UN RADICALISMO ILLUMINATO AL SERVIZIO DEL SINGOLO
Giuseppe Pennisi
Il pensiero e l’azione economica delle due Amministrazioni Reagan si distinsero dalle altri per un “radicalismo liberale” tutt’altro che tipico del Partito Repubblicano Usa in generale e della stessa cultura liberista americana in particolare. Tale cultura ha sempre avuto radici moderate in cui il favore per le libertà di mercato era accompagnato da un forte senso d’intervento pubblico (a livello federale) in materia di difesa, di ordine pubblico e di tutela delle risorse naturali , nonché (a livello dei singoli Stati dell’Unione ed ancora di più di enti territoriali decentrati come le contee) di afflati “comunitari” (che in Europa continentale verrebbero, invece, considerati caratteristici della sinistra) per la produzione e la gestione di beni sociali come la scuola. Il “radicalismo” del pensiero e dell’azione Reaganiana si allacciava , in gran misura, alla visione libertaria di Murray Rothbard, sino ad allora fortemente minoritaria negli stessi ambienti politico culturali più liberisti o, per usare un termine coniato di recente, mercatisti.
Lo si vede in due tratti poco noti in Europa continentale, ed in particolare, in Italia. Il primo è il confronto con la “rivoluzione liberale” che, nello stesso arco di tempo, Margaret Thatcher stava portando avanti in Gran Bretagna: mentre nel Regno Unito, pochi aspetti di grande visibilità (ad esempio, lo scontro con i sindacati dei minatori) venivano accompagnati da molti piccoli passi nelle materia più sensibili che costituivano i nervi ed il cuore dell’economia e della società (ad esempio, come ricordato da Paul Pielson in un suo libro fondamentale sulle esperienze Reagan-Thatcher in materia di riassetto del welfare state ,le modifiche della legislazione sul lavoro vennero annidate nelle pandette di una quarantina di leggi e leggine che unicamente giuristi davvero esperti sarebbero stati in grado di scoprire e comprendere), negli Stati Uniti sin dal primo “Messaggio sullo Stato dell’Unione” di Ronald Reagan venne iniziato un “nuovo federalismo” spostando competenze dall’Amministrazione federale agli Stati dell’Unione, con l’invito che questi ultimi , a loro volta, li passassero alle Contee e così via. Un ritorno “radicale”, quindi, agli Stati Uniti quali concepiti dai Padri Fondatori – molto più spinto di qualsiasi “principio di sussidiarietà”, mutuato dalla Repubblica Federale Tedesca, introdotto alla fine degli Anni Ottanta tra i cardini dell’Unione Europea. Ciò avrebbe consentito ai poteri federali di concentrarsi sui suoi “compiti propri”: difesa internazionale, sicurezza interna (in caso di reati “inter-statuali”), tutela delle risorse naturali. Tranne che in poche materie integrate per motivi tecnici (ad esempio, i mercati finanziari), la tutela della concorrenza, le liberalizzazioni, e via discorrendo diventano competenza dei singoli Stati dell’Unione e, spesso, trasferiti da questi ultimi alle contee. Ciò venne attuato non con una riforma della Costituzione ma attuando “radicalmente” quando definito nel 1787 a Philadelphia. Un ritorno, quindi, al futuro.
Il secondo tratto “radicale” fu l’attenzione alla micro-economia, ossia al corretto funzionamento dei mercati e dello stesso intervento pubblico quando chiamato a correggere quelle che noi economisti chiamiamo “imperfezioni di mercato” (esistenza di beni pubblici e di beni sociali, asimmetrie informative e posizionali, effetti esterni, interdipendenze,e via discorrendo). Nei primi mesi dopo l’insediamento, l’Amministrazione Reagan adottò una misura, approvata rapidamente (e senza accorgersi della portata) dal Congresso. Da allora (sono passati trent’anni) nessun Presidente e nessun Congresso ha proposto di modificarle: qualsiasi provvedimento federale (leggi, regolamenti, investimenti) deve essere accompagnato da un’attenta analisi dei costi e dei benefici finanziari ed economici. Non si “affamava la bestia”, ma si metteva una camicia di forza a burocrazie con l’innata tendenza a diventare tentacolari , con inevitabili conseguenze per la dilatazione della spesa pubblica. Nel suo “totalitarismo” (si applicava e si applica ancora anche al regolamento più minuto) era , ed è, una misura “radicale” di limitazione dell’intervento pubblico a campi, grandi o piccoli, in cui non riesce a dimostrare, in modo quantitativo, che i benefici della mano pubblica superano i costi.
Questi due aspetti non furono il frutto di elaborazioni di cenacoli di economisti – quali i “Chicago Boys”- ma del gruppo di amici con cui David Stockman, deputato a 31 anni e Ministro del Bilancio a 34, si riuniva la sera non nel proprio disordinatissimo mini-appartamento ma in un saletta di un bar-trattoria, in effetti la ricostruzione di un saloon texano (“Mr. Smith”) di Georgetown, a pochi passi dalla Casa Bianca. Stockman (che si sarebbe dedicato alla finanza, una volta lasciata la politica) era un “clean cut red-blooded” texano di bell’aspetto e vivace cordialità, aveva studiato all’Università del Michigan un po’ tutto ed un po’ niente ma aveva preso un dottorato in teologia a Harvard. Masticava poco di economia ma con una forte intelligenza intuitiva e la destrezza analitica che si acquista diventando un teologo, aveva, con i suoi giovani amici, afferrato i punti essenziali per una “rivoluzione liberale radicale”.
Meno “radicali” gli altri aspetti della politica economica reaganiana, pur se più noti in Europa, ed affidati al Tesoro ed alla Federal Reserve. La strategia macro-economica di base adottata nel 1981 si rifaceva ad un teorema elaborato da Robert Mundell quando, negli Anni Sessanta, viveva a Bologna dove insegnava a tempo pieno alla Università Johns Hopkins. Il teorema- chiamato “del ragù alla bolognese” dimostrava, matematicamente, la possibilità di dilatare il disavanzo pubblico, al fine di promuovere la crescita, senza generare inflazione in presenza di una politica monetaria restrittiva, come quella adottate negli Usa dall’ottobre 1979. La dilatazione del disavanzo avvenne, sempre seguendo il teorema “del ragù alla bolognese”, non per aumento della spesa pubblica ma per drastico, “radicale”, riduzione delle tasse.
Il deficit del bilancio federale assunse dimensioni tali che nel 1985, venne approvato il Gramm-Rudman-Hollings Balanced Budget and Emergency Deficit Control Act, che postulava il pareggio di bilancio (peraltro mai ottenuto) con strumenti analoghi a quelli mutuati, in Europa, qualche anno dopo con il Trattato di Maastricht e, successivamente, con il patto di crescita e di stabilità (ora in corso di revisione). Come da teorema, il “ragù alla bolognese” ebbe gli effetti auspicati: la riduzione della pressione fiscale e la dilatazione del disavanzo, neutralizzate da una politica di rigore monetario, furono la leva della forte crescita macroeconomica Usa dalla metà degli Anni Ottanta alla crisi del 2007.
Quasi contemporaneamente al varo della legge Gramm-Rudman-Hollings sul pareggio di bilancio, il primo agosto 1985 Stockman diede le dimissioni dal proprio incarico. Le due misure “radicali” da lui proposte – il “nuovo federalismo” e l’analisi dei costi e dei benefici finanziarie di qualsiasi misura di politica pubblica – sarebbero rimaste e sarebbero diventate parte del DNA dell’Amministrazione Usa, qualche che fosse la connotazione politica dell’inquilino della Casa Bianca e la maggioranza prevalente in Congresso.
La matrice “colbertista” della destra liberale dell’Europa continentaleJean- Baptiste Colbert non ha lasciato alcun scritto di economia (di altro); Ministro delle Finanze di Luigi XVI ha , però, firmato decine e decine di decreti, i quali hanno formato il “corpus” del “colbertismo” , una scuola di pensiero favorevole dapprima all’intervento pubblico in materia di commercio con l’estero e gradualmente nel resto dell’economia. In Europa continentale, il liberismo è stata una merce che ha avuto una breve stagione di popolarità in quanto anche la fase dell’industrializzazione trionfante nel Diciannovesimo Secolo è stata marcata da una presenza dello Stato tanto forte e tanto pregnante quanto la capacità d’imporre tributi e regolamenti e di farli osservare. In linea di massima, in Europa continentale il liberismo è stata una parentesi tra il “colbertismo” delle varie “destre” e l’allora nascente movimento socialista (nelle sue più diverse configurazioni), parentesi associata alla prima “globalizzazione” convenzionalmente definita tra il 1870 ed il 1910 e spinta dalla rivoluzione tecnologica nella manifattura e nei trasporti e dalle innovazioni dovute all’elettricità. I Padri Fondatori degli Stati-Nazioni europee (Francia, Germania ed anche Italia) erano “colbertisti” anche senza saperlo: in Italia, ad esempio, la breve esperienza liberale dell’età giolittiana terminò con lo “scandalo della Banca Romana” a cui la stessa “Destra Storica” reagì con misure fortemente interventiste; in Francia la fase liberista della Terza Repubblica affondò con lo scandalo Stavinski.
Interessante notare le profonde differenze con cui Europa continentale e Stati Uniti risposerò alla “Grande Depressione” degli Anni Trenta. In Europa, venne perseguita una politica di salvataggi di imprese e di banche in difficoltà; in Italia, dove era al Governo la “destra”, ciò portò alla creazione dell’Iri; in Germania al controllo dello Stato su gran parte dell’industria pesante ed a privatizzaioni selettive per ingraziarsi alcuni settori della finanza; in Francia, andò al Governo il Fronte Popolare che teorizzò ed attuò una strategia di nazionalizzazioni; in Spagna, dopo una guerra cruenta, non si tornò al passato liberismo monarchico ma venne messo in piedi un sistema economico “corporativo”, con intervento pubblico pregnante, ad imitazione di quello italiano. Negli Stati Uniti, invece, quando andò al Governo la “sinistra” rooselvetiana, il “New Deal” portò unicamente alla creazione di un sistema federale di autostrade (ancora in vigore e ben funzionante) ed ad una rete di accordi tra Stati ed enti locali (simili ai “patti territoriali” dell’Italia del primo scorcio del Ventunesimo Secolo) per la valorizzazione di alcune aree (quali quella del Tennessee).
Se non si tiene conto di queste profonde differenze, non si comprende perché gli economisti liberisti di Vienna e di Losanna emigrarono prima in Gran Bretagna e poi negli Usa. Non si comprende, a maggior ragione, perché, pur affascinati dalla “rivoluzione reaganiana”, le “destre” europee non ne percepiro il “radicalismo” e non se ne compresero i passaggi fondamentali.
In Italia, in particolare, il problema centrale della politica economica degli Anni Ottanta era ben differente da quelli che preoccupavano l’Amministrazione Reagan: riguardava il rientro dall’inflazione (che alla fine degli Settanta aveva toccato tassi annuali di due cifre) mantenendo un saggio adeguato di crescita ed un buon grado di coesione sociale per evitare di ricadere in una nuova “notte della Repubblica”. Vennero tentate varie misure di freno alla spesa pubblica con risultati alterni sull’avanzo primario (essenziale a ragione del forte peso del servizio del debito pubblico), ma le misure essenziali riguardarono la riforma dell’indicizzazione salariale, su cui venne anche fatto un referendum.
Si cercò, in vario modo, di trovare una versione all’italiana della legge Gramm-Rudman-Hollings, con i vari “piani di rientro” (iniziati a cavallo tra gli Anni Settanta e gli Anni Ottanta) dal deficit e dallo stock di debito pubblico, ma il Governo cadde nell’estate 1986 proprio quando si era giunti ad un accordo tecnico tra gli specialisti dei cinque partiti allora all’Esecutivo ed il successivo non ne fece più nulla in quanto, sostanzialmente, ebbe pochi mesi di vita prima di una nuova tornata elettorale. Il tentativo di introdurre l’analisi costi benefici per l’analisi di una piccolissima parte dell’investimento pubblicò (con il progetto di estenderlo gradualmente al resto della spesa pubblica in conto capitale), finì miseramente. Curiosamente in Francia, dove , per gran parte degli Anni della Reaganeconomics, l’inquilino dell’Eliseo era un socialista e si nazionalizzano banche ed alcune grandi imprese, uno degli aspetti “radicali” della “rivoluzione reaganiana” venne recepito (e restò in vigore per una quindicina d’anni):il “programma des choix budgettaires” (“programma delle scelte di bilancio”) in cui si mettevano a confronto (anche pubblico) Ministeri sulla base della qualità delle proprie analisi economiche sottostanti le scelte di bilancio. In breve, qualcosa molto simile a quanto Reagan, sotto l’impulso di Stockman, aveva introdotto nella pubblica amministrazione federale americana.
Ciò non vuole, però, dire che l’esperienza non lasciò neanche un seme. Il vento dall’Atlantico soffiava e sarebbe arrivato , anche se in ritardo, in Europa e nella stessa Italia. Rendendone meno “colbertista” la destra.
La Reaganeconomics a scoppio ritardato A dare l’avvio a programmi di riforme, in parte modellati sull’esperienza americana, fu la decisione di dare vita all’unione monetaria e di trovare regole comune in materia di bilancio e di concorrenza (la politica monetaria veniva trasferita ad un’autorità sovra nazione, il Sistema Europeo di Banche Centrali con proprio perno la Banca Centrale Europea) e la successiva crisi finanziaria che travolse Stati (in particolare l’Italia) non ritenuti, dai mercati internazionali, in grado di fare fronte agli impegni assunti con il Trattato di Maastricht.
In effetti, le misure adottate dal Governo Amato tra il luglio 1992 e il gennaio 1993 recepivano in parte del vento proveniente d’Atlantico, specialmente in materia di drastiche riforme alla spesa sociale (in particolare alla previdenza) e di regolazione del mercato del lavoro.
Il “radicalismo” della Reaganeconomics plasmava in buona misura il programma della “Casa della Libertà” che, con un doppia alleanza di Forza Italia (al Nord con la Lega, al Centro-Sud con Alleanza Nazionale) vinse inaspettatamente le elezioni –un segnale che la società italiana era pronta a recepire aspetti di fondo della Reaganeconomics più di quanto non pensassero i think tank prevalenti e soprattutto quella che veniva definita la grande stampa borghese. La stagione fu breve e terminò proprio su un test da Reaganeconomics: ulteriori riforme previdenziali tanto necessarie da essere successivamente varate da un Esecutivo formalmente “tecnico” ma con il supporto parlamentare della sinistra.
Nel periodo 1996-2001 in cui le “destre” erano all’opposizione, presero vita cenacoli di varia intonazione (dalla Fondazione Ideazione all’Osservatorio Parlamentare, dall’Istituto Bruno Leoni, all’Istituto Acton) , in cui le caratteristiche “radicale” della Reaganeconomics diventarono oggetto di analisi e di dibattito, con particolare attenzione a come potessero trasferiti nel pensiero e nella politica economica italiana. Il “patto con gli italiani” del 2001 e “le sette missioni” del 2008, pur se non “radicali” quanto il succinto ma denso programma elettorale del 1994 mostravano un centro-destra liberal-liberista (pur se con sfumature contrarie al “mercatismo”) anche in quanto aveva subito una scissione da parte della componente più marcatamente “colbertiana”.
I nodi di politica economica dell’Italia (il divario Nord-Sud, l’elevato stock di debito pubblico, le conseguenze dell’invecchiamento della popolazione, la bassa produttività) restavano profondamente differenti da quelli degli Stati Uniti, caratterizzati da popolazione giovane, alta produttività, fortissimo indebitamento delle famiglie e delle imprese, divari sociali non chiaramente connessi ad aree territoriali, un dilagante disavanzo dei conti con l’estero. Ciò nonostante, alcuni aspetti della “Reaganeconomics” incisero (tardivamente) non solo sui programmi ma anche sull’azione di politica legislativa.
I settori dove stanno lasciando maggiormente il segno riguardano le denazionalizzazioni (o privatizzazioni) e le riforme del welfare . Hanno inciso, anche in parte, sulle riforme della pubblica amministrazione (in specie quelle per migliorarne efficienza ed efficacia). Non hanno avuto effetti di rilievo sulla politica di bilancio (data la profonda differenza di problemi da affrontare) e non hanno avuto che effetti declamatori i tentativi di introdurre misure di analisi micro-economica (quali l’analisi costi benefici) come strumento per valutare e selezionare l’azione pubblica.
In sintesi, in materia di de-nazionalizzazioni, occorre distinguere due fasi: quella dal 1992 al 1995 di preparazione degli strumenti e quella dal 1995 ad oggi di effettiva realizzazione delle privatizzazioni. Nonostante le profonde differenze di ruolo del settore pubblico nell’economia americana ed italiana e di assetto istituzionale in generale, la fase 1992 – 1995 (in cui si sono succeduti due Governi “tecnici” ed uno di centro-destra) ha mutuato alcuni aspetti (non necessariamente quelli “radicali”) da esperienze d’oltre-Atlantico e d’oltre-Manica. Seguo in dettaglio la materia dal 2001 pubblicando ogni anno un saggio nel rapporto dell’Associazione Società Libera Processi di Liberalizzazioni in Italia – a cui rimando. Mentre le “partecipazioni statali” sono sostanzialmente terminate (non sempre lo si è fatto seguendo percorsi lineari), molto resta da fare in materia di servizi pubblici locali , specialmente di “capitalismo municipale”. In materia, il provvedimento più marcato dalla Reaganeconomics è la recente “Legge Ronchi” in cui sostanzialmente si recepisce normativa dell’Unione Europea (non molto differente da quella adottata negli Anni Ottanta negli Stati Uniti).
In materia di welfare, le successive riforme della previdenza pubblica, soprattutto le più recenti che collegano spettanze a aspettativa di vita alla nascita, vanno nella direzione del full funding della social security Usa , una parte integrante della Reaganeconomics, realizzata soltanto in parte ma confermata anche dall’Amministrazione Obama.
In materia di mercato del lavoro, le varie leggi di riassetto (dal pacchetto Treu alla legge Biagi), pur se non specifiche alla destra ma riflesso di profondi cambiamenti nella società italiana, possono considerarsi una premessa per una più vasta riforma che elimini gli steccati tra “chi è dentro” (con contratti a tempo indeterminato) e “chi è fuori” (con la cinquantina di contratti a termine previsti dalla Legge Biagi) – passo importante per ridurre discriminazioni ed offrire a tutti le stesse opportunità.
L’aspetto più importante , però, è ancora in itinere: riguarda il federalismo. Con vent’anni di ritardo vale la pena guardare al “nuovo federalismo” del “Messaggio sullo Stato dell’Unione” del 1981, con il suo afflato , da un lato, sulla devoluzione e, dall’altro, sul “capitale sociale” a livello comunitario e sui relativi vincoli e controlli sociali all’azione pubblica, posti là dove meglio funzionano.
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Giuseppe Pennisi, consigliere del Cnel e professore emerito della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, è docente all’Università Europea di Roma ed al Link Campus dell’Università di Malta. E’ consigliere scientifico di varie istituzioni, tra cui la Cassa Depositi e Prestiti
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