martedì 21 dicembre 2010

Operetta, quattro teatri per la “Vedova” veronese Il Velino 21 dicembre

CLT -

Roma, 21 dic (Il Velino) - L’operetta di Franz Lehar “La Vedova allegra” andò in scena in un teatro di Vienna dedicato agli spettacoli “leggeri” il 30 dicembre 1905. Poche settimane prima c’era stato il debutto mondiale di “Salomé” di Strauss a Dresda e poco più di un anno prima c’era stato il tonfo della prima edizione di “Madama Butterfly” di Puccini alla Scala. “La Vedova allegra”, nel suo genere, è un lavoro rivoluzionario tanto quanto quelli di Richard Strauss e di Giacomo Puccini lo sono “nel filone aureo” del teatro in musica. Tutti e tre sono eminentemente femministi e l'eros femminile, in vari modi, ne è il motore. In effetti, all’inizio del XX secolo, l’operetta pareva una forma di spettacolo ormai al tramonto. In Austria con la morte di Johann Strauss era terminata l’età dell’oro del genere nel quale si rispecchiava una borghesia ricca e molto poco “imperiale”. In Francia, non c’erano più né Jacques Hoffenbach né il mondo (principalmente quello del Secondo Impero) nei cui confronti le sue operette trasgressive lanciavano un’ironia graffiante. Viveva nelle satire sottilmente perverse che in Gran Bretagna la “premiata ditta” Gilbert & Sullivan lanciava nei confronti della società vittoriana e post-vittoriana, in lavori densi di “idioms” (frasi idiomatiche e doppi sensi) e, quindi, difficilmente traducibili e apprezzabili a sud della Manica.

Al pari di “Salomé” e di “Madama Butterfly”, “La Vedova allegra” arrivò sulla scena europea con una vera carica rivoluzionaria per tre motivi. In primo luogo, per quanto adattata al teatro in musica da una mediocre “pochade” di successo, non era una rappresentazione, più o meno ironica, della società e della politica del tempo ma una lettura visionaria di come la Mitteleuropa (Lehar veniva da un piccolo villaggio ungherese e per lustri si era guadagnato il pane nell’esercito e guidando, quando poteva, bande di paese) si immaginava fosse Parigi (metropoli dell’avvenire) e prendeva in giro gli statarelli balcanici che volevano autoconsiderarsi in via di modernizzazione. In secondo luogo, utilizza una linea melodica ricchissima e vi inserisce brani da “filone aureo” (la “Canzone di Vilja” al secondo atto) unitamente a prestiti dal melologo (parlato accompagnato da orchestra). In terzo luogo, l’azione drammatica slitta, oltre che nei numeri musicali, in una danza in cui, oltre ai valzer, alle polke, alle mazurche e alle marce tradizionali, viene inserita la musica etnica per l’appunto slava, portando in orchestra liuti d’ascendenza araba. Infine, la commedia in musica è coperta da un velo di malinconia, anticipatore, quasi quanto lo avrebbe fatto sei anni dopo “Der Rosenkavalier” di Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal, dei colpi di pistola di Sarajevo, nonché, con la Prima guerra mondiale, della fine di un mondo e della centralità internazionale dell'Europa. L’orchestrazione e la vocalità, in linea con questi tre aspetti fondanti, ne fanno un capolavoro musicale, adorato da concertatori del livello di Kleiber, Rudel, von Karajan e von Matacic.

Questa premessa è essenziale per comprendere la tesi secondo cui quale che sia l’adattamento de “La Vedova allegra”, occorre rispettarne lo spirito. Non ci sarebbe da scandalizzarsi di fronte a una ambientazione “visionaria” magari nella New York di oggi (quale immaginata da una piccola borghesia europea) con il Pontevedro come una Repubblica bananiera dei Caraibi o dell’America centrale. Oppure in una Islanda in bancarotta o in Irlanda e Grecia sull'orlo di esserlo, e in cui Hanna Glawary avesse parte delle caratteristiche di Angela Merkel. Sempre che venissero rispettati il carattere “visionario”, l’equilibrio tra parole e musica e la magnifica partitura. Nel 1990, il Teatro dell’Opera di Roma presentò un allestimento curato da Mauro Bolognini in cui la vicenda veniva ambientata negli anni Trenta, prima della Seconda guerra mondiale i cui spari restavano distanti: costruito attorno a Raina Kabaivanska e Mikael Melbe, funzionò perfettamente e fu ripreso sia nella Capitale sia in altre città. Nel 2008 ha invece toppato miseramente la messa in scena di una costosa edizione, in parte in dialetto, nella Napoli della “munnezza”.

L'edizione in scena al Teatro Filarmonico di Verona sino al 2 gennaio non è un allestimento natalizio a basso costo. E' il risultato di una coproduzione tra quattro teatri (quelli di Trieste, Genova e Napoli, oltre che la fondazione della città scaligera). La regia di Federico Tiezzi sposta l’azione dal 1905 al 1929, più precisamente al 29 ottobre di quell’anno, crollo di Wall Street e inizio della grande depressione economica e finanziaria, evidenziata da indici di Borsa evocati sullo sfondo. La trovata non è del tutto originale ma, come si è detto in precedenza, più che legittima: un’edizione di “Arabella” di Strauss in scena a Francoforte porta la vicenda da una Vienna sconfitta dopo la guerra austro-prussiana del 1866 alla crisi dei mutui subprime nel 2007, ma funziona efficacemente e sottolinea la centralità di denaro ed eros, i motori dell’intreccio. Le scene di Edoardo Sanchi e i costumi di Giovanna Buzzi esprimono bene il clima. “La Vedova allegra” si svolge in una Parigi visionaria, quale immaginata dal piccolo ufficiale Lehar e in cui nonostante la crisi sempre sul sottofondo e l'imminente bancarotta di uno Stato sovrano, si danza, ci si corteggia, si fa l'amore in locali notturni (Chez Maxim's) assolutamente immaginari. Il gioco funziona bene.

“La Vedova allegra” è soprattutto grande musica. Julian Kovatchev ha il tocco giusto per una partitura in cui tre quarti dei numeri musicali sono senza l'ambiguo tempo di valzer caratterizzato da profondità della leggerezza. Un tempo, afferma il protagonista maschile, che fa dimenticare “tre quarti della propria virtù” e che, secondo “La vedova”, potrebbe indurre “a metter di canto anche l'ultimo quarto” . Kovatchev ha l'equilibrio corretto, al tempo stesso profondo e leggero, tra ironia e nostalgia per un mondo al crepuscolo, anche perché assecondato da un orchestra e corpo di ballo appropriati (quelli dell’Arena di Verona). Con l’eccezione di Bruno Praticò, veterano dell’opera comica e sempre presente al Rossini Opera Festival, il cast è giovane e canta, recita e balla bene. La protagonista femminile è Silva Della Benetta, una voce ben educata e in grado di cantare efficacemente la grande “aria-canzone” del secondo atto, ma con un volume piccolo per il grande Teatro Filarmonico. Il baritono albanese Gezin Myshketa è il protagonista maschile. Una voce agile e vellutata e una bella presenza: è destinato, al pari dei connazionali, Mula e Pirgu a una promettente carriera. Nella seconda coppia (Velencienne e De Rossignol) Davinia Rodriguez vince ai punti (per sensualità e voce) su Ricardo Bernal. Di buon livello i numerosi cantanti attori in parti secondarie. Esilarante Gennaro Cannavacciuolo nel ruolo di Njegus.

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