domenica 30 marzo 2008

VINI. MODA E FORMAGGI ; SIAMO CONCORRENTI IN TUTTO, Il Tempo 29 Marzo

Tra Italia e Francia, cugini latini ed alleati in tanti campi, è in corso una drôle de guerre (buffa guerra) – venne chiamato così il periodo tra il 3 settembre 1939 ed il 10 maggio 1940 quando soldati francesi e tedeschi si fronteggiavano nelle trincee ma non veniva tirato un sol colpo- che si estende dalle donne, alla moda, ai fini, ai formaggi, alle aziende ed a tanti altri settori.
Ne ebbi la prima prova nel lontano 1994 ammirando una graziosa palazzina nel centralissima Via Lagrange a Toriniìo (a fianco di Palazzo Carignano e del mitico ristorante Il Cambio) con tre bandiere di cui una del tutto a me sconosciuta. Entrai. Era l’ufficio torinese del Dipartimento “Rhône-Alpes Maritimes”: suo scopo invitare aziende a trasferirsi al di là del confine indicando gli sgravi tributari, l’eccellente capitale umano, l’infrastruttura e la pace sociale. Il direttore mi disse con orgoglio che nei due anni precedenti ben 500 aziende torinesi, lombarde e ligure erano andate al di là della frontiera, trasferendovi sede sociale e compagnia cantante. Dal canto nostro, nelle istituzioni e nelle sedi ufficiali boicottiamo da sempre lo “champagne”. Cossiga ricorda che al Quirinale se ne bevve soltanto in occasione del commiato; in tutti gli altri si brinda “con il nostro meraviglioso prosecco”. Pure in materia di vini è in corso una guerra sotterranea: In una prima fase, i francesi temevano che invadessimo il loro mercato interno di vin ordinaire con prodotti italiani a basso costo e bassa qualità. In una seconda, la guerra è sul mercato internazionale: grazie al progresso tecnologico (sviluppato in California ma da noi arte sopraffina) si può controllare elettronicamente temperatura ed umidità come nelle caves della Borgogna e del Bordolais ; i nostri viticoltori, dunque, aggrediscono con vini di qualità (i francesi dicono la loro è molto superiore) a prezzi pari a meno della metà di quelli d’Oltralpe. Qualcosa di analogo per i formaggi. In Francia ce ne sono oltre 500 varietà; il Generale De Gaulle ricordava “les payans du Cantal” (“i contadini del Cantal”, al tempo stesso un dipartimento territoriale ed una marca di formaggio) per l’apporto dato alla liberazione. Diede loro in cambio la politica agricola comune (minacciando di fare saltare la nascente Europa in via d’integrazione). Noi attacchiamo con il parmigiano stagionato che nei negozi specializzati di alimentari di Rue du Bac a Parigi si vende come se fosse oro.
E le donne? I parigini raffrontano Carla Bruni a Maria dei Medici, la principessa fiorentina finita sul trono di Francia tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento e postasi a capo di molteplici intrighi (veri o presunti). Un giornalista italiano di mezza età dice di nutrire ammirazione mista ad invidia per Sarkozy; considera le nozze con Carla Bruni una sorta di ratto delle Sabine del XXI secolo.
Dalle donne alla moda? Quante case di moda con il marchio italiano sono ormai parte del conglomerato LVMH Louis Vuitton Moët Hennessy , una delle maggiori multinazionali del lusso? E lo stesso Palazzo Grassi sul Canal Grande a Venezia è stato ceduto dalla Fiat al finanziere francese François Pinault che ne ha fatto una propria, e personalissima, sede per mostre di arte contemporanea. Noi ci siamo rifatti in parte con i giornali : un editore italiano ha controllato per alcuni anni “France Soir” ed un altro detiene adesso il 33% dell’azionariato di “La Tribune”. La drôle de guerre dunque non riguarda solo la mozzarella e l’Alitalia (Absit iniuria verbis , ovvero con rispetto parlando), ma molto, molto di più.

TROPPI FONDI PENSIONE NON PORTANO RENDIMENTO. Libero 29 marzo

Nei Paesi dove il sistema previdenziale pubblico non viaggia verso un sistema puro a capitalizzazione (in cui le prestazioni sono finanziate con i rendimenti sul montante accumulato tramite i contributi degli iscritti), la tendenza è di andare verso sistemi a capitalizzazione figurativi, sul tipo dei Ndc (National defined contribution) introdotti, inizialmente, in Italia ed in Svezia, quasi parallelamente, nel 1995. Tali sistemi comportano inevitabilmente una riduzione delle spettanze (e delle prestazioni) dalla previdenza pubblica rispetto agli ultimi redditi in vita lavorativa significatamene maggiori di quelli previsti nei sistemi previdenziali a meccanismi “retributivi”, in cui spettanze e prestazioni sono calcolate sulla media di un certo numero di anni di redditi da lavoro. Quindi, la necessità di una previdenza privata integrativa o complementare per evitare di dover fronteggiare un forte calo dei tenori di vita in età anziana. In saggio di K. M. Kannan nell’ultimo numero della “International Social Security Review” conferma che questa è la tendenza della previdenza sociale in un mondo in via integrazione economica internazionale.

In Italia, la previdenza integrativa fa difficoltà a decollare. Un lavoro, in corso di pubblicazione, di Adam Daniel Dixon dell’Università di Oxford (“La crescita del capitalismo dei fondi pensione in Europa- una rivoluzione invisibile?”) esclude l’Italia dai Paesi europei in cui si sta verificando tale “rivoluzione invisibile”, mentre dimostra su come i fondi pensioni abbiano trasformato anche un capitalismo in parte sclerotizzato come quello francese. Quali le determinanti e quali le possibile cure da attuare nella XVI legislatura?

Le statistiche più aggiornate sono quelle dell’ultima relazione annuale della Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione (Covip) che fotografa la situazione a fine 2007 ma fornisce anche le prime indicazioni offerte dalla normativa del 2004 sul trasferimento del trattamento di fine rapporto (tfr) ai fondi. Tale trasferimento (ovviamente volontario o semi-volontario) sembrava il toccasana per fare decollare i fondi, il cui impianto di base risale alla “riforma Amato” della previdenza del primo scorcio 1993, ossia ben tre lustri fa.

Alla fine del 2007, gli aderenti a fondi pensione od a piani previdenziali individuali erano 4.5 milioni pari al 20% circa degli occupati e le risorse (uno stock) 57 miliardi di euro pari a meno 5% del pil (in termini di flusso) ma a meno dello 0,3% dello stock di ricchezza degli italiani. Lo dice a tutto tondo un recente rapporto Ocse : l’Italia è l’ultima in classifica in termini di attività dei fondi : non toccano – come si è detto- il 5% del pil rispetto ad oltre il 120% in Svizzera, Olanda, Islanda, ed ad oltre l’80% in Gran Bretagna e Australia I dati italiani includono un milione circa di aderenti a polizze previdenziali-assicurative individuali con un investimento totale attorno a 5 miliardi di euro.

La Covip è ottimista per quanto riguarda il futuro; in passato il suo ottimismo si è rivelato più “aziendale” (a difesa della propria sopravvivenza) che basato su elementi concreti. L’analisi dei rendimenti non è incoraggiante: quelli dei fondi negoziali (ossia previsti nella contrattazione collettiva) hanno toccato una punta del 7,5% netto nel 2005 ma sono scesi dal 5% nel 2003 al 3,8% nel 2006. Non vanno meglio i fondi aperti: dal 5,7% nel 2003 al 2,4% nel 2005. Possiamo consolarci poiché la situazione non è più brillante nella vicina Spagna: l’ultimo rapporto dell’istituzione di controllo dei fondi spagnoli rivela che dal 2001 al 2006 il tasso di rendimento è stato il 2,9% l’anno, inferiore a quello d’inflazione (3,2% l’anno). Sono soprattutto i lavoratori giovani a guardare a questi indicatori con perplessità. Il britannico “Financial Analists Journal” parla addirittura di insolvenze di alcuni fondi del Regno Unito. Di converso, il consuntivo 2006 del fondo pensione dei dipendenti della Banca mondiale espone un tasso di rendimento del 14,1% per l’anno di riferimento e una media del 8,5% per il periodo 1997-2006. Quindi, fondo pensione non vuole sempre a rendimenti risicati. Possono essere elevati se la consistenza è elevata e la professionalità dei gestori molto alta.

Il vero nodo italiano è che i 57 miliardi di euro sono frantumati su circa 600 fondi ed un milione di polizze individuali . I fondi di nuova istituzione (in base alle normative degli ultimi anni) sono 146; gli altri pre-esistenti. I fondi negoziali sono 42, interessano ormai tutti i settori dell’economia ma non raggiungono 1,5 milioni di iscritti, nonostante gli sforzi per incoraggiarli. La polverizzazione del settore ha dato vita ad una miriade di fondi lillipuziani che rischiano di essere fortemente penalizzati alla prima tensione sui mercati finanziari e spazzati via al primo temporale azionario o monetario. In Cile, quando circa 30 anni fa, la previdenza venne articolata prevalentemente su fondi pensione (addirittura sostitutivi del sistema pubblico), il loro numero venne limitato a sei proprio per assicurare che fossero sufficientemente robusti. Quando venne varata la “riforma Amato”, non mancarono suggerimenti in tal senso, ma vinse la teoria dei cento fiori – di consentire ad una pluralità di soggetti interessati di dare vita a fondi pensioni o gestiti direttamente o da affidare in gestione a specialisti. La Covip avrebbe avuto il compito di pilotare il compattamento dei fondi in pochi istituti ma sufficientemente robusti da consentire quella diversificazione del portafoglio che può cercare di massimizzare il rendimento, minimizzando il rischio. L’attuale Cancelliere dello Scacchiere britannico Alastair Darling quando una diecina d’ anni fa visitò l’Italia nelle vesti di Ministro di Stato di Sua Maestà per la riforma della previdenza la definì “utterly useless” (del tutto inutile). Lottizzata in gran misura tra ex-sindacalisti non è stata oggettivamente in grado di frenare la frammentazione. Se ne è accorto anche il centro-sinistra: nella riforma delle Authority presentata in Parlamento oltre un anno fa, se ne prevedeva la soppressione. E’ un punto importante da mantenere. Al tempo stesso si devono recepire i meccanismi della riforma della previdenza in Grecia per consolidare in non più di 7-8 fondi pensione, il centinaio (invece dei 600 nostrani) gracili fondi pensione sorti come funghi nella Repubblica Ellenica. Occorre, poi, modificare le regole sulla governance dei fondi: indicazioni molto utili (sulla base, principalmente dell’esperienza svedese) si possono trarre dal lavoro "Pension Reform, Ownership Structure, and Corporate Governance: Evidence from a Natural Experiment" di Mariassunta Giannetti e Luc Laeven in corso di pubblicazione nel prossimo numero della “Review of Financial Studies”.

DALLA : LA MIA OPERA MELO E MOLTO POPOLARE, Il Tempo 30 Marzo

Lucio Dalla in un veste non del tutto nuova – quella di regista di un’opera lirica. L’anno scorso ha curato la regia di una chicca di Ferruccio Busoni “Arlecchino”- un atto unico raffinato, con pochi personaggi, applaudito al Festival di Westford, nonché apparso alcune sere fa in anche televisione. In precedenza, oltre all’adattamento di “Tosca”, aveva al suo attivo un elegante “Pierino e il lupo” di Prokofief – sempre a Bologna. Questa volta si cimenta, però, con la “Beggar’s Opera” (L’opera del mendicante) di John Gay, un’opera andata in scena nel 1728 a Londra ed in cui si alternano parti recitate e parti cantate (in stile barocco). Il lavoro che ispirato per vari adattamenti autori moderni come Kurt Weill, Benjamin Britten e Duke Hellington. Nell’edizione di Frederic Austin del 1920 (quella adottata da Dalla) ha avuto 1473 repliche al Lyric Theatre di Hammerschmidt (a Londra).
“E’ una delle avventure più divertenti e stimolanti in cui mi sia tuffato”- ci dice Dalla, il quale, vale la pena sottolinearlo, fa queste regie liriche per pura passione, ossia senza riceverne un cachet. “ Nonostante l’opera sia stata scritta e composta trecento anni fa, parla un linguaggio assolutamente contemporaneo: siamo alle prese con una folla di ladri e prostitute, di ricettatori e di imbroglioni: Mr. e Mrs. Peachum, (il loro nome è Speja in questa versione, gli interpreti Peppe Servillo e Angela Baraldi), la loro figlia e il marito di lei, Capitan Uccello il bandito rubacuori, e sullo sfondo un’umanità protagonista di uno dei primi esempi di musical della storia del teatro.”
La regia si annuncia provocatoria. Giuseppe Di Leva, che ha curato l’adattamento italiano, trasporta l’azione da Londra a Bologna senza cambiare una virgola alla vicenda, ma riducendo i numeri musicali da 70 a circa 50 (come già fatto da Austin e Britten) per rendere la durata dello spettacolo compatibile con le abitudini del pubblico d’oggi; nel 1728 al Lincoln’s Inn Field (dove il lavoro debuttò) si restava l’intera giornata a teatro, vi si pranzava, vi si intrecciavano affari di pecunia e di cuore.
Situarla, però. in una città del Nord in cui negli ultimi lustri c’è stata una forte immigrazione vuol dire una situazione analoga a quella della Londra del 1728: i personaggi parlano vari dialetti, tra cui il bolognese, il romanesco, il napoletano. Quindi, si fa ricorso ai sovrattitoli per una migliore apprezzamento dei dialoghi da parte del pubblico
“Il mendicante, che nella rappresentazione è lo stesso autore dell’opera, entra in scena. Incontra il direttore del teatro: . Comincerà così – anticipa Dalla - la mia “Beggar’s Opera”: mentre un pusher si aggira in sala offrendo della droga, il mendicante fa capire al pubblico il perché la recita si svolge nel secondo teatro cittadino, quello più popolare, il “Duse” non nella Sala del Bibiena, tempio della musica colta. E’ una scelta obbligata: questa commedia melo-satirica è una storia popolare nata da arie popolari” (tra cui una , scritta e composta per l’occasione, da Dalla in persona). “L’intenzione è di portare l’opera in spazi e un pubblico più vasto, a prezzi più contenuti, allo scopo di avvicinare i giovani al mondo del teatro in musica in generale e della lirica in particolare”. I giovani artisti, che studiano nel capoluogo emiliano, sono coinvolti direttamente: l’allestimento (scene, costumi, attrezzeria) è realizzato in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Bologna, in coproduzione con il Teatro Comunale di Modena e con i Teatri di Reggio Emilia. E’ già programmata una tournée in Spagna. Il progetto è di farlo vedere in varie città italiane nella stagione 2008-2009 che inizia il prossimo autunno.
Altre incursioni di Dalla nella musica classica? Nell’immediato, un quintetto su Benvenuto Cellini che verrà presentata a Firenze il 14 ed il 15 maggio nell’ambito del maggio musicale.

L’ANNIVERSARIO NON C’E’ MA IL 2008 SEMBRA L’ANNO DI STRAUSS. Il Domenicale 29 marzo

Nel 2008 non c’è alcuna ricorrenza per Richard Strauss, il compositore della Baviera (1864 – 1949) che più di altri seppe impregnare il teatro in musica della prima metà del Novecento. Sempre in cartellone nei programmi delle maggiori formazioni di concerto (specialmente i suoi notissimi poemi sinfonici) sono state più rare le sue apparizioni in teatri lirici. Tre le ragioni. Una a carattere politico: su Strauss, per quanto completamente scagionato, ha gravato per anni la maledizione di essere stato Presidente della federazione dei musicisti del Reich , carica, peraltro, che gli consentì di fare scappare in tempo colleghi ebrei e di farne tirare fuori alcuni proprio dai campi di concentramento: curioso che questa maledizione venisse proprio da coloro che nelle riunioni del Pci e simili facevano suonare inni composti dal musicista di corte di Hitler , Carl Orff, per le adunate dei giovani nazisti a Norimberga. La seconda è a carattere teatrale: i lavori di Strauss comportano una stretta integrazione tra parola e musica – quindi, sono quasi incomprensibili nelle “traduzioni ritmiche” approntate quando nei teatri della Penisola anche Wagner ed i russi venivano cantati in italiano. La terza è il grande organico orchestrale richiesto da quasi tutti i suoi lavori – eccezioni significative “Ariadne auf Naxos” e “Capriccio” – ed una scrittura complessa: per lavori che non hanno molte repliche si tratta di un ostacolo per i costi delle prove.
Il 2007 si è chiuso con la pubblicazione di un saggio fondamentale su Strauss del musicologo Mario Bortolotto; se ne sta progettando la traduzione in varie lingue. Nel 2008 nelle buche d’orchestra di molti teatri italiani risuonano le note di Richard Strauss. A Genova è stato ripresa, con successo, l’edizione de “Il cavaliere della rosa” di una dozzina di anni fa, vista anche a Palermo nel 1998 ed alla Scala nel 2003. A Torino è andato in scena un nuovo allestimento di “Salome” (con la regia di Robert Carsen e la bacchetta di Gianandrea Noseda) mentre l’opera di Belgrado ne porta una propria produzione a Ravenna, Rovigo ed altri teatri “di tradizione”. La lussuriosa principessa è anche in programma allo Sferisterio di Macerata. Una discussa edizione del lavoro (con regia di Giorgio Albertazzi) – si ricorderà – ha inaugurato la stagione 2007 del Teatro dell’Opera di Roma. Quasi in contemporanea, nell’arco di un mese, il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino e La Fenice di Venezia mettono in scena due allestimenti importanti di “Elektra”. Infine, “Il cavaliere della rosa” (considerata, a ragione, come la più importante commedia in musica del Novecento) approda in autunno a Roma; manca della capitale da oltre 60 anni- se ne ricorda un’edizione per alcune sere soltanto, importata da Monaco di Baviera quando eravamo alleati con i tedeschi. Quindi il 2008 è una larga intesa teatrale a favore di Richard Strauss.
Buono , soprattutto grazie alla bacchetta di Fabio Luisi, “Il cavaliere” ripreso a Genova in un’edizione scenica garbata di Pier Luigi Pizzi. Al Regio di Torino, “Salomé” non si toglie i veli ma sette anziani guardoni restano nudi; di impianto tradizionale la produzione serba. “Elektra” è il primo dei sette capolavori del binomio Richard Strauss- Hugo von Hofmannsthal; nel capoluogo toscano la messainscena vede una nuova coproduzione di Robert Carsen (con il Teatro Nomori di Tokio) ed a Venezia sale sul palco quella di Klaus Michael Gruber che inaugurò nel dicembre 2003 la stagione del San Carlo.
Il fascino di “Elektra” è nel prodigio di complementarità e di contrasto tra il testo di Hofmannsthal e la partitura di Strauss; circolare il primo (con il proprio epicentro nel confronto-scontro tra Elektra e Klytämnestra); vettoriale il secondo sino all’orgia sonora in do maggiore del finale. L’edizione fiorentina (su cui ci soffermiamo data l’importanza dell’allestimento e della direzione musicale di Seji Ozawa) mostra come sia l’azione sia la musica abbiano una struttura ad ellisse; un’introduzione quasi contrappuntistica (il dialogo delle ancelle per preparare al monologo di Elektra) si snoda in una vasta parte centrale in cui il confronto tra Elektra e Klytämnestra (colmo di disperazione) è inserito tra due altri confronti – quelli tra Elektra e Chrysothemis (rispettivamente sul significato della vita e sul valore della vendetta); in tutta questa parte centrale si sovrappongono due tonalità musicali molto differenti per unificarsi dalla scena del ritorno di Orest e del duplice assassinio e predisporre, quindi, il do maggiore della danza macabra finale. La Reggia dei Atridi a Micene è composta di tre mura grigie che racchiudono il palcoscenico. In questo clima tra il claustrofobico e l’ossessivo, Elektra, Christothemis , lo loro ancelle sono in scarne tuniche nere, Orest ed il suo precettore in grigio, Klytämnestra e Augestih in bianco (le scene di Michael Levine, costumi di Vasul Matuz, luci di Peter van Praet). La tragedia si svolge serrata tanto più che Ozawa legge la partitura dandole una concezione lirica, soffermandosi sulle sofferenza dei personaggi e facendo esprimere dall’orchestra un fasto di colori , ascoltato solo in recenti esecuzioni di Abbado. Tutte di gran livello di voci. Notissime nel ruolo Agnes Balsta ( Klytämnestra) e Susan Bullock (Elektra), la vera scoperta, per il pubblico italiano, è la straordinaria Chrysothemis di Christine Goerke.

Mauro Bortolotto La Serpe in Seno – Sulla musica di Richard Strauss Adelphi Edizioni pp. 344 € 40

venerdì 28 marzo 2008

MA COSI’ FAN TUTTE NON E’ UN’OPERETTA A BASE DI SESSO IL VELINO 28 MARZO

E’approdato a Parma il 20 marzo (si replica sino al 30) l’allestimento della mozartiana “Così fan tutte” che prodotto dall’Opéra National de Lyon ha riscosso grande successo in Francia. Lo firma Sir Adrian Noble, nominato baronetto della Corona britannica per il plauso di pubblico e critica nei venti anni circa in cui ha guidato la Royal Shakespeare Company. Spettacolo, quindi, più britannico che francese. Anzi a Parma di Oltralpe c’è rimasto ben poco visto che la direzione musicale è stata affidata ad un italiano e quasi tutte lo voci sono nostrane.
Prima domanda. Dal novembre scorso questo il quinto allestimento di “Così fan tutte” nei teatri italiani di una certa importanza. Quattro sono stati concentrati in teatri del Nord e Nord Est: uno di questi è stato in tournée per tutta la Lombardia. Era davvero necessario proporne un sesto (un quinto nelle sole regioni settentrionali) soprattutto dopo che nel 2005- anno di ricorrenze mozartiano – il lavoro si è visto ed ascoltato in una ventina di teatri della Penisola? Non sarebbe stato utile un coordinamento tra istituzioni che, ben inteso, sono autonome ma attingono tutte, per sopravvivere, alla mammella del Fus (Fondo unico per lo spettacolo)?
Seconda domanda. “Così” è il lavoro più difficile da eseguite tra quelli ideati dal duo Da Ponte-Mozart, probabilmente, con “La clemenza di Tito”, l’opera più ardua a mettere in scena di tutto il repertorio mozartiano. Per questa ragione non perché considerata “indecente” sino quasi all’inizio della seconda guerra mondiale, le sue esecuzioni sono state abbastanza rare sino all’esplosione in questi ultimi anni motivate in gran misura dal fatto che richiede unicamente sei cantanti, due brevi interventi del coro, un piccolo organico orchestrale; inoltre si presta ad allestimenti scenici sia leziosi (quasi goldoniani) sia attualizzati anche in modo abbastanza esplicito (l’intreccio riguarda letti, lenzuola e tradimenti). Non sarebbe stato opportuno concentrare le risorse per fornire qualcosa di veramente esemplare come, nei lontani Anni 70, la mitica edizione di Karl Boehm che da Vienna è arrivata negli Usa o, per un periodo più vicino a noi, quella di Patrice Chéreau e Daniel Harding che ha debuttato a Aix nel 2005 ed ha trionfato, tra l’altro, a Vienna, a Parigi ed in un’altra mezza dozzina di città (ma non si è vista in Italia) ?
Terza domanda. L’allestimento di Noble (per altro castigato rispetto a ciò che si vede nei teatri tedeschi, britannici ed ora anche svizzeri) attualizza la vicenda ai giorni nostri e la situa in un’improbabile ultima spiaggia di dune ma ne coglie un unico aspetto: quello sensuale. Il lavoro, invece, è molto più profondo: Jürgen Flimm a Zurigo e Patrice Chéreau nella produzione che ha girato per mezzo mondo scava in una dimensione più importante e più inquietante: gli intrighi ed i tradimenti della fine di un’epoca in un’atmosfera macera dove si sente puzza di morte. Il pubblico del Regio ha pensato che fosse un’operetta non un lavoro dirompente come Les Liasons Dangeures di Choderlos De Laclos. In breve, Sir Adrian Noble ha forse intrapreso il percorso più facile.
Quarta domanda. Al bravo giovane cast (Irina Lungu, Serena Gamberoni, Stefanie Iráni, Alex Esposito, Francesco Meli, Andrea Concetti), ha corrisposto un’orchestra molto poco mozartiana (e per organico e per suoni). Dato che il direttore designato Attilio Cremonesi, è stato chiamato di corsa Marco Zambelli (che si destreggia in tutti i repertori – dal melodramma, al verismo, a Gluck) a fare supplenza.
Beh, “Così fan tutti!!!

L'EROS DI COSI' FAN TUTTE, MF 28 MARZO

L’allestimento del mozartiano “Così fan tutte” in scena a Parma sino al 30 marzo e successivamente in vari teatri francesi nasce all’Opéra National de Loyn. Ma di francese ha molto poco . Lo firma Sir Adrian Noble (uno dei numi del teatro britannico, a lungo alla guida della Royal Shakespeare Company); nel 2004 in Italia una sua messa in scena de “Il ritorno di Ulisse in Patria” di Claudio Monteverdi è stata vista in 9 teatri, con successo, al termine di una tournée mondiale durata quasi tre anni. Le aspettative erano alte, anche in quanto questo inverno in Italia si sono visti quattro differenti allestimenti di “Così” in 8 teatri ed il lavoro non si rappresentava a Parma di 40 anni.
L’intreccio è noto. Convinti della fedeltà delle loro fidanzate ferrraresi, due giovanotti napoletani tentano ciascuno di sedurre la donna dell’altro (sperando di fare cilecca a ragione della virtù delle loro donne).Loro malgrado, ciascuno dei due finisce nelle braccia della donna dell’altro. Quando, nel finale, tutti e quattro sono nei letti appropriati, tutti hanno consapevolezza della fragilità del gioco dell’amore e degli inganni. E’ un gioco non soltanto erotico ma riguarda i tradimenti alla Corte Reale tra cordate massoniche in un’atmosfera avverte acutamente Patrice Chéreau, in cui si sente “puzza di morte”: è la fine non solo del Settecento, ma di un’epoca.
Noble trasferisce la vicenda ai giorni nostri in una spiaggia piena di dune con , a distanza, le luci di una città; il solo sport che vi si pratica è orizzontale – accoppiarsi in rossi tramonti ed al lume di notturni falò, in bikini e bandana. Il tema di fondo dell’allestimento è il consiglio dato da Despina (la cameriera factotum) alle due ferraresi: “fate l’amor come assassine!”. Quindi, l’accento è sugli aspetti erotico-sensualipresenta . Assente il contesto di un mondo macero dove le cui lenzuola trasudano sudore amaro.
Sotto gli aspetti strettamente musicali, di buon livello i sei cantanti (Irina Lungu, Serena Gamberoni, Stefanie Iráni, Alex Esposito, Francesco Meli, Andrea Concerti), specialmente il gruppo di voci maschili ed in particolare Francesco Meli, astro nascente dei tenori lirici puri del teatro in musica italiano ed europeo. Dotati del “physque du rôle”, essenziale dati i costumi, sono tutti e sei anche abili attori. Discutibile la direzione musicale di Marco Zambelli, caratterizzata da un piglio duro (come quello, per intenderci, della registrazione scaligera di Riccardo Muti negli Anni 90), ed a volte pesante. Pur se allievo di John Elliot Gardiner, Zambelli non è specializzato nel repertorio mozartiano ma salta con disinvoltura dal melodramma al verismo, da Gluck al repertorio tedesco. Un “routinier”, nel significato migliore dell’aggettivo. A sua giustificazione, è arrivato a Parma all’antivigilia della prima per sostituire un collega che ha rinunciato all’incarico e che aveva re-integrato molti tagli “di tradizione”, dando allo spettacolo una durata di circa 4 ore. Altra attenuante: l’orchestra del Regio, diventata molto più versatile negli ultimi anni, è di impianto verdiano e veristico non mozartiano. Pur se sfoltita, evidenziava in buca un organico che era forse il doppio di quello in uso alla fine del Settecento. Con difficoltà nel governo degli impasti tra strumenti e voci.

giovedì 27 marzo 2008

LA CARTA LUFTHANSA PER GIOCARE CON SPINETTA, IL TEMPO 27 MARZO

Chi ha avuto modo di conoscerlo in altre vesti (quali quelle di direttore dello sviluppo al Ministero dell’Istruzione negli Anni 70 o di Capo di Gabinetto ai Ministeri del Lavoro e degli Affari Sociali negli Anni 80), si sarebbe aspettato da Jean-Cyril Spinetta la tattica negoziale ora in atto: un inizio in “do maggiore” con una proposta durissima, pronto però a modificarla (specialmente in materia di livelli occupazionali) al primo scontro serio con i sindacati e al sentore di cambiamento di clima politico. Ora i cannocchiali sono puntati sul 28 marzo, giorno della nuova proposta AirFrance-Klm. Ma non stupiamoci se il finale arriva a sorpresa la sera di oggi 27 marzo.
Spinetta è approdato tardi all’industria areonautica; quando il politico socialista Michel Delaberra (di cui è stato per tre lustri il braccio destro) era alla guida del dicastero dei trasporti; il nostro ne era il Capo di Gabinetto. Marc Blondel, per decenni alla guida di Force Ouvrière (il sindacato anticomunista francese), mi diceva che con Spinetta quella che conta è la seconda mossa non la prima; chi è stato in auto con lui, sa che al volante è un esperto della doppia debragliata.
Non so se i sindacati italiani abbiano avuto qualche consiglio dai cugini francesi – i più importanti sul suo “stile” riguardano come ha gestito gli scioperi nei servizi pubblici essenziali. Spinetta è fautore di quell’”ésprit de finesse” (gioco di astuzia) che i francesi giustappongono all’”ésprit de géometrie” (la rigorosa logica cartesiana); da socialista delorsiano sino al midollo ha sempre coniugato efficienza con pace sociale.
Socialismo delorsiano vuole dire pure saper annusare il cambiamento. Spinetta ha capito prima di molti altri che il leader del PdL, Silvio Berlusconi, ha scompaginato le carte, annunciando la possibile presenza di un concorrente e scatenando una vera e propria bagarre all’interno del defunto Governo Prodi e delle correnti del PD in cerca di spartirsene le spoglie.
Sotto il profilo della politica industriale, l’obiettivo di Spinetta è fermare un possibile accordo Lufthansa-Alitalia. Jean-Cyril è facilitato dal fatto che Lufthansa non vuole passare tramite partner che, a torto o a ragione, non considera all’altezza. Per Spinetta si tratta di un gioco su due tavoli: su uno, con i suoi azionisti che vorrebbero Alitalia possibilmente gratis; sull’altro, mentre Prodi, TPS WV & Co. ballano un travolgente can can, il gioco è con un probabile nuovo Governo italiano ed un sindacato che potrebbero rendere più facile l’ingresso in Italia di Lufthansa tramite una cordata così numerosa da fare perdere visibilità ai partner a cui i tedeschi non vogliono bene.
La teoria dei giochi (vi ricordate il Nobel John Nash del film “A Beautiful Mind”?) insegna che è possibile massimizzare popolarità su un tavolo e capacità di incidere sull’altro. Oppure non svendere Alitalia su un tavolo e prepararne il rilancio sull’altro. Ma Prodi, WV, TPS & Co. di teoria dei giochi non si intendono.

mercoledì 26 marzo 2008

CRITICARE LA BUNDESBANK ADESSO NON E’ PIU’ REATO. LIBERO 26 MARZO

C’è più di una ragione per dare peso al dibattito innescato in Germania degli interventi delle autorità monetarie americane dai recenti salvataggi bancari. In primo luogo, pur se formalmente tutti gli Stati dell’Ue e tutti quelli che aderiscono all’unione monetaria sono uguali, per il suo peso specifico in popolazione e pil, per il suo ruolo dell’export mondiale e per l’influenza che esercita sull’Austria, sul Benelux e su molti Paesi neo-comunitari (specialmente quelli che aspirano ad entrare nell’euro), la Repubblica Federale è, orwellianamente parlando, “più uguale degli altri”. Inoltre, senza mettersi sotto le luci della ribalta, ma utilizzando l’istituto pubblico Kfw , la mano pubblica tedesca è intervenuta ben tre volte nel corso dell’estate e dell’autunno per il salvataggio di una banca operante a livello dell’intera federazione, la Ikb, e due di singoli Länder, la Sachsen Lb e la West Lb. In terzo luogo, però, l’intervento pubblico cozza con l’ortodossia che ha caratterizzato la Bundesbank e che, su richiesta tedesca, ha plasmato la Banca centrale europea (Bce).
E’ in questo contesto che ha destato discussioni vivaci, non solo tra esperti, un editoriale della Sűddeutsche Zeitung apparso il 15 marzo in cui si invitava a “pensare l’impensabile”. In parallelo, il quotidiano economico Handelsbatt ricordava alle banche centrali (non solo a quella tedesca ed alla Bce) ed alle autorità di regolazione che “il loro compito è quello di infondere fiducia”. Pure accantonando l’ordotossia? “Da un canto ci sono i principi – scrive la Sűddeutsche Zeitung -, da un altro, le urgenze, casi eccezionali in cui l’intervento pubblico diventa indispensabile”.
Solo editoriali di quotidiani, per quanto autorevoli, oppure un più vasto ripensamento? La stampa grida troppo, affermano al centro di ricerca economica Iw di Colonia. Ciò non contribuisce a risolvere i problemi ma anzi semina il panico, incalzano all’istituto Rwi di Essen. Toni differenti all’istituto di studi economici di Berlino, Diw, di impronta keynesiana e neostrutturalista. Uno dei suoi esperti di vaglia, Alfred Steinherr, sottolinea che la crisi subprime è la punta di un iceberg molto più vasto e profondo: le disfunzioni nel sistema di governance del sistema bancario internazionale che né le banche medesime ne il Fondo monetario né la Banca dei regolamenti internazionali sono riuscite ad assicurare.
A Francoforte, cuore finanziario della Repubblica Federale, si mostra il saggio di apertura di una rivista scientifica datata febbraio 2008 (in effetti in distribuzione) l’ Icfai Journal of Monetary Economics : in 25 dense pagine, sue economisti di rango, uno indiano Rangan Gupta ed uno di nazionalità sud-africana, Andreas Karapakatis, si chiedono se la liberalizzazione finanziaria sia un mito od una “cura miracolosa” – anzi talmente miracolosa da funzionare bene nel Paese delle Meraviglie. Un lavoro, ancora inedito (ma in circolazione tra gli amici dell’autore), di Christoph Memmel del servizio studi della Bundesbank giunge a conclusioni analoghe tramite un percorso più tecnico: l’analisi di 260 episodi di mutamenti della “curva dei rendimenti” (il divario tra rendimenti a breve e rendimenti a lungo termine) sulle casse di risparmio e sulle banche di credito cooperativo della Repubblica Federale: gli sbalzi (quali quelli di questi mesi) comportano lacrime e sangue che possono mettere a repentaglio il sistema.
Non bastano le paratie dell’Ue ed in particolare dell’unione monetaria? Sono più deboli di quel che non si pensi – sostiene un lavoro interno del Fondo Monetario , lo IMF Working Paper No. 07/260 in cui si auspica l’adozione di benchmark specifici per “valutare l’abilità delle istituzioni europee ad allocare risorse in modo efficiente contro minacce sistemiche alla stabilità finanziarie, quali l’insolvenza di una banca pan –europea”. E’ una tesi che sposa in pieno Peter Bofinger – uno dei cinque consiglieri economici del Governo federale: l’Europa deve rimettere presto la propria casa in ordine al fine – ed è questa la parte più innovativa – di poter organizzare un’azione concertata della comunità internazionale nei confronti della perdita di valore internazionale del dollaro.

TRE MOSSE PER CAMBIARE LA PREVIDENZA, IL TENPO 26 MARZO

Sino a due settimane circa dalle elezioni , il tema delle pensioni non è entrato tra quelli al centro del dibattito. Ve lo ho posto il leader del PD Walter Veltroni (WV) con una proposta d’aumento dei trattamenti più bassi. Secondo le stime dai lui stesso presentate costerebbe 2,5 miliardi di euro – da aggiungersi ai 15 miliardi di euro delle misure varate con la legge 247 del 24 dicembre 2007- da finanziari facendo ricorso all’erario (aumentando la pressione fiscale).
Un problema reale c’è. Le pensioni più modeste sono state falcidiate in termini di potere d’acquisto comparato dalle modifiche all’indicizzazione apportate dal Governo Amato nel 1993 e dal Governo Prodi nel 1996 Tuttavia, la proposta di WV porterebbe la spesa per la previdenza pubblica al 17% del pil (la media europea è il 10%) bloccando finanziamenti per sanità, infrastrutture, scuole ed altro.
Il miglioramento delle pensioni più basse può e deve essere trovato all’interno della spesa previdenziale con tre mosse parallele. In primo luogo, l’aumento dell’età effettiva di pensionamento. Indagini recenti- quali quella della Harris Interactive - mostrano che ciò è fattibile; l’abrogazione dei limiti d’età per chi vuole e può lavorare abolirebbe una discriminazione contro gli anziani da molti ritenuta incostituzionale. In secondo luogo, occorre rivedere ciò che in gergo è chiamato il “tasso di copertura”: è fattibile andare a riposo con una percentuale più bassa dell’attuale degli ultimi stipendi prevedendo una maggiore indicizzazione dopo i 75 anni d’età (quando aumentano le esigenze di cure). In terzo luogo, occorre introdurre il contributivo per tutti: gli svedesi lo hanno fatto nell’arco di tre anni, non di 18 come si prevede da noi,

LE PENSIONI DI VELTRONI NON SONO QIUELLE CHE CONOSCONO GLI ITALIANI DA L'OCCIDENTALE DEL 26 MARZO

Ieri 25 marzo , “Annunciazione del Signore” (come indicato sui maggiori calendari), il candidato del PD WV (Walter Veltroni) ha rotto quello che sembrava un patto implicito, ovvero un primo segno di “grandi intese”: considerare la materia previdenziale “un tabù” (od una parolaccia) di cui parlare il meno possibile in questa campagna elettorale. Le ragioni del “tabù” sono state illustrate dettagliatamente su L’Occidentale del 17 marzo unitamente alla proposta di sei misure per rimettere in sesto il sistema (nonostante la controriforma varata dalla sinistra con la legge n. 247 del 24 dicembre 2007 – ossia mentre già suonavano i tamburi di chiamata alle urne. Il PdL ha incluso una proposta – adeguare i trattamenti al costo della vita con un effettivo aggancio alla sua evoluzione- ma non ne ha parlato o quasi nelle manifestazioni elettorali. Il PD sfiora appena l’argomento nel “dodecalogo”.
Occorre chiedersi perché WV (che già da due-tre anni fruisce di una pensione di 5000 euro al mese netti in quanto ex-Parlamentare, trattamento che aumenterà considerevolmente se farà, come probabile, altre legislature in Parlamento ed a cui si aggiungerà la pensione da giornalista) abbia inteso scegliere il giorno dell’”Annunciazione del Signore” per porre l’argomento sul tavolo delle due ultime settimane di campagna elettorale. Vale la pena, poi, entrare sul merito economico-finanziario della proposta.
Sotto il profilo politico, la “rupture” di WV, forse provocata dalle polemiche di stampa sulle sue pensioni personali, ha due implicazioni significative : a) un’abiura rispetto alle riforme Amato (1993) e Prodi (1996) che modificando i meccanismi di indicizzazione pre-esistenti (agganciavano le pensioni ai movimenti medi dei salari quali computati dall’Istat) hanno posto gli incrementi dei trattamenti al di sotto dello stesso indice “armonizzato” dell’aumento dei prezzi per le famiglie degli operai e degli impiegati (quale calcolato secondo procedure concordate in Eurostat), erodendo il valore delle pensioni anno dopo anno; b) il tentativo di trovare un’ultima spiaggia tra i pensionati più “arrabbiati” poiché i sondaggi affermano che, consapevoli dei danni loro creati dalle riforme Amato e Prodi, intendono votare PdL e Sinistra Arcobaleno, snobbando il PD. E’ una mossa politica apparentemente astuta se non altro perché distoglie l’attenzione dalle sue pensioni personali. WV dovrebbe, però, spiegare agli italiani chi era Vice Presidente del Consiglio nel 2006 e chi era uno dei maggiori elementi di sostegno del Governo Amato nel 1993 e come mai se il “Dottor Sottile” si è sbagliato tanto in materia di pensioni ai ceti più deboli è tra gli “ottimati” (o simili) del PD e Ministro dell’Interno del defunto Governo Prodi (2006-2008) che tanti danni ha fatto agli italiani. Auguriamoci che queste domande gli vengano poste in confronti pubblici – sin dall’imminente partecipazione del convegno Confagricoltura a Taormina.
Questi aspetti di “politique d’abord” interessano WV più dei conti. Lo sanno le sue insegnanti al Liceo Tasso, dove , anche per questo motivo, non restò molto a lungo. Lo dicono gli esiti del concorso d’ammissione al Centro Sperimentale di Cinematografia. La macchinosa proposta (a WV – è noto- piacciono i film barocchi alla Dario Argento) comporta un complesso di detrazioni e deduzioni tributarie per dare tra i 10 ed i 30 euro in più al mese ai pensionati delle fasce basse e medio-basse. Non solamente comporta forti costi di transazione (per amministrazione e simili) ancora non calcolati (o non presentati al pubblico) ma in termini di perdita di gettito e di incremento dei trattamenti produrrebbe un onere aggiuntivo all’erario di circa 4 (non 2,5) miliardi di euro all’anno, che si sommano ai 10-15 miliardi della legge n. 247 del 24 dicembre 2007. Ove approvata entro il 2010 la previdenza pubblica italiana assorbirebbe sino al 17% del pil (rispetto ad una media Ue del 10%). Ciò vuol dire non solo meno strade, meno scuole, meno sanità ma anche maggiori difficoltà ad onorare il pagamento di debiti ed interessi sul debito pubblico.
Non tutti gli economisti al seguito di WV concordano con l’uscita del leader del PD : la chiamano “proposta kamikaze”, ultimo tentativo , probabilmente, suicida per tentare di racimolare qualche voto al loft si da per inevitabile. E con serie conseguenze per la sopravvivenza dello stesso neonato soggetto politico.

martedì 25 marzo 2008

IMPRESE VIVACI ED EFFICIENTI BLOCCATE PER L’ECCESSO DI REGOLE da LIBERO DEL 20 MARZO

L’aspetto più significativo del rapporto Isae è l’analisi , in quattro densi capitoli, sulla ristrutturazione del sistema imprenditoriale in corso in questo inizio di XXI secolo . E’ uno studio importante sia per il metodo (indagine empiriche suffragate da modelli di micro-simulazioni) sia per i risultati. Mostra come anche in un periodo di crescita piatta (e di vera e propria crisi negli anni immediatamente seguente l’11 settembre 2001), l’imprenditoria italiana, soprattutto quella delle Regioni settentrionali, abbia dato prova di notevole vivacità e di grande abilità nel ristruttura processi e modificare prodotti – quindi, di un alto grado di “efficienza adattiva”. Lo mostrano a tutto tondo le statistiche riportate. La vivacità sarebbe stata ancora maggiore se non ci fosse un clima di incertezza che incide profondamente sulla fiducia e di imprese e di consumatori (attenzione ai dati dell’indagine Isae attesi per venerdì 21 marzo) e se la deregolamentazione non avesse avuto una vera e propria battuta di arresto negli ultimi due anni. Rendendo, tra l’altro, difficile al PD la ricerca di voti nel Nord (come confermano le più recenti analisi di Roberto D’Alimonte).
Andiamo alle caratteristiche essenziali. All’integrazione economica internazionale, le imprese italiane hanno risposto con due tipologie differenti di “efficienza adattiva”: quella “passiva” (una selezione darwiniana di autoselezione che ha caratterizzato aziende già meglio dotate); una “attiva” che ha spinto a ristrutturazioni interne, ad una maggiore focalizzazione su alcune specializzazioni produttive, ad un più spiccato orientamento verso i mercati internazionali, ad uno spostamento delle filiera produttiva verso un più alto contenuto qualitativo. Un aspetto interessante (analizzato in dettaglio per il periodo 2003-2007) è l’abilità delle imprese esportatrici ad adattare la proprio produzione ai comparti con domanda meno elastica al prezzo (quali il lusso): ciò spiega l’aumento dei prezzi all’esportazione rispetto a quelli interni, nonostante l’alto (e crescente) valore internazionale dell’euro e la sempre più aggressiva competizione cinese). Interessante notare che, nonostante le ipotesi di molti economisti del centro-sinistra, il rapporto documenta (con un lavoro statistico molto approfondito) che l’euro non ha avuto “nessun impatto di stimolo sulla propensione ad esportare nell’unione monetarie da parte delle imprese manifatturiere italiane”). Il tempo è galantuomo: oggi si dimostra che non aveva tutti i torti chi veniva considerato un bastian contrario negli anni della corsa verso la moneta unica. Altra dimensione importante: nel periodo 2004-2007, le imprese nel Nord hanno mostrato di sapere utilizzare meglio delle altre la parziale deregolamentazione del mercato del lavoro ed hanno ampliato i propri organici in misura significativa.
Un quadro, quindi, tanto più incoraggiante e tanto più positivo in quanto si situa in un contesto di stagnazione quasi dell’economia reale, di difficoltà di finanza pubblica e negli ultimi due anni di forti aumenti della pressione fiscale e di cattiva gestione della cosa pubblica. In particolare, nonostante una barocca architettura di comitati e commissione ed una marea di consulenti, poco o nulla si è fatto in termini di deregolamentazione, anche in quanto, come scrive efficacemente, Edward Lopez in un saggio in uscita su “Public Choice” nessuno si è preso la briga di deregolamentare i deregolamentatori. Non solo ma non si tenuto alcun conto dell’analisi economica nelle valutazioni di impatto della regolazione (come auspicato, sulla base di documentazione molto cogente, da Robert Hahn e Paul Tetlock nell’ultimo fasciolo del “Journal of Economic Perspectives”.

DIETRO LA VOCE DI MARRINA SERAFIN UNA TOSCA BELLA E SENSUALE DA MF DEL 21 MARZO

Al Teatro dell’Opera di Roma il mese di aprile è in gran parte dedicato a Puccini, di cui si celebrano i 150 anni della nascita: si alternano “La fanciulla del West” nell’allestimento della Los Angeles Opera con la regia di Giancarlo Del Monaco – la prima è l’8 aprile - e “Tosca” nel nuovo allestimento di Franco Zeffirelli che il 14 gennaio scorso ha inaugurato la stagione del teatro e le cui repliche si estendono sino al 27 aprile . Puccini tornerà a Roma in estate con un nuovo allestimento di “Madame Butterfly”. Il 14 gennaio, l’inaugurazione della stagione è stata interrotta più volte. Non da contestazioni ma da applausi a scena aperta e richieste di bis (di cui uno accordato), nonché da oltre un quarto d’ora di ovazioni quando è calato il sipario. Il 14 gennaio 1900 giorno in cui ha debuttato “Tosca”, è considerata, convenzionalmente, come la data in cui è cominciato il Novecento musicale italiano. “Tosca” è un vero e proprio “dramma in musica”, serrato come un “giallo”, con tanto di colpo di scena finale. Costituisce l’ingresso di Puccini nel verismo tinto da grand-opéra ed è prova di ricchissima invenzione musicale e di una prodigiosa orchestrazione (circa 60 temi intrecciati secondo il procedimento wagneriano dei leit-motiv), con cui si apre il sentiero che porta a Debussy, a Strauss a Janaceck.
Il nuovo allestimento di Franco Zeffirelli ricalca quello che per oltre tre lustri, si replica, con successo, al Metropolitan: una visione colossal di una Roma, al tempo stesso, barocca, sensuale e perversa, con una ricostruzione dettagliata dei luoghi dei tre atti (Santa Andrea della Valle, Palazzo Farnese, Castel Sant’Angelo). E’ fedele, minuziosamente, al libretto ed accattivante per il pubblico. Curatissima la recitazione.
Ha debuttato nel ruolo Martina Serafin, soprano austriaco (della compagnia della Staatsoper di Vienna) famosa per le sue interpretazioni di Strauss e Wagner. E’ una Tosca giovane, bella e carica di eros; registro ampio, fraseggio impeccabile e grande abilità nell’ascendere a tonalità alte ed a discerne. Costruisce una Tosca molto simile a quella che Zeffirelli diresse a Londra nel 1964 con Maria Callas (pure in quanto i costumi si assomigliano). Le sono stati richiesti bis al primo e soprattutto al secondo atto. Marcelo Àlvarez è un Cavaradossi generoso, con un timbro chiaro, una gestione accurata del registro di mezzo e la capacità di tenere a lungo i “do”; pure a lui richieste di bis di cui una concessa. Nelle repliche di aprile, altri tre nomi di rilievo: Myrtò Papatanasiou, Giuseppe Gipali e Silvio Zanon,
Sotto il profilo orchestrale, l’aspetto più importante è la concertazione di Gianluigi Gelmetti e la prova data dall’orchestra nello scavare in una scrittura musicale, troppo stesso trattata con un certa approssimazione. Gelmetti dilata i tempi proprio per dare modo di percepire il preziosismo dei 60 temi intrecciati (dimensione spesso trascurata nelle letture correnti).

LE PENSIONI MORDONO ANCHE SE FUORI PROGRAMMA DA LIBERO DEL 22 MARZO

La questione previdenziale è stata al centro delle campagne elettorali dall’inizio degli Anni 90. Questa volta, invece, le pensioni sono un “fuori programma”, nel senso che non se ne parla né nelle sette “missioni” del PdL né nel “dodecalogo” del PD né, tanto meno, nelle proposte degli altri partiti. Ciò vuol dire che si è risolto il problema e che del tormentone non dobbiamo preoccuparci più ? Niente affatto. Il “fuori programma” morde – così come mordevano spesso i varietà-caberet che nell’immediato dopoguerra si propinavano agli spettatori tra uno spettacolo e l’altro di film piuttosto noiosi.
Le ultime stime del disavanzo e del debito previdenziale (aggravati dalla legge 247 del 24 dicembre 2007, quella della “controriforma” attuata dal Governo Prodi) ce lo ricordano come un ammonimento. Ancora più inquietante un saggio di Nicholas Misoulis pubblicato sul periodico liberista britannico “Economic Affairs”: se non si farà nulla le tendenze demografiche e previdenziali comporteranno una riduzione progressiva dei rendimenti degli investimenti in capitale fisico e finanziario e, dunque, una lunga fase di stagnazione, ove non di declino. Il circolo vizioso parte dall’alta spesa previdenziale che frena l’economia e rende ancora più difficile mantenere le promesse in materia di assegni pensionistici destinati ad un inevitabile assottigliamento. Ancora più fosco il quadro, basato un modello econometrico costruito per la bisogna, delineato da Martin Werding nella prima parte del CESifo Working Paper No 2207 appena pubblica in Germania.
Come se ne esce? Tra tanti elementi inquietanti, ci sono alcune indicazioni positive sulle quali la politica potrebbe fare leva una volta superate le elezioni e posti i problemi previdenziali al centro della politica legislativa scacchiere , non nel “fuori programma”. Un dato recente è eloquente: un’indagine Harris Interactive (i cui esiti sono stati resi pubblici a metà marzo) indica che gli europei – l’indagine è stata condotta in Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna ed Usa – sono pronti a ritardare l’età effettiva del pensionamento (oggi attorno ai 62 anni, rispetto ai 67 degli americani). Un’inchiesta meno approfondita condotta da Bruegel (in centro di ricerche sulla politiche europee) e pubblicata quasi contemporaneamente a quella di Harris Interactive giunge a conclusioni analoghe. Un numero crescente di europei considera “discriminatorie” contro gli anziani le norme sui massimi di età per la pensione (ad esempio, 65 anni, portabili a 67 su richiesta, per i dipendenti pubblici italiani). Ciò deriva da due determinanti: a) l’allungamento della vita (e specialmente della vita in buone condizioni fisiche e mentali) e b) la crescente consapevolezza che le pensioni sono destinate a diventare sempre più esili in termini reali e rispetto alle retribuzioni di chi lavora. Circa tre lustri fa, la Corte Suprema americana ha dichiarato “incostituzionali” perché discriminatorie nei confronti degli anziani le norme ed i regolamenti che pongono limiti all’età in cui si può lavorare (sempre che si voglia e si sia in grado di svolgere le funzioni richieste dall’impiego). E’ sempre il lavoro citato di Martin Werding a sottolineare come in numerosi Paesi Ocse mantenere al lavoro gli anziani (che vogliono e possono farlo) può indicare positivamente sulla produttività multifattoriale dei sistemi-Paese. Conclusoni analoghe vengono dagli studi di un centro americano specializzato in ricerche su questi campi – si veda il Michigan Retirement Research Center Research Paper No. WP 2007-153. Uno dei primi provvedimenti del Governo Prodi fu quello di abrogare la norma della XIV legislatura con cui , in certe circostanze, consentiva agli statali di restare in servizio sino al compimento dei 70 anni di età. Una misura, quindi, in controtendenza rispetto agli orientamenti del resto del mondo.

Cosa è, al tempo stesso, desiderabile e fattibile? Non certo tornare allo “scalone” (capitolo ormai archiviato), ma rimuovere i limiti di età a chi vuole lavorare ed è in grado di farlo ed applicare il tutto il metodo contributivo per il calcolo delle spettanze (anche nella forma “pro-quota”, ossia mantenendo agganciati al “retributivo” gli anni di iscrizione al sistema previdenziale in cui si era in quel regime). Ripensare, poi, la previdenza complementare. Ma questo è un altro capitolo. Buona Pasqua a tutti.

ORA TOCCA AGLI STATES LIBERARCI DALLA CRISI DA IL TEMPO DEL 23 MARZO

Su Il Tempo del 19 marzo si è sottolineato come la soluzione all’attuale crisi dei mercati internazionali sia in primo luogo a Washington, poiché, iniziata negli Stati Uniti, necessita risposte politiche che unicamente le autorità Usa possono dare. Alcune risposte sono nell’area di competenza della Casa Bianca, altre in quella del Congresso, altre ancora in quelle dei singoli Stati dell’Unione (la cui normativa varia enormemente da Stato a Stato). Soffermiamoci su quelle di competenza del Governo federale. Un sistema presidenziale, poi, è nettamente differente da uno parlamentare- nel primo, ad esempio, il bilancio nasce dal Congresso non da una proposta dell’Esecutivo (come la nostra finanziaria).
Ho vissuto oltre tre lustri a Washington. Ho avuto modo di scambiare idee “off-the-record” con alti funzionari del Tesoro (anonimi a ragione delle regole della funzione pubblica Usa) e “for background briefing” (non virgolettabili) con due economisti, uno giovane (Robert Shiller) ed uno Premio Nobel anziano (Paul Samuelson), di scuole marcatamente differenti.
Nell’ambito delle competenze della Casa Bianca il primo segnale sarebbe una rivalutazione dell’Office of Comptroller of the Currency (OCC) – la direzione generale del Tesoro incaricata di autorizzare e regolamentare le banche nazionali e di vigilarne sull’operato, nonché di coordinare la altre authorities responsabili per la tutela del risparmio. Di questa figura chiave (che opera in grande discrezione) si parla poco. Ha l’onere del riassetto della regolazione e della vigilanza al fine di rompere uno dei cerchi viziosi (il pullulare di Siv e dei loro strumenti arcani). Altro segnale importante sarebbe un maggiore attivismo dell’Esecutivo (contro le corporazioni) per l’applicazione degli standard contabili internazionali (quelli definiti dall’IASB) invece delle “best accounting practices” americane: si guadagnerebbe in trasparenza e reciderebbe il cerchio dell’impacchettamente del loglio con il grano.
Il punto più difficile spetta al Congresso: spezzare la spirale discendente dei valori immobiliari. Si possono varare ritocchi al codice tributario federale. Oggi il costo dell’interesse sui mutui è deducibile dall’imposta sul reddito; parte potrebbe diventare detraibile, premiando comportamenti attendisti (di chi si tiene la casa, pur pagando un mutuo altissimo, nella convinzione che il guadagno è di lungo periodo). Tale misura interesserebbe principalmente le famiglie a reddito medio-alto; sarebbe quindi regressiva. Si potrebbero incentivare (con la leva tributaria) associazioni di proprietari che siano responsabili in solido del rimborso. L’ultimo rimedio sarebbe l’istituzione di una Home Owners Loan Corporation (o banca federale pubblica per l’edilizia) analoga alla Reconstruction Finance Corporation degli Anni 30: incaricata di rifinanziare investimenti immobiliari ad alto rischio (pur con la certezza che alcuni finiranno in perdita secca).

ALITALIA MUORE MENTRE BIANCHI E PADOA SCHIOPPA LITIGANO

Neanche durante le Feste per la Pasqua, l’”affaire Alitalia” cessa di tenere banco. Tramite l’archivio elettronico de L’Occidentale si può ricostruire l’evoluzione della vicenda da quando nel dicembre 2006 il Presidente del Consiglio Romano Prodi annunciò la privatizzazione del 49,9% dell’azionariato della compagnia (detenuto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze) tramite “un’asta internazionale”, peraltro neanche mai predisposta nei propri documenti di base (bando, capitolato). Risparmiamo, quindi, di fare un riassunto delle complicate puntate precedenti.
Riprendiamo la vicenda dall’offerta “finale e definitiva” presentata da AirFrance-Klm dopo otto settimane di serrate trattative con Alitalia, autorizzato tanto dal CdA della nostra compagnia di bandiera quanto dal Governo Prodi. E’ un’offerta notevolmente inferiore a quella preliminare presentata a fine 2007 e sulla quale cui si sono pronunciati favorevolmente tanto il CdA dell’azienda quanto il Presidente del Consiglio ed il Ministro dell’Economia e delle Finanze (MEF), Tommaso Padoa-Schioppa (TPS), il quale è doppiamente competente per la materia poiché le privatizzazioni rientrano nelle funzioni del MEF ed in ogni caso il MEF è titolare del 49,9% dell’azienda che si cerca di vendere.
L’offerta “finale e definitiva” è stata accettata dal CdA di Alitalia ed ha avuto la benedizione di TPS; il Governo nella sua collegialità si è limitato “a prenderne atto” in una seduta del Consiglio dei Ministri in cui peraltro numerosi erano gli assenti. L’offerta ha innescato reazioni furiose da parte di sindacati, d’elementi di quella che era la maggioranza parlamentare del Governo Prodi, del mondo imprenditoriale e, naturalmente, delle forze politiche oggi all’opposizione ma domani molto probabilmente in maggioranza e con la responsabilità, dunque, di guidare il Paese. Il leader del PdL Silvio Berlusconi si è impegnato in prima persona a cercare di mettere insieme una cordata finanziaria ed industriale in grado di rilevare Alitalia a condizioni migliori di quelle proposte da AirFrance-Klm. Il Presidente di Promos (l’azienda speciale della Camera di Commercio di Milano), il superconsulente di management Bruno Ermolli, sta lavorando intensamente a questo scopo.
La presa di posizione del leader del Pdl ha già ottenuto un risultato immediato: AirFrance-Klm ha fatto comprendere che, nell’incontro con i sindacati in programma per il 25 aprile, verrà presentata una versione ritoccata dell’offerta “finale e definitiva”. Naturalmente, l’obiettivo è più vasto: non ci si illude che si possa attuare l’asta internazionale (mancano i tempi poiché la redazione dei documenti, il bando e la loro valutazione richiedono almeno 12 mesi) ma la discesa in campo di una nuova cordata avrebbe quando meno l’effetto di innescare un processo concorsuale e competitivo di valutazione comparata di almeno due proposte prima di denazionalizzare completamente la compagnia di bandiera.
Dopo avere perso circa 18 mesi cincischiando in procedure anomale e frequentemente cambiate da Prodi e TPS, oggi l’elemento tempo è la chiave essenziale. A sua volta, questo elemento dipende dalla situazione finanziaria di Alitalia, ossia di quanto l’azienda può reggere prima di portare i libri in tribunale, essere commissariata e posta in liquidazione con cessione di singoli rami di azienda. Sull’elemento tempo il Governo è in piena dissonanza: TPS insiste nel dire che i giorni sono contati (quindi o si vende prima del 31 marzo o si chiude baracca), il Ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi afferma che il “programma di sopravvivenza” di Alitalia approvato dall’Esecutivo contiene una provvista di liquidità sino al 31 dicembre 2008 (dunque, si potrebbe formare la cordata alternativa a AirFrance-Klm anche dopo le elezioni e lasciare al nuovo di Esecutivo, chiunque sia il vincitore, il compito della valutazione comparata).
In termini tecnico-musicale, “dissonanza” vuole dire qualità sgradevole di un intervallo o di un accordo. La “dissonanza”, e la sua qualità sgradevole su argomento all’attenzione non solo degli italiani ma dell’economia internazionale in senso lato (severi i commenti dall’estero), è accentuata dall’assordante silenzio del leader del PD, Walter Veltroni (WV per gli amici del panoramico loft). In un passato non lontano, WV non ha celato la sua simpatia per la proposta AirFrance-Klm non tanto perché ne avesse valutato gli aspetti tecnici, finanziari ed economici ma poiché essa comporta che Roma sia il centro indiscusso non solo della direzione ma anche delle operazioni di Alitalia e Fiumicino l’hub dell’eventuale nuova azienda AirFrance-Klm-Alitalia (in ordine di “peso” negli organi di governo e di gestione). Ora intento a cercare il voto del Nord, WV fa da cauto contrappunto al duetto “dissonante” TPS -Bianchi, aggravando la confusione.
A rendere il quadro ancora più complicato (ove mai ce ne fosse bisogno) , numerosi economisti vicini al PD ed a WV scrivono in saggi tecnici ed articoli di giornale che Alitalia è, a tutti gli effetti, fallita da tempo e che nulla si può fare per ridarle vita. Carlo Scarpa ed il gruppo che anima il sito la voce.info lo sostiene da quattro anni e nel 2004 ha richiesto che fosse il Governo dell’epoca a staccare la spina che tiene in vita Alitalia.
Non ci dovrebbe essere nulla di più chiaro e di più trasparente di un libro contabile sulla cui base giudicare se Alitalia ha liquidità per due-tre settimane oppure per circa nove mesi. Gli italiani hanno pieno titolo di chiedere a Prodi, TPS;WV e Bianchi di mostrare le carte. Se Prodi, TPS, WV e Bianchi non vogliono o non possono farlo, è bene che si godano, al più presto, le loro pensioni e lascino ad altri le cure del Paese, con le relative responsabilità.

UN ALLESTIMENTO DA SPIAGGIA PER “COSI’ FAN TUTTE” DI MOZART DA L'OCCIDENTALE DEL 23 MARZO

Considerata “indecente” sino quasi all’inizio della seconda guerra mondiale, la mozartiana “Così fan tutte (ovvero la scuola degli amanti)” si è potuta vedere in autunno e in inverno in varie edizioni. In Lombardia, la Scala ed il Piccolo hanno ripreso regie storiche (ed eleganti) di Michael Hampe e Giorgio Strehler, mentre il circuito lombardo ha presentato un nuovo allestimento di Mariano Dammarco. Nonostante l’ottima bacchetta di Ottavio Dantone alla Scala, si è trattato di saggi di fine corso degli allievi delle rispettive accademie- garbati e promettenti, ma niente affatto sexy ed ancor meno filosofico-politici. L’impianto complessivo è ispirato alla tradizione. Non tale da attrarre un pubblico giovane.
A Roma è stato ripreso un allestimento di successo che ha debuttato nel 2005 ed in cui l’azione viene trasferita dal Settecento in lascive terme pompeiane nel 60 dopo Cristo. L’abile bacchetta di Gianluigi Gelmetti e l’affiatato cast (Anna Rita Talento, Laura Polverelli, Giacinta Nicotra, Michele Angelini, Massimiliano Galiardo, Bruno Taddìa) ne fanno un esilarante farsa. Affolla il teatro anche in quanto viene rappresentata a prezzi competitivi con i biglietti del cinema.
Il “dramma giocoso” scritto da Da Ponte per la musica di Mozart è, però, una commedia amara, con forti risvolti politici – come rileva Lidia Bramani nel suo lavoro fondamentale “Mozart, massone e rivoluzionario” edito dalla Bruno Mondadori. Convinti della fedeltà delle loro fidanzate ferrraresi, due bei giovanotti napoletani tentano ciascuno di sedurre la donna dell’altro (sperando di fare cilecca non a in tema di virilità ma a ragione della virtù delle loro donne e quindi della loro capacità di resistere alle tentazioni).Loro malgrado, riescono nell’intento; ciascuno dei due finisce nelle braccia della donna dell’altro. Quando, nel finale, tutti e quattro finiscono nei letti giusti, tutti hanno consapevolezza della fragilità del gioco dell’amore e degli inganni. E’ un gioco- sottolinea Livia Bramani – non soltanto erotico: il lavoro mette in scena i tradimenti alla Corte Reale tra confraternite massoniche (per di più cattolicissime) ed il percorso iniziatico per non cadere nei numerosi tranelli tesi a chi entra in un “giro” in cui il potere è importante tanto quanto il sesso- ove non di più. Siamo, quindi, a lotte tra correnti. Inoltre, avverte acutamente Patrice Chéreau, si svolgono in un’atmosfera in cui si sente “puzza di morte”: è la fine non solo di un secolo, il Settecento, ma di un’epoca, si avverte l’approssimarsi di una Rivoluzione che trasformerà tutto, anche i costumi di una Vienna che da molto licenziosa e libertina sarebbe diventata bacchettona.
“Cosi fan tutte”, quindi, è opera di equilibri difficilissimi (tra commedia e dramma, tra eros e politica, oltre a quelli meramente musicali – come lo scivolare dei recitativi in arie e numeri a più voci). La principale difficoltà di realizzazione (sia scenica sia musicale) di “Così” consiste nel fatto che mentre la prima parte è brillante ed ironica, la seconda è un’amara riflessione in cui ciascuno è, al tempo stesso, infedele e geloso. Allestimenti recenti o scivolano nella commedia farsesca (quale quello di Gelmetti oppure (quelli di Martone, Strehler, Hampte e Ronconi) trasformano il lavoro in un gioco di eleganza simmetrica alla Marivaux.
Probabilmente, in questo primo scorcio di XXI secolo, le messe in scena definitive sono state quelle di Jűrgen Flimm e Nikolaus Harnoncourt a Zurigo e quella di Patrice Chéreau e Daniel Harding che nel 2005-2007 ha debuttato a Aix en Provence ed è stata replicata a Vienna, Parigi, New York, Baden-Baden, nonché in altri teatri della Francia, dell’Europa centrale e del Giappone. L’allestimento di Zurigo è non solo consegnato ad un pregevole DvD ma anche spesso nella programmazione del canale televisivo “Classica”. Anche quello di Aix (che avrebbe dovuto approdare alla Scala) si può gustare in Dvd. L’idea di fondo di Chéreau è quella di porre l’accento sul sottile ricamo di finzioni sin dalla prima battuta. L’intreccio si svolge sul palcoscenico nudo di un teatro – è in effetti, quello del Teatro Valle a Roma- ,quasi a voler accennare al teatro-nel-teatro (finzione per eccellenza), senza , però, svelarlo a pieno. Alla “scuola degli amanti” si apprende che l’amore è libertà, ma che proprio in quanto libertà non può non comportare dolore ed inganno. Harding ha assecondato questa chiave di lettura guidando la Mahler Chamber Orchestra in modo che si vada con grande dolcezza (e senza quasi avvertirne il passaggio) dai recitativi, alle arie, ai duetti, ai terzetti, ai quartetti ed ai concertati. Il vostro chroniqueur ha assaporato la versione Chéreau-Harding tre volte.
L’allestimento firmato da Adrian Noble (a lungo alla guida della Royal Shakespeare Company) per l’Opéra National de Lyon , Parma sino al 30 marzo, si situa più nella scia della messa in scena di Flimm che in quella di Chéreau. La vicenda si svolge ai giorni nostri. Interamente in una spiaggia piena di dune da cui si scorgono , a distanza, le luci di una città. Potrebbe essere la Camargue oppure le “outer banks” della North Carolina. I sei protagonisti, quindi, indossano costumi di questi anni: dal bikini alla bandana. Il mare è sempre presente , ma l’atmosfera è tesa: dai rossi infuocati dei tramonti alle notti buie in cui la spiaggia si riempie di falò. Il tema di fondo è il consiglio dato da Despina (la cameriera factotum) alle due ferraresi: “fate l’amor come assassine!”. Quindi, accento sugli aspetti erotico-sensuali , molto sesso (anche senza i nudi che ormai pervadono i teatri tedeschi e spagnoli, ed anche quelli svizzeri) ma poca politica e storia- insomma siamo distanti dalle letture leziose ed eleganti che imperversavano sino agli Anni 70 ma non sentiamo “la puzza di morte” dello spettacolo firmato Chéreau. Il pubblico di Parma, dove “Così” non si rappresentava da 40 anni, ha reagito con applausi di cortesia ma è rimasto abbastanza perplesso, Nel foyer, si ascoltavano pezzi di conversazione in base ai quali ci si aspettava qualcosa di simile ad un’operetta, non oltre 3 ore e mezzo di spettacolo con una scena unica, sei cantanti ed un piccolo coro in cui viene fatto un ritratto spietato della vita e dell’umanità.
Ha complicato un po’ le cose la parte strettamente musicale. Di buon livello i sei cantanti (Irina Lungu, Serena Gamberoni, Stefanie Iráni, Alex Esposito, Francesco Meli, Andrea Concerti), specialmente il gruppo di voci maschili. Tutti dotati del “physque du rôle”, essenziale in un mondo di bikini e bandane, nonché tutti abili attori e molto bravi nei duetti e numeri a più voci. Discutibile, però, la direzione musicale di Marco Zambelli, caratterizzata da un piglio duro (come quello, per intenderci, della registrazione scaligera di Riccardo Muti), ed a volte anche pesante. Pur se allievo di John Elliot Gardiner, Zambelli non è specializzato nel repertorio mozartiano ma salta con disinvoltura dal melodramma al verismo, da Gluck al repertorio tedesco. A sua giustificazione il fatto che è arrivato a Parma all’antivigilia della prima : avrebbe dovuto concertare Attilio Cremonesi che , allievo di René Jacobs, ha riaperto molti tagli “di tradizione” da cui la durata dello spettacolo. Altra attenuante: l’orchestra del Regio, diventata molto più versatile negli ultimi anni, è di impianto verdiano e veristico non mozartiano. Pur se sfoltita, evidenziava in buca un organico che era forse il doppio di quello in uso alla fine del Settecento. Con le difficoltà che si possono immaginare nel governo degli impasti tra strumenti e voci.

UNA “ RETE DI SICUREZZA” LA TENTAZIONE INTERVENTISTA DEI BANCHIERI CENTRALI’ DA LIBERO DEL 25 MARZO

Nei fine settimana delle feste comandate, come la Pasqua, chi non ha scoop se li inventa. I lettori sono presi da incontri in famiglia e cerimonie religiose e non guardano i giornali che di sfuggita. In materia d’economia e finanza, però, i falsi scoop fanno più danno che altro: hanno effetti distorsivi sul mercato. Il nostro “confrère” britannico The Financial Times è uscito con un titolo a tutta prima pagina per annunciare che le principali banche centrali – Federal Reserve (Fed), Bank of England (Boe) e Banca Centrale Europea (Bce)- starebbero per mettere in piedi una “rete di sicurezza” per contenere e se possibile azzerare i danni del proseguire della crisi dei mutui non solvibili (il gergo il subprime) e degli strumenti di finanza strutturata costruiti incorporandoli. Un comunicato della Boe ha prontamente sminuito, prima della riapertura dei mercati, la portata di un eventuale accordo ad uno “studio delle varie maniere per allentare le pressioni”.
Cerchiamo di spiegare come stanno le cose. L’idea non è nuova: è stata proposta, separatamente, qualche settimana fa da due economisti di rango, l’anziano Paul Samuelson (sui cui testi hanno studiato generazioni di giovani di tutto il mondo – chi scrive lo utilizzò addirittura nel 1962 ed era alla quarta edizione) ed il più giovane Paul Krugman. Neo-keynesiano convinto il primo, eretico a tutto campo il secondo. Samuelson in particolare ha proposto qualcosa di simile alla Reconstruction Finance Corporation degli Anni 30; il raggio d’azione del nuovo istituto sarebbe stato limitato agli Usa – perché è dove è nato il problema e dove né la soluzione. Sul suo blog, Krugman si è lanciato sull’idea proponendone l’internazionalizzazione. In breve, lo strumento toglierebbe dal mercato primario titoli spazzatura strutturati e li rimetterebbe in commercio sul secondario (o terziario) pur sapendo che in alcuni casi ci rimetterebbe. Attenzione: l’idea Samuelson-Krugman si basa su uno strumento privato (anche se sussidiato in qualche modo – tax expenditures, contributi diretti – da Pantalone). L’ex-Segretario al Tesoro Usa, Robert Rubin, ora tornato a Wall Street, è balzato sull’idea (ben lungi da essere un progetto), sottolineato, però, che senza una forte dose di intervento pubblico non avrebbe funzionato. Nella sua veste attuale di money manager, cosa meglio che “socializzare le perdite”? E come “socializzarle” in modo più efficace che tramite le banche centrali?
In effetti, del tema si è parlato all’ultima delle riunioni mensili dei Governatori delle banche centrali del G10 a Basilea, nell’ambito della Banca dei regolamenti internazionali (Bri). Queste conversazioni hanno toccato anche la possibilità di un gruppo di studio ancora “possibile”, anzi “eventuale” – dicono a Basilea- poiché ancora non se ne ha una bozza di mandato, un’idea di chi sarebbero i componenti e, aspetto delicatissimo, di chi lo presiederebbe e soprattutto di come si coordinerebbe con il già esistente International Financial Stability Forum. La Boe ha detto, al tavolo Bri, di non essere affatto d’accordo con il principio stesso dell’approccio Samuelson-Krugman-Rubin.
La dietrologia è un peccato, specialmente nei giorni di Pasqua. Ma può indicare che lo “scoop” del Financial Times sia stato una mossa della mefistofelica Old Lady (il nomignolo di gergo della Boe) per affossare il progetto prima ancora che se ne faccia uno studio pure soltanto preliminare.
Quali le contro-indicazioni nei confronti dell’idea Samuelson-Krugman-Rubin? Non solamente “socializzare le perdite”, specialmente a favore di chi si è comportato spericolatamente, è un invito a continuare a razzolare male – in economia si parla di “azzardo morale”- ma ci sono altri argomenti. L’iniezione di capitale necessaria sarebbe enorme: uno studio interno di Unicredit parla di mille miliardi di dollari; analisi della Abm Amro arrivano stime analoghe. Riservatissime quelle della Fed: è comunque un fatto che l’aumento delle facilitazioni creditizie pubbliche concesse a Fannie Mae e Freddie Mac (i nomignoli delle due maggiori istituzione americane per rifinanziamento e riassicurazione per il credito immobiliare) si è già rivelato inadeguato. A queste considerazioni micro-economiche, se ne aggiunge una macro-economica di rilievo: la solleva James Saft, columnist di Reuters on line, il quale solleva che dalla eventuale rete di sicurezza risulterebbe un aumento della liquidità (che non ridurre il “credit crunch” alla cui base c’è mancanza di fiducia tra istituti) ma accentuerebbe la spinta inflazionistica già derivante (negli Usa) dal deprezzamento del dollaro e (nel resto del mondo) dall’incremento dei prezzi delle materie prime.

mercoledì 19 marzo 2008

LA CRISI E LE SCELTE DEGLI USA

Chi conosce il Presidente del Federal Reserve Board (in gergo la Fed) Ben Bernanke sa che da bambino era un avido lettore dei fumetti di Pecos Bill. Ed al pistolero dei Western Anni 50 assomiglia pure fisicamente. Pecos Bill ha la mira perfetta e non fallisce un colpo (anche dalle posizione più insolite). Però capita anche a lui di finire le munizioni. E’ questo quanto percepiscono i mercati finanziari che reagiscono con una forte volatilità. Per i risparmiatori dell’area dell’euro, il suggerimento è di non fare operazioni azzardate (neanche consolidare le perdite della valorizzazioni dell’azionario scappando verso l’obbligazionario), ma aspettare, con nervi saldi, che la tempesta passi.
E’ iniziata negli Usa a ragione di tre cerchi viziosi- quello dei mutui subprime nell’aspettativa di aumenti vertiginosi dei valori immobiliari; quello delle banche che tramite società ad hoc (Siv, Special investment vehicle) sono entrate in campi rischiosi e di cui hanno poca dimestichezza; quello dell’impacchettamento di strumenti finanziari poco affidabili con titoli più solidi in combinazioni sempre meno trasparenti. La triplice catena di Sant’Antonio si è spezzata quando è scoppiato il primo cerchio. Oltre che viziosi, i cerchi sono contagiosi; tuttavia, l’area dell’euro ha paratie più forti di quelle degli Usa e del Regno Unito grazie a regole più rigorose di vigilanza e divieti di salvataggi da parte di Pantalone. Nata negli Stati Uniti, è Oltreatlantico che la crisi può e deve trovare soluzione.
Bernanke-Pecos Bill ha utilizzato tutte le cartucce a sua disposizione: portato rasoterra l’interbancario (il tasso direttore del mercato finanziario Usa), abbassato il tasso di sconto ( che oltre oceano ha la funzione limitata di operare unicamente per le banche che scontano direttamente alla Fed) , immesso liquidità accettando titoli di dubbia qualità come garanzia per buoni titoli federali, definito una rete di sicurezza suppletiva all’assicurazione federale sui depositi, anche scovato un regolamento degli Anni 30 (probabilmente abrogato e, secondo alcuni, incostituzionale) per la complicata operazione di salvataggio della Bear Stearns (tramite l’acquisto da parte della JPMorgan Chase). La fantasia non gli è mancata. Il coraggio neanche. Tanto da essere considerato un temerario. Tuttavia, non solo ha le pistole scariche ma è difficile vedere come nella sua funzione di guida dell’autorità monetaria possa inventarsi altri marchingegni. La palla ora passa alla Casa Bianca.

ALITALIA E’ SULL’ORLO DEL FALLIMENTO, GRAZIE A PRODI

La vendita del 49,8% del capitale dell’Alitalia (ancora nelle mani del Ministero dell’Economia e delle Finanze) è cominciata male – con un bando chiamato da Prodi “asta” ma che in effetti prevedeva uno sgangherato “beauty contest” (l’archivio telematico de “L’Occidentale” ha tutti i dettaglia della complicata vicenda) – e sta finendo peggio. Riassumiamo, per orientarci, i punti salienti.
In primo luogo, il Governo Prodi (di cui WV – Walter Veltroni – era a tutti gli effetti componente politico di non poco conto e di cui è l’erede – ha trascinato la situazione Alitalia sino a porla al limite del fallimento e della liquidità coatta.
In secondo luogo, circa tre mesi fa è apparso un barlume di speranza nella possibile integrazione di Alitalia nel maggior gruppo mondiale di aeronautica civile, AirFrance-Klm. C’era – è vero – un altro contendente: una cordata finanziaria attorno alla società AirOne , ma non è venuta nessuna smentita ufficiale ai dati dettagliati sulla poca consistenza industriale e finanziaria della cordata apparsi negli ultimi mesi sui maggiori quotidiani italiani citando fonti ufficiali (bilanci depositati in tribunali, statistiche aeroportuali e simili).
In terzo luogo, a fronte di questa situazione (in cui ci si era cacciato con la propria testa e le proprie mani), il Governo Prodi autorizza il management e gli organi di governo e di gestione di Alitalia di aprire una trattativa in esclusiva con AirFrance-Klm per giungere ad un offerta definitiva ed irrevocabile.
In quarto luogo, l’offerta definitiva (i dettagli sono da domenica scorsa su tutti i giornali ; quindi, pleonastico ripeterli) è nettamente inferiore a quella preliminare di circa tre mesi fa (pur se sempre molto superiore a quella, sempre preliminare, di AirOne). Comporta tra l’altro una drastica riduzione del personale, la chiusura di rami d’azienda, ed il declassamento di Malpensa da “hub” a “poin to point”.
In quinto luogo, la cassa di Alitalia boccheggia: nessuna banca è disposta a fargli ulteriormente credito e la Commissione Europea (ribadendo il divieto agli aiuti di stato) afferma che un eventuale prestito-ponte del Governo italiano sia a condizioni di mercato.
Questo è il fondale dietro l’incontro (finito in tumulti) tra il Presidente ed Amministratore Delegato di AirFrance-Klm Jean Cyril Spinetta ed i sindacati. AirFrance-Klm ha chiesto l’approvazione dell’offerta (e del relativo piano di rilancio) per tre motivi:
1. la tradizione delle relazioni industriali nei servizi pubblici in generale, e nei trasporti in particolare, è molto più “concertativi” (o se si vuole “corporativa”) di quanto non sia quella italiana. Affonda le proprie radici, più che nella storia della sinistra d’Oltralpe) nel colbertismo che permea l’intervento pubblico sin dai tempi del Re Sole e della programmazione “indicativa” in atto sin dagli Anni ’40.
2. Spinetta è un socialista delorsiano- quindi particolarmente imbevuto di “concertazione”. Inoltre, sul piano tattico, dato che ha fatto parte per anni del CdA di Alitalia, sa che buona parte dei problemi della compagnia devono imputarsi alle pessime relazioni sindacali ed ai continui scioperi che hanno fatto scappare la clientela (pur in un mercato così protetto come l’italiano).
3. Spinetta ha studiato all’Ena negli Anni 60 quando si approfondiva la teoria dei giochi ed anche la teoria economica del suicidio allora proposta da Gary Becker. E’ consapevole del fatto che, data la situazione dei conti di Alitalia, questo è un gioco ad ultimatum: o prendere o lasciare. Sa che se i sindacati ritengono che la sopravvivenza di Alitalia vale zero – teoria economica del suicidio – sarà sempre AirFrance-Klm ha prendersene, quasi gratis, le spoglie migliori.

Infatti, se l’accordo non si fa, l’unica strada aperta è la procedura fallimentare . Tale procedura prevede una fase di liquidazione- l’attuale Presidente ed Amministratore Delegato di Alitalia Maurizio Prato è un maestro in materia. A sua volta la liquidazione comporta ciò che colloquialmente viene chiamato “lo spezzatino” al fine di cedere i rami di azienda che possono promettere esiti interessanti. AirFrance-Klm è pronta a farsi avanti per rilevare i bocconcini migliori che il sindacato (spinto dalla dannosa inconcludenza del Governo Prodi) gli sta servendo su un piatto d’argento. Qualche boccone – non ne dubitiamo – lo potrà prendere anche AirOne, silenziosa in questi giorni in quanto consapevole che nel cupio dissolvi dannunziano del sindacato (alla Giogio Aurispa de “Il trionfo della morte”- qualche resto succulente ci sarà pure per lei.

Comunque vada nelle specifiche, chi ci rimette è l’Italia. Prodi, nel frattempo, ha lasciato la politica, TPS e VVV pure. Bianchi torna a fare il Rettore dell’Università del Mediterraneo. E WV tenta, a fatica, di convincere gli italiani di essere un figlio di nessuno e di non sapere nulla del pasticciaccio brutto di Alitalia e degli altri accadimenti della XIV legislatura.

martedì 18 marzo 2008

VELTRONI E’ ORA DI SVELARE IL CONVITATO DI PIETRA I

Come anticipato da Il Tempo due mesi fà, la trimestrale di cassa ha confermato che il prossimo malcapitato inquilino di Via Venti Settembre dovrà riscrivere, in giugno (per l’”assestamento di bilancio”) la legge finanziaria per fare fronte all’eredità immediata lasciatagli da Prodi & Co: una falla di bilancio variamente valutata (dai 20 maggiori istituti econometrici) tra i 4 ed i 12 miliardi di euro- le differenze riguardano le stime macro-economiche e la speditezza della manovra. All’inizio di febbraio, non prevedevamo che il dollaro Usa sarebbe affondato, che l’oro sarebbe alle stelle, che il caro-vita (sempre più mordente) azzannerebbe i quattro quinti delle famiglie, che il “consensus” dei 20 istituti stimerebbe una crescita prossima allo zero (il dato è della sera del 14 marzo) per l’Italia del 2009 a ragione dell’effetto di trascinamento degli aumenti fiscali-contributivi attuati dagli attuali leader del PD. Pensavamo che il pasticciaccio brutto riguardasse quasi solamente la finanza pubblica non che l’eredità dello zio Romano toccasse tutti gli anfratti delle nostre tasche e della nostra vita.
A fronte di un tale ingorgo, occorre dare indicazioni precise e di terapie e di dottori chiamati ad applicarle. Il PdL ha specificato che il compito verrà affidato al Prof. Giulio Tremonti; il quale in un saggio ha presentato le proprie idee ad integrazione di quanto scritto nel programma elettorale. Le linee proposte possono piacere o non piacere ma sono chiare: rinegoziare con il resto degli Stati dell’euro la strategia, affrontare il debito pubblico con un programma di privatizzazioni, agire sull’offerta e sui prezzi liberalizzando al massimo, protezione temporanea di alcuni comparti da prassi aggressivi da parte di Paesi a bassi salari e bassa protezione sociale, graduale riduzione di tasse ed imposte.
WV (Walter Veltroni), invece, si trincea dietro il decalogo e non fa capire chi sarà il Convitato di Pietra chiamato dal PD a dipanare la matassa impasticciata, oltre che dallo zio Romano, dai cugini TPS e VVV (Viceministro Vincenzo Visco). E quali saranno le ricette che verranno adottate. Non potrà esserlo il buon Giorgio Tonini, responsabile economico del PD, laureato in filosofia e giornalista che ha fatto politica sin da quando era in fasce ed ha poca destrezza con i numeri. Non potrà esserlo l’ottimo Marco Causi, pedagogo economico di WV in quanto si è raramente occupato di tematica nazionali ed internazionali. Potrebbe esserlo Nicola Rossi (ma giudicato, a torto o ragione, liberal-dalemiano) non va a genio al sinedrio del PD. Alcuni pesi massimi consultati (tipo Mario Monti) avrebbero risposto picche: gli eredi di Prodi & Co. non hanno titolo al beneficio d’inventario, si devono toglier loro le castagne dal fuoco. Se il Convitato c’è ne faccia il nome e ne precisi la terapia. Se sotto il decalogo non c’è nulla, lo faccia sapere agli italiani. In modo che votino informati.

PENSIONI: SEI CONSIGLI PER UNA RIFORMA VERA

La parola “p…” è entrata – come ci si aspettava- nel dibattito elettorali. I meno giovani si ricorderanno che negli Anni 50 e 60, la “p…” era considerata una parolaccia tanto che Jean-Paul Sartre intitolò “La p….respecteuse” uno dei suoi drammi di maggior successo. Anche adesso la parola “p….” è vocabolo che nessun politico vorrebbe pronunciare: vuole dire “pensioni” ed evoca ricordi dei veri e propri moti che, utilizzando come stendardo la parola “p….”, nell’inverno 1994-95 venne scalzato un Governo legittimamente eletto e sostituito con un Esecutivo “del Presidente”. Evoca anche una serie di riforme iniziate nel 1993 e conclusesi – si pensava nel 2004- ma in gran parte neutralizzate con la controriforma prevista della legge n. 247 del 24 dicembre 2007 (parte dei cui decreti attuativi sono ancora da emanare).

Per chiunque andrà al Governo, la parola “p….” costituirà un macigno che si aggiungerà al “buco annunciato” – le stime variano tra i 4 ed i 12 miliardi – nei conti pubblici 2008 (sempre che si vogliano conseguire gli obiettivi definiti nella legge finanziaria e concordati con il resto dei Paesi dell’area dell’euro). Secondo stime degli esperti di centro-sinistra, la legge 247/2007 comporta una spesa previdenziale aggiuntiva di 10 miliardi di euro nei prossimi tre anni, rendendo ancora più difficile ad un eventuale Governo PD di far quadrare i conti senza ripudiare l’eredità dello “zio Romano” o quanto meno accettarla “con il beneficio di inventario”. Un più probabile Governo PdL non dovrebbe ripudiare un bel nulla ma cercare di mettere la previdenza su un binario corretto. Il fatto stesso che a Cernobbio se ne sia fatto un cenno ha scatenato le ire di parte dei sindacati.


Esaminiamo i fatti per vedere cosa è auspicabile e cosa fattibile -La legge del 247/ 2007 (con la quale si è data normazione al Protocollo sul Welfare del 23 luglio 2007) prevede in essenza questi punti:
definizione di un nuovo sistema di età pensionabile attraverso l’abrogazione dell’ innalzamento dell’età di pensione a 60 anni dal 1° gennaio 2008 (il cosiddetto “scalone”) e la definizione di un percorso graduale (gli “scalini”);
modifiche della disciplina dei lavori usuranti: individuate le risorse (fondo decennale di 2,5 miliardi di euro) che consentiranno di andare in pensione con tre anni di anticipo ai “lavoratori usuranti” da definirsi sulla base di un decreto legislativo da presentare entro giugno;
modifica dell’impianto del sistema contributivo, applicando dal 2010 (e poi triennalmente) i nuovi coefficienti di trasformazione definiti nel 2005 e costituendo una commissione per verificare e proporre modifiche che tengano conto delle nuove condizioni economiche e del mercato del lavoro, al fine di tutelare le pensioni più basse e le carriere discontinue;
definizione futura di un intervento sulle finestre di uscita per le pensioni di vecchiaia che verranno portate a 4 per i lavoratori che hanno 40 anni di contributi;
miglioramento delle pensioni di molte categorie mediante interventi sulla totalizzazione, sul riscatto della laurea e dei contributi figurativi nel caso di disoccupazione e lavori discontinui;
intervento sui fondi in squilibrio: applicazione di un contributo di solidarietà su quei fondi che provocano squilibri finanziari rilevanti (fondo volo, fondo elettrici e simili);
definizione di alcuni interventi solidaristici (blocco perequazione pensioni alte e aumento delle aliquote contributive per la gestione speciale di coloro che sono già iscritti a forme previdenziali);
mutamento della prestazione pensionistica per i giovani parasubordinati attraverso l’aumento di un punto l’anno fino a tre punti della contribuzione (in quota parte maggiore sui committenti) che dà diritto alla pensione;
riordino e razionalizzazione degli Enti previdenziali;
detassazione parziale per i lavoratori dei premi di risultato da attuarsi con 150 milioni di euro per il 2008.
Oltre a questi dispositivi normativi, il Governo Prodi si è impegnato a permettere il raggiungimento , anche tramite “politiche attive”, di un tasso di sostituzione al netto della fiscalità non inferiore al 60%. Una parte della coalizione di quella che era allora maggioranza avrebbe voluto che tale impegno venisse incluso in un articolo di legge.

Alcuni aspetti della nuova normativa – ad esempio, il miglioramento delle condizioni per “totalizzare” (ossia sommare contributi a differenti regimi ed enti previdenziali) e per facilitare il riscatto di anni dedicati all’accrescimento di capitale umano (quali gli studi universitari) o periodi di assenza di contributi a ragione di disoccupazione involontaria – sono ineccepibili e non pare aggravino in misura significativa il già pesante onere della previdenza sulla finanza pubblica e sulla produzione di beni e servizi. Altri invece rimettono in questione l’essenza stessa del sistema Notional Defined Contributio (Ndc) ; tale sistema postula una corrispondenza tra contributi versati e spettanze previdenziali. Tale corrispondenza viene fortemente incrinata dagli aspetti centrali della nuova normativa:
· in primo luogo il mantenimento di meccanismi per pensioni di anzianità che consentono a tutti di usufruire della prestazioni in età significativamente più giovane di quanto è norma nel resto d’Europa;
· in secondo luogo, tramite la revisione ed il probabile ampliamento (rispetto a quanto già definito nel 1999), delle categorie i cui lavori vengono considerati “usuranti” , categorie che possono continuare ad andare in pensione di anzianità in età relativamente giovane;
· in terzo luogo, tramite il rinvio dell’aggiornamento dei “coefficienti di trasformazione” (per trasformare in vitalizi i montanti figurativi di contributi) che sarebbe dovuti entrare in vigore nel 2005 per tenere conto di andamenti demografici e economici;
· in quarto luogo, tramite una vasta gamma di interventi solidaristici che, se giustificati a favore delle fasce a più basso reddito, dovrebbero essere a carico della fiscalità generale non del sistema previdenziale.

Occorre ricordare che nel 1995 non solo l’Italia ma anche la Svezia introdusse il sistema Ndc (attualmente in vigore in circa 25 Stati e potenzialmente alla base di un sistema previdenziale di base comune all’intera Ue): Mentre la Svezia ha previsto un periodo di transizione triennale (già completato nel 1998), l’Italia aveva programmato un periodo di transizione tra i 18 ed i 25 anni. Ora abolisce alcuni pilastri stessi del Ndc. L’abrogazione sarebbe completa ove venisse soddisfatto l’impegno di raggiungere di un tasso di sostituzione al netto della fiscalità non inferiore al 60%. Queste implicazioni sono più gravi di quelle delineate in stime, peraltro approssimative, degli oneri aggiuntivi innescati da una normativa ispirata essenzialmente da quella parte dello schieramento che mirava ad un ritorno al passato – ossia alla situazione precedente la riforma del 1995 e l’introduzione del Ndc. Ho condotto un raffronto tra la riforma della previdenza in Svezia and in Italia nel saggio “Europe Needs Savings: Defusing the Pension Time Bomb” pubblicato a Londra dallo Stokholm Network nel 2006: il raffronto, già allora negativo per l’Italia, è peggiorato in misura significativa a ragione della 247/2007.

Non che dal 1992 non fossero emersi problemi sociali seri, segnatamente quello della graduale riduzione del potere d’acquisto dei pensionati a ragione di un meccanismo di indicizzazione agganciato non all’andamento dei salari (che tiene conto degli aumenti di produttività dell’intero Paese) ma solamente a quello dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati. Tali problemi si sarebbero potuti risolvere senza intaccare il Ndc ma anzi rafforzandolo, come si delineerà nel paragrafo conclusivo. Un approccio ideologico, sottostante il desiderio di ritorno al passato, ha prevalso su quello che sarebbe stato buon senso.

Come negli principali Paesi in cui è stato introdotto (od è in via di introduzione) un sistema Ndc , la previdenza pubblica viene affiancata da meccanismi previdenziali di stampo privatistico, quali i fondi pensione. Le statistiche più aggiornate sono quelle dell’ultima relazione annuale della Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione (Covip) che fotografa la situazione a fine 2007 ma fornisce anche le prime indicazioni offerte dalla normativa del 2004 sul trasferimento del trattamento di fine rapporto (tfr) ai fondi. Tale trasferimento (ovviamente volontario o semi-volontario) sembrava il toccasana per fare decollare i fondi, il cui impianto di base risale alla “riforma Amato” della previdenza del 1993.

Il quadro non è incoraggiante. Alla fine del 2007, gli aderenti a fondi pensione od a piani previdenziali individuali erano 4.5 milioni pari al 20% circa degli occupati e le risorse (uno stock) 57 miliardi di euro pari a meno 5% del pil (un flusso) ma meno dello 0,3% dello stock di ricchezza degli italiani. Lo dice a tutto tondo un rapporto Ocse : l’Italia è l’ultima in classifica in termini di attività dei fondi : non toccano – come si è detto- il 5% del pil rispetto ad oltre il 120 in Svizzera, Olanda, Islanda, ed ad oltre l’80% in Gran Bretagna e Australia Queste cifre includono un milione circa di aderenti a polizze previdenziali-assicurative individuali con un investimento totale attorno a 5 miliardi di euro.

La relazione Covip è ottimista per quanto riguarda il futuro. Lo è già stata in passato. Tuttavia, un’analisi dei rendimenti non è incoraggiante: Quelli dei fondi negoziali (ossia previsti nella contrattazione collettiva) hanno toccato una punta del 7,5% netto nel 2005 ma sono scesi dal 5% nel 2003 al 3,8% nel 1006. Non vanno meglio i fondi aperti: dal 5,7% nel 2003 al 2,4% nel 2005. Possiamo consolarci poiché la situazione non è migliore nella vicina Spagna: l’ultimo rapporto dell’istituzione di controllo dei fondi spagnoli rivela che dal 2001 al 2006 il tasso di rendimento è stato il 2,9% l’anno, inferiore a quello d’inflazione (3,2% l’anno)

Per il futuro a medio termine le prospettive non sono esaltanti. Sono soprattutto i lavoratori giovani a guardare a questi indicatori e a non correre verso i fondi. Il britannico “Financial Analists Journal” parla addirittura di insolvenze di alcuni fondi del Regno Unito. Di converso, il consuntivo 2006 del fondo pensione dei dipendenti della Banca mondiale espone un tasso di rendimento del 14,1% per l’anno di riferimento e una media del 8,5% per il periodo 1997-2006. Quindi, fondo pensione non equivalente sempre a rendimenti risicati. Possono essere elevati se la consistenza è elevata e la professionalità dei gestori molto alta.

Il vero nodo italiano è che i 57 miliardi di euro sono frantumati su circa 600 fondi ed un milione di polizze individuali . I fondi di nuova istituzione (in base alle normative degli ultimi anni) sono 146; gli altri pre-esistenti. I fondi negoziali sono 42, interessano ormai tutti i settori dell’economia ma non raggiungono 1,3 milioni di iscritti, nonostante gli sforzi per incoraggiarli Pensare che la destinazione del tfr/tfs risolva il problema equivale a credere che l’aspirina risolva malattie oncologiche. Occorre affrontare la polverizzazione del settore che ha dato vita ad una miriade di fondi lillipuziani che rischiano di essere fortemente penalizzati alla prima tensione sui mercati finanziari e spazzati via al primo temporale azionario o monetario. In Cile, quando un quarto di secolo fa, la previdenza venne articolata prevalentemente su fondi pensione, loro numero venne limitato a sei proprio per assicurare che fossero sufficientemente robusti. Quando venne varata la “riforma Amato”, non mancarono suggerimenti in tal senso, ma vinse la teoria dei cento fiori – di consentire ad una pluralità di soggetti interessati di dare vita a fondi pensioni o gestiti direttamente o da affidare in gestione a specialisti. La Covip, approdo principalmente per ex-sindacalisti, ha mancato al suo compito principali e, secondo alcune esperti, sarebbe stata addirittura dannosa. Nella riforma delle Authority presentata in Parlamento oltre un anno fa, se ne prevedeva la soppressione – dato che i suoi esiti hanno convinto pure il centro-sinistra.

In questo quadro preoccupante, c’è un elemento recente che può essere di grande utilità nel plasmare la politica legislativa della XVI legislatura: un’indagine Harris Interactive (i cui esiti sono stati resi pubblici il 14 marzo) indica che gli europei – l’indagine è stata condotta in Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna ed Usa – sono pronti a ritardare l’età effettiva del pensionamento (oggi attorno ai 62 anni, rispetto ai 67 degli americani). Un’inchiesta più semplice condotta da Bruegel (in centro di ricerche sulla politiche europee) e pubblicata il fine settimana del 15-16 marzo giunge a conclusioni analoghe. Un punto importante è che un numero crescente di europei considera “discriminatorie” contro gli anziani le norme sui massimi di età per la pensione (ad esempio, 65 anni, portabili a 67 su richiesta, per i dipendenti pubblici italiani). Ciò deriva da due determinanti: a) l’allungamento della vita (e specialmente della vita in buone condizioni fisiche e mentali) e b) la crescente consapevolezza che le pensioni sono destinate ad assottigliarsi.


La prima indicazione di politica legislativa che è occorre tornare al Ndc ed accelerarne la completa entrata in vigore, prendendo al tempo stesso misure a favore dei più deboli tali da essere compatibili con la sostenibilità complessiva del sistema. Ciò non può dire tornare al cosiddetto “scalone” della riforma del 2004; sarebbe una misura poco utile e che susciterebbe un’opposizione agguerrita. Si dovrebbero, però, premdere queste misure simultanee e parallele per la previdenza pubblica :a) aumento dell’età della pensione (con eccezioni per i lavori davvero usuranti); b) estensione a tutti le tecniche di computo pro-quota previste dal Ndc; c) applicazione dei coefficienti di trasformazione (proposti dal Nucleo di valutazione della spesa previdenziale nel 2005 per tenere conto dell’allungamento delle aspettative di vita); d) incremento delle pensioni minime ed aggancio della loro evoluzione all’ andamento dei salari (come prima del 1993); e) un indicizzazione più forte per gli ultra 75enni (a ragione delle pi alte spese per la cura della persona in cui si incorre in tarda età. I risparmi sulle voci a), b) e c) di cui beneficiano, di norma, coloro con redditi alti o medio alti, sarebbe serviti a finanziare le voci d) ed e) , dirette invece a chi è in condizioni di vero disagio. Per la previdenza complementare è urgente favorire l’accorpamento di fondi pensione ed abolire la Covip o affidarla a effettivi esperti di previdenza, anche comparata. La possibile riorganizzazione degli istituti previdenziali deve essere vista in questa ottica e portata avanti solamente se comporta risparmi certi e dopo l’integrazione dei rispettivi sistemi informatici.

SIAMO AL SUK DELLA FINANZA INTERNAZIONALE

L’operazione, orchestrata dalla Federal Reserve Bank di New York con il supporto di Constitution Ave. N.W. (il palazzone in stile tardo fascista dove ha sede il Federal Reserve Board ed il cui inquilino attuale è Ben Barnanke) ci riguarda da presso per tre ordini di motivi:
· In primo luogo è la prova documentaria di quanto noi di “Libero Mercato” sosteniamo da tempo: la crisi finanziaria esplosa questa estate sul mercato americano non si è conclusa e non è neanche in via di esaurimento (come hanno detto politici e commentatori italiani) ma pare destinata a protrarsi nel tempo e a colorare la XVI legislatura, ponendo vincoli seri alle politiche economiche che potranno essere attuate da chiunque sia il vincitore delle elezioni del 13-14 aprile.
· In secondo luogo si tratta di un’operazione che nell’area dell’euro non si sarebbe potuta effettuare (e neanche concepire) non solamente per la normativa generale in materia di concorrenza prevista per il funzionamento del mercato unico ma anche per articoli specifici del Trattato di Maastricht e procedure di approvazione da parte del Consiglio della Bce (che rendendone impossibile tempestività e riservatezza, ne avrebbero provocato un aborto naturale). Quando l’Ing. Jean-Claude Trichet (ci si dimentica che l’attuale Presidente della Bce è un ingegnere minerario la cui tesi è stata in idraulica) autorizzò, nella veste di Presidente della Banque de France, un intervento molto più limitato, e molto più semplice, per dare liquidità al Crédit Lyonnais (e salvarlo) l’argomento utilizzato dai francesi (nei confronti delle critiche altrui) fu proprio che il Trattato di Maastricht era stato firmato ma non ancora ratificato – quindi, non ancora in vigore. Una tesi analoga venne sommessamente pronunciato dal Governo italiano a proposito dei salvataggi dei banchi meridionali (di Napoli e di Sicilia)- varati, in effetti, alcuni giorni prima che firme di Ministri venissero apposte al Trattato di Maastricht. Non occorre fare ricorso a complicati testi di interpretazione del diritto internazionale ed europeo se si vuole comprendere le ragioni del divieto. Basta leggere il saggio di Giovanni Magnifico “L’Euro- ragioni e lezioni di un successo sofferto”, Luiss University Press. La Gran Bretagna ha potuto di recente mettere in atto un salvataggio della Northern Rock proprio in quanto è rimasta fuori dall’area dell’euro. Ciò vuol dire che in un mercato finanziario integrato c’è chi può dedicarsi a salvataggi di banche decotte e chi non può.
· In terzo luogo, per mettere insieme il complesso pacchetto per il salvataggio di Bear Stearns le autorità monetarie americane hanno dovuto fare ricorso ad una procedura varata nella metà degli Anni Trenta ai tempi della Grande Depressione- poco utilizzata allora e quasi mai da allora. Uno stratagemma indubbiamente ingegnoso ma che verosimilmente causerà non soltanto polemiche politiche ma anche un labirinto giuridico in cui sarà difficili districarsi (negli Usa le norme e le procedure non utilizzate “tramontano” – ossia decadono – automaticamente dopo un certo numero di anni). Ciò avrà l’effetto di aumentare le tensioni sui mercati (anche su quelli internazionali, e sul nostro) non di contenerle. A monte di tale vertenza giuridica (che si annuncia complessa) c’è il più severo problema economico del fenomeno dell’”azzardo morale”: Bear Stearns operava in un ambiente grigio (e venne pizzicata un paio di volte dagli ispettori della vigilanza Usa), scegliendo i segmenti del mercato finanziario parzialmente de-regolati. Il salvataggio può essere un incoraggiamento a comportamenti analoghi, pur se considerati “disdicevoli” nei “salotti buoni”. Alla Fed (ed ancor più alla Bce e nel variegato molto delle Autorithy italiane) si dovrebbe leggere e meditare il libro di Paul W. Mac Avoy della Yale School of Management “The unsustainable cost of partial deregulation” pubblicato alla fine del 2007 per i tipi della Yale University Press. La lettura sarebbe utile a chi tra poche settimane dovrà pilotare il rilancio economico del nostro Paese.
Oltre a questi aspetti di rilievo per l’area dell’euro e, quindi, per l’Italia, ce ne è uno più immediato relativo a polemiche di politica in atto in questi giorni a casa nostra. Mentre il sistema monetario e commerciale progettato a Bretton Woods - si prenda il brillante lavoro giovanile di Richard Gardner (Ambasciatore Usa in Italia negli Anni della Presidenza Carter) “The Sterling-Dollar Diplomacy” Oxford University Press 1956- era costruito sull’assunto di una liberalizzazione progressiva del commercio internazionale ma su mercati finanziari regolamentati, nonché su controlli valutari e tassi di cambio gestiti collegialmente nell’ambito del Fondo Monetario (proprio per rendere possibile la liberalizzazione degli scambi), ora siamo al suk della finanza internazionale e dei salvataggi (anche di è giudicato “disdicevole” nei “salotti buoni”). Occorre, con benevolenza, attribuire all’entusiasmo dei neo-convertiti al liberalismo la motivazione principale delle reazioni contro le idee (pure di Papa Giovanni Paolo II) dirette a portare un po’ d’ordine.