martedì 25 marzo 2008

IMPRESE VIVACI ED EFFICIENTI BLOCCATE PER L’ECCESSO DI REGOLE da LIBERO DEL 20 MARZO

L’aspetto più significativo del rapporto Isae è l’analisi , in quattro densi capitoli, sulla ristrutturazione del sistema imprenditoriale in corso in questo inizio di XXI secolo . E’ uno studio importante sia per il metodo (indagine empiriche suffragate da modelli di micro-simulazioni) sia per i risultati. Mostra come anche in un periodo di crescita piatta (e di vera e propria crisi negli anni immediatamente seguente l’11 settembre 2001), l’imprenditoria italiana, soprattutto quella delle Regioni settentrionali, abbia dato prova di notevole vivacità e di grande abilità nel ristruttura processi e modificare prodotti – quindi, di un alto grado di “efficienza adattiva”. Lo mostrano a tutto tondo le statistiche riportate. La vivacità sarebbe stata ancora maggiore se non ci fosse un clima di incertezza che incide profondamente sulla fiducia e di imprese e di consumatori (attenzione ai dati dell’indagine Isae attesi per venerdì 21 marzo) e se la deregolamentazione non avesse avuto una vera e propria battuta di arresto negli ultimi due anni. Rendendo, tra l’altro, difficile al PD la ricerca di voti nel Nord (come confermano le più recenti analisi di Roberto D’Alimonte).
Andiamo alle caratteristiche essenziali. All’integrazione economica internazionale, le imprese italiane hanno risposto con due tipologie differenti di “efficienza adattiva”: quella “passiva” (una selezione darwiniana di autoselezione che ha caratterizzato aziende già meglio dotate); una “attiva” che ha spinto a ristrutturazioni interne, ad una maggiore focalizzazione su alcune specializzazioni produttive, ad un più spiccato orientamento verso i mercati internazionali, ad uno spostamento delle filiera produttiva verso un più alto contenuto qualitativo. Un aspetto interessante (analizzato in dettaglio per il periodo 2003-2007) è l’abilità delle imprese esportatrici ad adattare la proprio produzione ai comparti con domanda meno elastica al prezzo (quali il lusso): ciò spiega l’aumento dei prezzi all’esportazione rispetto a quelli interni, nonostante l’alto (e crescente) valore internazionale dell’euro e la sempre più aggressiva competizione cinese). Interessante notare che, nonostante le ipotesi di molti economisti del centro-sinistra, il rapporto documenta (con un lavoro statistico molto approfondito) che l’euro non ha avuto “nessun impatto di stimolo sulla propensione ad esportare nell’unione monetarie da parte delle imprese manifatturiere italiane”). Il tempo è galantuomo: oggi si dimostra che non aveva tutti i torti chi veniva considerato un bastian contrario negli anni della corsa verso la moneta unica. Altra dimensione importante: nel periodo 2004-2007, le imprese nel Nord hanno mostrato di sapere utilizzare meglio delle altre la parziale deregolamentazione del mercato del lavoro ed hanno ampliato i propri organici in misura significativa.
Un quadro, quindi, tanto più incoraggiante e tanto più positivo in quanto si situa in un contesto di stagnazione quasi dell’economia reale, di difficoltà di finanza pubblica e negli ultimi due anni di forti aumenti della pressione fiscale e di cattiva gestione della cosa pubblica. In particolare, nonostante una barocca architettura di comitati e commissione ed una marea di consulenti, poco o nulla si è fatto in termini di deregolamentazione, anche in quanto, come scrive efficacemente, Edward Lopez in un saggio in uscita su “Public Choice” nessuno si è preso la briga di deregolamentare i deregolamentatori. Non solo ma non si tenuto alcun conto dell’analisi economica nelle valutazioni di impatto della regolazione (come auspicato, sulla base di documentazione molto cogente, da Robert Hahn e Paul Tetlock nell’ultimo fasciolo del “Journal of Economic Perspectives”.

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