding; la passione totalizzante di Siegmund e Sieglinde; l’ormai decotto rapporto coniugale tra Wotan e Fricka; l’amore paterno di Wotan per Siegmund, Siglinde e soprattutto per Brunnhilde; l’amore filiale di Brunnhilde per Wotan; il rapporto tra Brunilde, le sue sorelle e i suoi fratellastri. L’intreccio amoroso è frammisto a una complessa vicenda di potere: anche il potere è da sempre ingrediente essenziale della tradizione del teatro in musica. In terzo luogo, le vicende avvengono in scena (comprendendo sia slanci appassionati che battaglie) e non tramite racconti come nelle altre opere della tetralogia wagneriana. Infine, “ La Valchiria ” è ancorata per molti aspetti alla convenzione dell’opera romantica nella scrittura sia orchestrale sia vocale. Tuttavia la scrittura comporta equilibri delicatissimi.

Il sinfonismo è protagonista: l’orchestra ha un grande organico con flauti, oboi e clarinetti a quattro, fagotti a tre, otto corni di cui quattro alternati con le tube, quattro tromboni, basso tuba, sei arpe, timpani, percussioni e ben 62 archi. Questa massa strumentale permette la più ampia delle prospettive sonore, ma anche la più intimista, quasi cameristica. Sotto il profilo vocale, il declamato di varia tensione si accompagna a clamorose espressioni liriche (quali la scena di passione tra Siegmund e Sieglende al primo atto e lo struggente dialogo tra Brunnhilde e Wotan nel finale dell’opera). Come nelle altre opere del ciclo, la direzione musicale è affidata a Daniel Barenboim e quelle drammaturgica a Guy Cassiers (le scene sono di Enrico Bagnoli, i costumi di Tim Van Steenbergen) del gruppo di avanguardia Toneelhuis di Aversa. Occorre dire che dopo due inaugurazioni problematiche (quelle del 2008 e del 2009), questa volta il successo è stato pieno, come si è potuto notare sin dall’anteprima per i giovani il 4 dicembre scorso. Il successo, soprattutto, è stato maggiore di quello raccolto a Milano da “L’oro del Reno” lo scorso maggio specialmente a ragione della regia (con annesse scene e costumi, nonché mimi e danzatori).

Ne “ La Valchiria ” milanese non ci sono gli eccessi di un teatro di regia teso a dare una connotazione molto politica all’intero “Anello” (la lotta dei sottomessi contro la globalizzazione capitalistica). Tuttavia, la scena è parsa eccessivamente buia anche in momenti in cui (l’alba primaverile, il dialogo nella Reggia degli Dei, e soprattutto l’arrivo delle Valchirie nella loro montagna) dovrebbe essere luminosa. Alcune scelte relative ai costumi (le Valchirie in pesanti abiti di lutto fine Ottocento-inizio Novecento) destano perplessità. E’ da augurarsi che Cassiers & soci diventino progressivamente più sobri nel prosieguo di questo “Anello”. Di grande livello la parte musicale: Barenboim dà un’intonazione intimistica, quasi cameristica al primo atto traendo suoni delicatissimi dal grande organico. Tra gli interpreti, primeggiano Nina Stimme (Brünilde), Vitalij Kowaljow (Wotan) e Ekaterina Gubanova (Fricka). Waltraud Meier (Sieglinde) e Simon O’Neill (Sigmund) scansano il peso degli anni con abilità tecnica ed evitano gli acuti più impervi. John Tomlinson dovrebbe, invece, godersi un meritato pensionamento. Scelte con grande cura le soliste che hanno dato corpo alle “Valchirie”. Un’inaugurazione all’altezza delle grandi serate della Scala.

(Hans Sachs) 8 dic 2010 21:06

L’EURO E LE RESPONSABILITA’ DELL’EUROPA Formiche dicembre

L’EURO E LE RESPONSABILITA’ DELL’EUROPA
Giuseppe Pennisi
Nel chiudere un 2010 tutt’altro che tranquillo , crediamo sia utile non tanto sulla durata o meno di un nuovo accordo monetario o sulla riforma del Fondo monetario internazionale, sul ruolo che in modo strisciante la moneta unica europea sta assumendo su scala mondiale e sulle responsabilità che ciò comporta per l’Europa. Gran parte della letteratura sul tema riguarda l’apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro e la crescente quota di riserve mondiali e di fatturazioni di commercio internazionale denominata nella moneta unica europea.
Un lavoro ancora inedito di Fabian Antenbrink , professore di diritto europeo all’Università Erasmus di Rotterdam, ha di recente sollevato, nel corso di un convegno a Bruges, un aspetto poco noto, apparentemente puramente giuridico ma con forti ricadute economiche e politiche . In breve, in parte per ragioni giuridico-formali, in parte per l’attrazione – il “fascino discreto dell’euro”- innescata dall’apprezzamento degli ultimi anni, l’euro è diventata o la moneta comune o l’ancora di un sistema molto più vasto di quello dell’Eurogruppo. E’l’unità di misura, di transazione e di riserva non solo di “piccoli” Stati europei (Andorra, Monaco, San Marino, Vaticano), ma anche di Stati e territori associati a Stati membri dell’Eurozona (Guadeloupa, la Guiana francese, la Martinica, Réunion, Saint-Barthélemy, Saint-Martin, le Azorre, Madeira Saint-Pierre-et-Miquelon, Mayotte, e le Canarie). Inoltre, in base ad accordi precedenti la creazione della moneta unica europea ( e lo stesso Trattato di Roma), le valute di numerosi Stati sono ancorate a quelle della ex-metropoli (in epoca coloniale) a tasso di cambio fisso . Si spazia dalla Nuova Caledonia, la Polinesia, Wallis e Futuna nel Pacifico a mezza Africa (tramite i trattati, sempre in vigore, tra la Francia, da un lato, e le Comunità Monetarie dell’Africa centrale ed occidentale, nonché la Repubblica delle Comore) e quello del Portogallo con Capo Verde. Ove la geografia dell’euro non fosse abbastanza confusa e straripante, ci sono Paesi neocomunitari (e che aspirano a fare parte dell’eurozona) che hanno definito, unilateralmente, un cambio fisso con l’euro: la Repubblica Cèca, la Romania, l’Ungheria. La Croazia, la Serbia, la Repubblica Macedone, e la Tunisia hanno seguito il loro esempio , sperando che l’ancora faciliti il loro ingresso nell’Ue o la loro associazione all’Ue. A questi Stati occorre aggiungere la Bosnia-Erzegovina e la Bulgaria – in ambedue vige un sistema di commissariamento valutario (ossia un currency board) basato sull’euro- ciò vuol dire che l’emissione di moneta locale è basato sulle riserve in euro presso le rispettive autorità monetarie. In Kossovo e Montegro l’euro è la valuta utilizzata per le transazioni commerciali e bancaruie. Il tasso di cambio d Botswana, Israel, Giordania, Libia, Marocco, Russia, Seychelles e Vanuatu è ancorato ad un paniere di monete in cui domina l’euro. L’elenco – si tenga presente – è unicamente indicativo e può aumentare se , come annunciato, future nuove unioni monetarie (quali quella del Golfo persico) si agganceranno all’euro.
Ciò comporta, in primo luogo, un delicato nodo politico: nessuna autorità monetaria , anche degli Stati più direttamente legati all’euro, partecipa al Sistema europeo di banche centrali (Sbce). Quindi non ha alcuna voce in capitolo nelle politiche della Banca centrale Europea (Bce) che pur influiscono in maniera determinante sull’offerta di moneta, sulla liquidità, sui tassi d’interesse e, dunque, sulla crescita. In pratica a questi Stati si applica parte del “ patto di crescita e di stabilità” (nelle sua varie versioni) pur se non lo hanno né sottoscritto né firmato, ma, in un certo qual modo, vi aderiscono volontariamente.

Sotto il profilo economico , il primo e più certo impatto è che la valorizzazione internazionale dell’euro incide sulle esportazioni di questi Stati e territori tanto quanto influenza quelle dell’euro-zona. . Dato che dal 1945 l’Europa continentale segue un modello di crescita basato sull’export, un ripensamento della strategia diventa urgente non solo a fini europei ma a ragione delle responsabilità dell’Europa nei confronti dell’area dell’euro “a pezzi e bocconi” che si è sviluppata. Sono analoghe a quello che circa 40 anni fa, il consigliere di Kennedy, Arthur Schlesinger jr., declinava a proposito degli Stat Uniti nel “Imperial America” . E’ urgente acquisirne maggiore consapevolezza.

Per saperne di più
Alcidi C. , De Grauwe P. The Future of the Eurozone and the Gold CEPS Special Report 2010
Antembrink F. Bits of Economic and Monetary Unione Everywhere UACES Conference, Bruges 2010 (in corso di pubblicazione).
Guerrieri P. P-C Padoan L’Economia Europea, Bologna, Il Mulino 2008

CINQUE DOMANDE E CINQUE RISPONDE GLI EUROBONDS aVVENIRE 7 DICEMBRE

CINQUE DOMANDE E CINQUE RISPONDE GLI EUROBONDS
Giuseppe Pennisi
a) Che cosa sono/sarebbero gli Eurobonds?
Ne sono state fatte numerose formulazioni nel corso degli Anni. Ad esempio, negli Anni Settanta, venne fatta una proposta da François-Xavier Ortoli, all’epoca Presidente della Commissione Europea (giornalisticamente vennero chiamati “Ortoli Bonds”): avrebbero avuto essenzialmente lo scopo di rilanciare occupazione e crescita tramite grandi investimenti. Ne circolarono varie versioni: secondo alcune sarebbero stati emessi dalla Banca Europea per gli Investimenti (Bei), secondo altre dalla Commissione Europea in prima persona. L’ultima proposta , formulata da Mario Monti, riguarda “Eurobonds” a più valenze, che verrebbero emessi da un’Agenzia Europea per il Debito ancora da istituire. In prima battuta, servirebbero ad alleggerire il debito “sovrano” di Stati iper-indebitati, in seconda,lo sviluppo, alla stregua degli “Ortoli Bonds”:
b) Chi potrebbe sottoscriverli?
Se ho ben compreso la proposta, in prima battuta, sarebbero i Tesori e le banche degli Stati iper-indebitati dell’unione monetaria; in tal mondo si alleggerirebbe (a tassi e termini più conveniente) il fardello dei loro debiti (principalmente quelli con l’estero). Al pari dei bonds di Bei, di Banca mondiale, di banche regionali di sviluppo potrebbero tramite i normali canali bancari arrivare al dettaglio ed essere acquistati da risparmiatori che si recano dai promotori finanziari e dai “borsini” (in linguaggio colloquiale) d’intermediari finanziari per essere consigliati su come collocare quanto messo da parte.
c) Chi ha avuto per primo l’idea?
Gli “Eurobonds” la cui paternità viene oggi attribuita a Mario Monti hanno molti nonni, zii e consanguinei. Negli Anni Sessanta, durante le trattative per la nascita di quella che diventò la politica agricola comune, vennero lanciati da Alexandre Lanfalussy (allo scopo di non sostenere il riassetto del settore agricolo europeo non unicamente a spese di Pantalone ma con strumenti di cui investitori e risparmiatori avrebber fatto il monitoraggio, se li avessero tenuti in portafoglio). Si sono ricordati gli “Ortoli Bonds”. Sono stati ventilati pure (Delors Bonds). In tempi più recenti (alcuni mesi prima di Monti), sono stati proposti Eurobonds (non so se il nome sia stato brevettato da qualcuno) dal Long Term Investors Club, di sono soci fondatori la Bei, la Cassa Depositi e Prestiti italiana, la Caisse de Dépôts et Consignations francese ed il Kreditanstalt für Wiederaufbau tedesco e di cui fanno parte anche fondi arabi, britannici e cinesi.
d) Perché sarebbero utili per “salvare” l’euro?
Gli Eurobonds proposti da Mario Monti non salverebbero l’euro ma toglierebbero d’impaccio (alleviando il peso del debito sovrano) alcuni Stati. In effetti, uno schema analogo (i “Brady Bonds” dal nome del Segretario al Tesoro Usa Nicholas Brady) è stato applicato, con successo, a cavallo tra la fine degli Anni Ottanta e l’inizio degli Anni Novanta e, poi, nel 1998-99, per agevolare Stati altamente indebitati principalmente dell’America Latina e dell’Asia. Vennero utilizzati per riscattare parte del debito in valuta forte. I “Brady Bonds” , però, coprivano solo il 70% del valore nominale dei titoli portati al riscatto: chi aveva investito in Brasile o in Malesia attratto da alti interessi (o alti spread) , ci rimetteva parte del valore in conto capitale e in futuro sarebbe stato più accorto.
e) Perché la Germania si oppone?
“Bonds” pari al 100% del valore facciale – come sembra sia la versione più recente – sarebbero come un condono od una sanatoria: incoraggerebbero a razzolare male nella prospettiva di qualche buon samaritano (i contribuenti europei, ossia tutti noi): quelle tedeschi hanno inviato al loro Governo un messaggio del tutto condivisibile, nonostante i maggiori beneficiari degli “Eurobonds” sarebbero le banche tedesche che, con quelle francesi, si sono più esposte nei confronti di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna (in ordine rigorosamente alfabetico).

lunedì 6 dicembre 2010

L'Italia è piatta. DobbiAMO SVEGLIARLA IN Ffwebmagazine.it

Esce il 44esimo Rapporto Censis. E non ci sono buone notizie
L'Italia è piatta.
Dobbiamo svegliarla
di Giuseppe Pennisi
La mattina del 3 dicembre, nella consueta cornice del Cnel, è uscito il 44simo Rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese. In primo luogo, essere arrivati al 44simo volume annuale (quello appena presentato è di 461 pagine) deve essere motivo d’orgoglio non solo per chi ha creato e animato il Censis e per chi vi ha lavorato per tutto il Paese- il solo in Europa a seguire con attenzione ogni anno un documento ben ricercato ed indipendente ma ponderoso di analisi sociale. Ci piace farci del male e non riconoscere che siamo più attenti di quanto in effetti siamo. In questi 44 anni, il Censis ce lo ha ricordato spesso.

Ci ha mostrato aspetti positivi della società italiana in quelli che sono ricordati come gli anni bui della notte della Repubblica. Ci ha ricordato che c’era una vasta Italia sana quando Tangentopoli pareva indicare che tutti gli strati della società fossero corrotti e che la corruzione di parte della politica e della pubblica amministrazione non fosse che lo specchio di un più vasto e più radicato fenomeno. Ha scoperto la vitalità dei distretti industriali e delle piccole e medie imprese prima che se ne interessassero economisti stranieri come Frank Pyke e organizzazioni internazionali come la Banca mondiale, l’Ilo e l’Unido – e molto prima che ne parlasse la Fondazione Edison. Il Censis ha sempre guardato con documentato ottimismo al Paese e al suo futuro. Per questo motivo deve destare preoccupazione l’ultimo rapporto il cui tema conduttore è “la pericolosa china verso l’appiattimento della soggettività e dell’orizzontalità non governata” in una “società indistinta”, di una “realtà sociale” il cui “vero virus è l’insicurezza”.
I sociologi possono meglio di un economista entrare nelle interessanti, e provocatorie, analisi del Censis. Per un economista esse spiegano a tutto tondo i fenomeni economici trattati in un altro documento in uscita in questi giorni- il Global Outlook di quell’Istituto affari internazionali, poco più anziano del Censis, ma che, più o meno nell’arco dello stesso periodo, tanto ha contribuito a sprovincializzare la cultura politica internazionale e a darle un afflato internazionale. Il Global Outlook mostra un'Italia in ritardo, che ha perso quote di mercato (e che ne perderà ancora di più) , che ha un saldo negativo degli investimenti diretti all’estero e la cui cultura d’impresa nulla ha recepito dell’integrazione tra servizi e manifatturiero alla base del successo di Paesi come la Repubblica federale tedesca.
I due documenti – il Rapporto Censis ed il Global Outlook dell’ Iai – sono due aspetti dello stesso problema. Nell’Europa chiamata “la bella addormentata” in un bel libro di Mario Baldassarri di qualche anno fa, l’Italia sembra essersi ibernata in un melanconico sonno profondo in cui, alla ricerca di una non meglio specificata “felicità”, pare avere rinunciato alla crescita. E’ il momento di darsi una bella svegliata.

6 dicembre 2010

venerdì 3 dicembre 2010

Il sesso all’opera in Il Foglio 3 dicembre

Il sesso all’opera
Ma per Ian Macabre, autore prediletto da Veltroni, l'eros in musica è lugubre
Ian McEwan è uno degli scrittori britannici più gettonati. E’ l’autore preferito da Walter Veltroni che lo ha citato più volte come “eroe del nostro tempo” della sinistra “liberal” e o lo ha invitato di qua e di là a festival letterari e incontri con Nobel, nella convinzione che prima o poi anche lui possa essere insignito dal premio per la letteratura. In Gran Bretagna, i suoi avversari lo hanno soprannominato “Ian Macabre”: i suoi (vendutissimi) romanzi sono una miscela di sesso e fattacci in cui, prima o poi, ci scappa il morto. Dopo aver portato il “noir” oltre-Manica e giunto quasi alla sessantina, pareva che si fosse addolcito, e anche il Foglio (8 marzo 2010) aveva sottolineato come il nomignolo non fosse più appropriato da quando McEwan si era dichiarato "convertito all’ottimismo nucleare".

La conversione, forse, era stata troppo breve. E’ appena arrivato in Italia il suo ultimo lavoro: un libretto d’opera, stampato in un elegante volume nella collana “L’Arcipelago” di Enaudi – quanto onore!, di norma i libretti di opere contemporanee vengono, al più, riassunti nei programmi di sala – messo in musica dal suo sodale e coetaneo Michael Berkeley e in scena in una co-produzione dell’Accademia Filarmonica Romana, dell’Istituzione Universitaria dei Concerti e dal Bristish Council. Alla prima (che dovrebbe essere l’inizio di una tournée) c'erano ben sessanta critici musicali in sala, ma due giorni dopo tutti davano molto incenso al libretto e poca attenzione alla musica. Invece, la partitura di Berkeley non è male. Una scrittura basata su canoni tradizionali – recitativi declamati, ariosi, duetti e terzi e un concertato al termine dei due atti, un’orchestrazione elegante, ricordi ovviamente di uno dei maggiori compositori contemporanei britannici (Tippet) ma citazioni anche da Britten e financo Purcell. E un pizzico di ironia in buca.

L’ironia, purtroppo, non arriva sul palcoscenico, dove sei personaggi sono “avviluppati” (per dirla con un celebre passaggio della monteverdiana “Incoronazione di Poppea”) in sesso esplicito che porterà poi a un omicidio. Tra una lenzuola si prendono sul serio: la scena centrale è un duetto che diventa terzetto sulle difficoltà dell’erezione, le virtù del Viagra e il coito interrotto all’arrivo della vogliosa cameriera polacca nella stanza dove il protagonista (un musicista) sta faticosamente penetrando la solista d’oboe. Di eros neanche la traccia, soltanto noiosa melanconia.

Eppure (se si eccettua l’asessuato Ottocento italiano, specialmente il melodramma verdiano), la storia dell’opera lirica è costellata di tematiche erotiche: lo stesso Monteverdi (un “reverendo”, dato che era sacerdote) mostrò nel "Ritorno di Ulisse in Patria" la gioia del più pieno rapporto coniugale e nell'"Incoronazione di Poppea" la letizia degli avviluppamenti più complicati, anche gay. Sotto la plumbea censura dell’Inquisizione, nella Venezia del Seicento, Francesco Cavalli diede lezioni di elegante e felice Kamasutra in “La Calisto” e altre opere. Strauss esorcizzò con l’eros la Prima ("Ariadne aus Naxos") e la Seconda guerra mondiale ("Capriccio"). Si potrebbe scrivere un’enciclopedia. Leit motif: il sesso all’opera è lieto e fa bene (specialmente se si copula nel retropalco).

Sette anni fa a Roma e due mesi fa a Bologna è stata presentata l’opera “Power Her Face” del britannico Thomas Adès (venticinquenne quando la compose): il lavoro si basa su un fatto di cronaca degli anni Sessanta avvenuto nell’aristocrazia inglese ed è stracolmo di sesso: nella scena centrale c'è un'aria "fellatio" di una coloratura tale da richiedere un soprano in grado di cantare la mozartiana Regina della Notte de “Il Flauto Magico”. Il tutto (libretto e musica) è soffuso di allegra ironia. Difficile sapere se gli applausi della “gauche au caviar”, radical chic, avranno repliche. Occorre, però, rincuorare il cinquantacinquenne W.: non esiste un teorema “McEwan-Berkeley” in base al quale a 58 anni (età esatta dei due) occorre ricorrere al Viagra per un’erezione, mentre l’orchestra rintocca un funereo re maggiore.

© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi

mercoledì 1 dicembre 2010

DUE,TRE IDEE SUL FUTURO DELL'EURO in Il Velino 1 dicembre

ECO - *Due o tre idee sul futuro dell’euro

Roma, 1 dic (Il Velino) - L’ingegner Jean-Claude Trichet, presidente della Banca centrale europea (Bce) dovrebbe vedere un vecchio film del suo compianto compatriota René Clair Les Silence est d’Or. Infatti, ogni volta che apre bocca (pur soltanto per prendere fiato) fa danni. Non appena ha tentato di rassicurare i mercati affermando con voce stentorea che “l’euro non è rischio”, il valore della moneta unica è calato sui mercati internazionali e le Borse europee hanno fatto un tonfo. È con i fatti che governi e banchieri centrali devono rispondere a quella che ormai appare non tanto un riassetto del tasso di cambio dell’euro (rispetto al dollaro Usa, allo yen, ed allo yuan) quanto una crisi di fiducia sul futuro dell’unione monetaria. Lo avevano previsto in molti all’inizio degli Anni Novanta. Il nodo non è tanto sui nessi tra integrazione monetaria ed integrazione politica quanto sull’aggravarsi delle divergenze tra Paesi che fanno parte dell’area dell’euro ma hanno strutture di produzione, tendenze di lungo periodo di economia reale e meccanismi di finanza pubblica molto differenti. Il “semestre europeo” –ossia la temporalizzazione simultanea della preparazione ed approvazione delle leggi di bilancio – non è che un palliativo se non si risolvono i problemi delle differenze delle strutture di produzione e delle tendenze di lungo periodo dell’economia reale. Uno studio della Banca centrale spagnola ed uno di quella portoghese – ambedue in uscita in questi giorni – mostrano a tutto tondo come dall’inizio dell’unione monetaria i due Paesi abbiano avuto saldi passivi crescenti nei loro conti con l’estero, perdite di quote di mercato internazionale e produttività stagnanti, in parallelo con una smisurata crescita del credito totale interno e del suo impiego in investimenti a basso rendimento. L’inflazione si è manifestata non tanto in aumento dei prezzi al consumo (quali monitorati dalla Bce) ma in un deterioramento della qualità dei prodotti di beni e servizi. Un fenomeno analogo potrebbe (o forse già riguarda) l’Italia. Quale che sia il caso accorre affrontarlo presto.

Come? Queste idee possono essere utili: 1. Un’uscita unilaterale dall’euro o un’espulsione di chi razzola male pare poco praticabile a ragione del suo elevato costo (due-quattro punti percentuali di perdita di Pil che, per di più, si aggiungerebbero a quanto perso nella recessione in corso dal 2007). 2. Un cintura di sicurezza blindata, quale l’istituzione di un Fondo europeo con annesso General Agreement to Borrow (un accordo perché il Fondo possa prendere a prestito dagli Stati membri tanto quanto necessita) non solo sarebbe operosissimo (e rallenterebbe la crescita proprio dei Paesi in maggiori difficoltà) ma premierebbe chi “razzola male” con una sorta di sanatoria permanente. 3. Una strada possibile è quella di ristrutturazioni con insolvenze concordate modellate ad esempio sui “Brady Bonds” (dal nome del Segretario al Tesoro Usa Nicholas Brady), creati nel 1989, al tempo della prima grande crisi debitoria dei Paesi soprattutto dell’America Latina. Chi entrava in un programma di ristrutturazioni perdeva il 30 per cento dei propri crediti nei confronti del debito sovrano dello Stato debito ma otteneva in cambio “bonds” garantiti dal Tesoro Usa. Nel caso dell’unione monetaria si tratterebbe ovviamente di obbligazioni garantite dalla Bce. 4. Si potrebbe infine prendere il coro per le corna e rinegoziare il trattato di Maastricht (ivi comprese le parità centrali del 1989 rimaste sottostanti l’euro nonostante andamenti economici divergenti e shock asimmetrici) a dare vita ad un regime europeo analogo a quello di Bretton Woods. Meno visionario ma più realisticamente fattibile.

(Giuseppe Pennisi) 1 dic 2010 20:38