FOCUS
Qualche proposta per affrontare la crisi e far ripartire il paese
Il segreto della crescita?
Si chiama "capitale umano"
di Giuseppe Pennisi Dopo le vicende politico-parlamentari delle ultime settimane è indispensabile, tanto per il Governo quanto per le opposizioni, trovare un denominatore comune di politica economica a medio termine per riportare l’Italia nel sentiero di crescita nella stabilità. Ci sono rischi e incertezze ancora forti nel contesto internazionale; mosse sbagliate o anche soltanto l’impressione di essere senza obiettivi chiari e senza strumenti per pilotarli può causare una crisi finanziaria (con forti aumenti dello spread tra titoli italiani e tedeschi a lungo termine e una crescita esponenziale del debito pubblico) analoga a quella del settembre 1992.
Ecco in anticipo alcune proposte che verranno esposte più compiutamente nel prossimo numero di Charta Minuta. La politica economica italiana non ha alternativa al muoversi nel solco segnato da un lato da Europa 2020 e dall’altro dal nuovo Patto di Crescita e di Stabilità. A ragione della propria struttura produttiva e delle caratteristiche del proprio sistema di servizi finanziari, l’Italia è riuscita a scansare le implicazioni peggiori della crisi finanziaria ma il reddito pro-capite è rimasto immobile, il divario tra “chi e chi non ha” (su base principalmente territoriale) aumenta, il tasso di disoccupazione tende verso il 10% di coloro che vogliono e possono lavorare, l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni è attorno al 5% del Pil e lo stock di debito pubblico avanza verso il 120% del reddito nazionale. Le mie stime indicano la necessità di un saldo primario attivo di bilancio (ossia risultato di esercizio al netto del servizio del debito) almeno del 5% del Pil l’anno per i prossimi dieci anni al fine di rientrare nel solco europeo. Dato che tale obiettivo non può essere raggiunto tramite un aumento della pressione tributaria e contributiva, si dovrà perseguire una strategia rigorosa della riduzione della spesa pubblica. Come farlo senza mettere ulteriormente in pericolo la coesione sociale è il problema centrale che dovrà essere affrontato da chiunque abbia responsabilità (di Governo o di opposizione).
In primo luogo, le riduzioni della spesa hanno, se ben modulate, un buon effetto moltiplicativo su consumi, investimenti e occupazione, un effetto maggiore del deficit financing di stampo keynesiano. Occorre tenere presente che la struttura produttiva del paese, costituita da piccole e medie imprese specialmente nel manifatturiero, da elemento di forza durante la crisi può diventare elemento di debolezza. La Germania mostra di essere riuscita ad aumentare il grado d’internazionalizzazione tramite un processo di concentrazioni aziendali in cui servizi e manifatturiero sono stati integrati nella stesse imprese al fine aumentare competitività tramite una più efficiente catena del valore. La politica pubblica dovrebbe adesso favorirne uno analogo in Italia.
La semplificazione normativa e le liberalizzazioni sono gli strumenti principe per farlo: oggi il groviglio di norme e di regolamenti è tale che piccole e medie italiane si trasferiscono non solo in Stati neo-comunitari dell’Europa dell’Est ma nello stesso Canton Ticino e nel francese Departement Rhones-Alpes quasi ai confini con il Piemonte. Appare urgente una sunset legislation (normativa del tramonto) che, dopo un certo numero di anni, imponga il decadimento di leggi e regolamenti se non approvati di nuovo dall’autorità politica (Parlamento, Consiglio Regionale, o Provinciale o Comunale).
In secondo luogo, il metodo delle “riduzioni lineari” per la spesa pubblica ha il fiato corto. Occorre adottare un metodo selettivo. Si è tentato, di mutuare, non con grandi esiti, le Spending Reviews britanniche ma si è posta poca attenzione al Programme de Rationalization des Choix Budgettaires grazie al quale la Francia degli Anni Ottanta è passata da una situazione di deficit crescenti e svalutazioni periodiche al Patto del Louvre del 1987 con il quale veniva stabilito (a conti risanati) il cambio fisso tra franco francese e marco tedesco. Caratteristiche del Programme erano la selettività e la trasparenza poiché gli studi e le analisi che portavano a tagli selettivi venivano pubblicati in un periodico edito da La Documentation Française e diventavano oggetto di dibattito. Quale che sia la strada scelta, sarà essenziale rivalorizzare il servizio studi della Ragioneria Generale dello Stato (che è stato creato alcuni anni fa appositamente a questo scopo) e i servizi studi dei due rami del Parlamento. Una selettività delle politiche di spesa non deve restare declamatoria. Si possono proporre due obiettivi, in linea con quelli europei: crescita e innovazione, da un canto, coesione sociale, dall’altro.
Una proposta interessante emerge dalle analisi relative ai “miracoli economici” del secondo dopoguerra . Essi sono stati avviati ma anche affievoliti e spenti a ragione della esistenza di uno forte stock di capitale umano e della sua erosione: quando il capitale umano non è più in linea con le trasformazioni della struttura della produzione e del mercato del lavoro, la spinta che ha dato vita al “miracolo” si esaurisce e si torna su una tendenza di lungo periodo. Quindi, l’indicazione di una politica economica basata su una politica attiva della formazione del capitale umano, nonché su quella del funzionamento del mercato del lavoro, della politica della salute e del sistema previdenziale.
Un’ipotesi analoga è stata formulata di recente dal Premio Nobel James Heckman della Università di Chicago e da Bas Jacobs della Università di Tilburg : il rallentamento di lungo periodo dell’Ue viene individuato nella carenze delle politiche della formazione e di utilizzazione di capitale umano, politiche che dovrebbero essere “re-inventate” anche a ragione dell’invecchiamento della popolazione. La formazione di capitale umano viene frustrata se il resto delle politiche economiche ha l’effetto di abbassare i rendimenti dell’istruzione e della formazione: ad esempio, alti tassi marginali d’imposizione tributaria e ammortizzatori occupazionali e sociali molto generosi riducono i tassi di partecipazione alla forza lavoro e le ore effettivamente lavorate con la conseguenza di una utilizzazione del capitale umano più bassa dell’ottimale. Osservazioni analoghe possono essere fatte per sistemi o regimi previdenziali che incentivano a lasciare la vita produttiva in età relativamente giovane.
Da queste analisi si può partire per giungere a indicazioni più specifiche sia in materia di riduzioni di bilancio sia di politiche attive per l’inclusione sociale. Per individuare cosa fare in materia di politiche attive, particolarmente utile un lavoro di David Card (Università della California a Berkeley), Jochen Kluve (Iza, ossia istituto federale tedesco per lo studio del lavoro) e Andrea Weber (Università di Mannhin) . Il lavoro copre un periodo lungo – dal 1995 (massima diffusione delle politiche ”attive”) al 2007 (lo scoppio della crisi)- ed esamina l’impatto di 199 programmi sulla base di 97 studi empirici al fine di trarne implicazioni di politica legislativa e di allocazione di risorse. La conclusione è che le politiche “attive” meno efficaci sono quelle imperniate su programmi d’occupazione nel settore pubblico (per intenderci, i lavori socialmente utili o di pubblica utilità). Abbastanza efficaci , invece, le misure di assistenza alla ricerca di un impiego. Mentre, nel breve periodo, la formazione e la riqualificazione sembrano avere impatti modesti, dopo due-tre anni paiono avere risultati significativi.
Ciò ha implicazioni significative per l’Italia . Gran parte della spesa pubblica per ammortizzatori occupazionali è per politiche “passive” di sostegno del reddito, nel cui ambito hanno assunto un ruolo sempre maggiore quelle “in deroga” (ossia per categorie tradizionalmente al di fuori dal “comparto” degli ammortizzatori). Siamo, però, riusciti a smaltire una percentuale molto significativa dei programma d’occupazione straordinaria nel settore pubblico. Non fanno difetto le risorse per la formazione, e riqualificazione; tuttavia, dati recenti indicano che le Regioni dove le esigenze sono maggiori (quelle del Sud e delle Isole) sono in grande ritardo nell’utilizzazione di fondi europei (che rischiano di essere convogliati verso altri Stati dell’Ue).
20 dicembre 2010
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