domenica 16 marzo 2008

MILANO CELEBRA PUCCINI MA NON TROPPO da L'Occidentale del 16 marzo

A Milano, ed ai milanesi, Puccini piacque da morto. Gli vennero tributate ovazioni alla “prima” postuma di “Turandot” (il 25 aprile 1926) quando (offendendo il povero Franco Alfano che tanto si era speso per completare il lavoro sulla base degli appunti lasciati dal maestro) Toscanini interruppe l’esecuzione proprio all’ultima nota composta dal lucchese. Milano non gli fu una città ospitale quando Puccini era studente: la fame ed il freddo di quel periodo sono ben ritratti in “Bohème”. Criticò, con tutta l’accidia del perbenismo borghese, il suo legame con Elvira e con i figli “irregolari” (per utilizzare il lessico dell’epoca) avuti con lei. Bocciò il suo primo tentativo serio di teatro in musica (“Le Willis”) , una delle poche fiabe della lirica italiana, messa in scena al Dal Verme grazie ad una colletta di amici, ma applauditissima sette mesi dopo al Regio di Torino. Stroncò “Edgard” (ma su quel drammone forse i milanesi non avevano tutti i torti) quando il giovane toscano riuscì a fare rappresentare una sua opera nuova alla Scala. Sempre nella sala del Piermarini, la prima versione di “Madama Butterfy” (il 17 febbraio 1904) venne travolta da fischi e proteste: quella che si rappresenta normalmente è la quarta versione (per Parigi e Venezia) di alcuni anni più tardi ma la prima (che ebbi la fortuna di ascoltare quando Eve Queller dirigeva l’Opera di Boston e offriva almeno una chicca rara l’anno) è interessantissima sia drammaturgicalmente (Pinkerton è un vero gaglioffo) sia musicalmente (per le anticipazioni di ciò che fiorirà , in Germania più che in Italia, un paio di lustri più tardi).
Milano, in effetti, non gli vuole bene neanche dopo morto. Per i 150 anni dalla nascita (celebrata in tutto il mondo) riesuma (in pieno luglio) la vecchia edizione di “Bohème” firmata circa 50 anni fa da Zeffirelli e presenta sino al 2 aprile una nuova edizione de “Il Trittico” firmata da Luca Ronconi (e realizzata con la sua squadra di scenografi e costumisti). Lo spettacolo dovrebbe poi andare al Teatro Real di Madrid; per amore di Patria, ci auguriamo che resti in suolo italiano.
C’era molta attesa perché un’edizione completa del lavoro mancava alla Scala daò 1983. “Il Trittico” è composto da tre atti unici che, nella loro integrità, comportano circa quattro di spettacolo e, con l’eccezione della terza parte (“Gianni Schicchi”) non è noto al grande pubblico. “Il Trittico” è un poema sinfonico in tre movimenti; inizia con un “agitato” (il grand-guignolesco “Tabarro”), continua con un “largo” (“Suor Angelica”) e si chiude con uno “scherzo” (“Gianni Schicchi”) . Nei primi due movimenti, si avvertono echi di tempo di tango e di valzer (“Tabarro”) e di slow-fox e di jazz cabarettistico (“Gianni Schicchi”). Nel secondo (“Suor Angelica”) si percepisce, invece, il gran sinfonismo post-wagneriano ed anche la scrittura quasi atonale (nell’aria “Amici fiori” recuperata proprio nel 2002 per un’esecuzione romana dopo oltre 70 anni di oblio) e la polifonia. L’allestimento richiede circa 40 solisti ed un’orchestra di vasto organico ed in grado di rivelare la raffinatezza di un Puccini in una delle sue partiture, al tempo stesso, più complesse e più moderne. Affidato ad esecuzioni di serie B, “Il Trittico” perde tutto lo smalto e, al tempo stesso, l’arcano di una scrittura, anche vocale, lanciata verso l’avvenire dove il declamato ha, come contrappunto, la polifonia.
I tre atti si svolgono in tre momenti storici differenti. Nel proletariato francese del primo Novecento “Il Tabarro”; nel Seicento de “I Promessi Sposi” “Suor Angelica”; nella Firenze del 1299 “Gianni Schicchi”. Hanno anche tinte musicali differenti: l’impressionismo francese “Il Tabarro”, i chiaroscuri dei macchiaioli “Suor Angelica”; il preraffaelliti (letti con ironia) “Gianni Schicchi”. Nel restauro di alcuni anni fa, La Scala si è dotata di uno dei palcoscenici più moderni al mondo – in grado di allestire quattro opere la settimana. Sino ad ora lo ha utilizzato, nella sua potenzialità, unicamente Zeffirelli per “Aida”. “Il Trittico” era una grande occasione:
nel “Tabarro”, le chiatta di Michele sul fiume, il Lungosenna, l’abside di Nôtre Dame; in “Suor Angelica” , il Chiostro monacale, il giardino, il parlatorio: in “Gianni Schicchi”, il brusio della Firenze medioevale. Tanto da stimolare la fantasia di Ronconi – di cui si rapprendano ben 3 spettacoli a Milano in questo marzo 2008.
Invece, un allestimento degno di un teatro di provincia dell’Europa centrale: accettabile agli Stadttheater di St. Gallen o Klagenfurt oppure Kassel.
Ma non alla Scala. Nell’unico omaggio alla celebrazioni pucciniane. Un impianto unico: da un grande squarcio nel fondo scena (grigio in “Tabarro”, bianco in “Suor Angelica”, rosso in “Gianni Schicchi”) trapelano qualche cenno a Parigi ed alla chiatta, una statua della Madonna, litografie di Firenze, l’immagine di Dante. Nessun riferimento al visivo dell’epoca; costumi atemporali. In “Suor Angelica”, infine, l’intero palcoscenico è occupato da una scultura sdraiata di donna (un’altra Madonna? La femminilità ferita?); le poverine suorine hanno un bel da fare per andare da un lato all’altro del palcoscenico senza inciampare. Se l’intenzione era di fare economia, si poteva (invece di scritturare l’occupatissima ditta Ronconi & Co.) prendere a nolo la bella produzione (regia di Cristina Pezzoli, scene di Giacomo Andrico, costumi di Gianluca Falaschi) che ha debuttato nel febbraio 2007 a Modena ed è stata portata con successo in altri sette teatri (pare che si vedrà anche all’estero). La Scala ha di recente importato, a nolo, ottimi spettacoli da altri teatri stranieri; si adontava a prendere uno per realizzare il quale si sono coalizzati otto teatri italiani?
Se si voleva innovare ( a chi scrive piacciono gli allestimenti innovativi ed attualizzati), si doveva lavorare di ingegno come Ronconi ha fatto in altre occasioni (ad esempio nel “Ring” wagneriano fiorentino del 1979-82). Se Ronconi non sentiva affinità con Puccina (la sua “Tosca” scaligera di una dozzina di anni fa era più felliniana che pucciniana) avrebbe dovuto non accettare l’incarico. Il lavoro non gli manca. E quando si esaurisce la vena, si può sempre fare il nonno o lo zio.
Nei primi due atti unici, la recitazione segue pedissequamente le convenzioni degli Anni Venti. In “Gianni Schicchi”, i parenti di Buoso Donati sembrano una congrega di isterici ; Lauretta e Rinuccio paiono assetati di sesso – l’imbroglio dal giovane inventato non sarebbe per andare all’altare ma si esaurirebbe sotto le lenzuola.
Grazie al Cielo, a ragione dell’abilità di Riccardo Chailly e dei complessi della Scala, la situazione è migliore dal lato musicale. Non è questa la sede tecnica per un’analisi completa. Anche sul versante dell’orchestra e delle voci, però, non siamo all’altezza di un teatro che vorrebbe essere il tempio nazionale della lirica. Ad esempio, perché non si è scelta la strada presa dall’Opera di Roma, da Firenze, dal Metropolitan e da Modena (& le altre) di affidare i tre ruoli femminili centrali alle tre opera allo stesso soprano (al Met li aveva tenuti Renata Scotto, a Roma Daniela Dessì, a Firenze Mirella Freni, a Modena & Co. da Amarilli Nizza, tutte al meglio della lora maturità professionale)? E’ una scelta che dà unità a “Il Trittico”. Inoltre, perché affidata la regia ad un “grande vecchio”, si sono dati ruoli importati a tre altri “grandi vecchi” di cui uno non più in grado di cantare in voce? Infine, perché in “Poveri fiori” non si è scavato negli anticipi della atonalità?.
Povero Puccini; Milano non gli vuole proprio bene. Lo sapeva. Ebbe proprio ragione a chiedere Mussolini nel 1923 che il Teatro Lirico Nazionale Italiano (il suo sogno) venisse creato a Roma. Il Capo del Governo non lo ascoltò.

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