Siamo ai postumi delle tensioni causate dalla finanza strutturata in cui titoli di dubbia solvibilità (in gergo il subprime) si annidano in complicati impacchettamenti con obbligazioni ed azioni di buona qualità? Oppure ci dobbiamo aspettare altri strappi, pure più forti, sui mercati finanziari? E, soprattutto, come individuare dove si annida il subprime e come isolarlo, se possibile, dal resto? Questi interrogativi sono cruciali per interpretare la crisi internazionale in atto che, come si è visto su L’Occidentale del 28 febbraio, non è senza conseguenze per l’economia italiana e per i programmi di politica economica dei maggiori schieramenti in campo in vista delle prossime elezioni.
Molto utili due documenti diramati a fine febbraio dal Comptroller of Currency (direzione generale del Tesoro Usa competente per la vigilanza finanziaria) e dalla British Bankers’ Association ma poco notati anche dalla stessa stampa specialistica italiana.
Ambedue riguardano un aspetto specifico della finanza strutturata: i “credit default swaps” (i gergo Cdo), titoli che dovrebbero coprire le perdite di banche e di detentori di obbligazioni in caso di insolvenza di imprese a cui hanno fatto credito. E’ un mercato molto più ampio di quel che si pensi: negli Usa è passato da 900 miliardi nel 2000 a 45.500.000 miliardi di dollari (il doppio circa della capitalizzazione di Wall Street) nel 2007; un’evoluzione analoga si è verificata, più o meno nello stesso periodo, nella finanzia britannica.
Il Comptroller of Currency avverte che nell’ultimo trimestre dell’anno scorso, le transazioni di “credit default swaps” sono state tali e tante da mettere a repentaglio i sistemi di controllo interni delle banche e la loro stessa capacità di assicurare la corrispondenza tra domanda ed offerta dei titoli in questione. La British Bankers’ Association sottolinea che nel 2006 il 30% dei “credit default swaps” si basavano su indici che esprimevano panieri compositi di debiti da parte di numerosi emittenti e che il 16% del totale aveva come sottostante Cdo. In tutti questi casi è difficilissimo distinguere il grano dal loglio, con le conseguenze che avvertiamo in questi mesi – un “credit crunch” (restrizioni al credito) derivante da forte avversione al rischio (speculare ad una diffusa mancanza di fiducia), pur se a livello internazionale, e sotto il profilo macro-economico, si abbonda in liquidità.
Si tratta, precisa un’analisi della Federal Reserve Bank di New York, di un enorme mercato assicurativo e ri-assicurativo quasi totalmente non regolamentato. I tentativi di sottoporlo a regolamentazione non sono incoraggianti. Più promettenti quelli diretti ad identificare gli elementi specifici di subprime in titoli che vengono, non senza ragione, definiti “strumenti finanziari arcani”. E’ in questa direzione che si sta muovendo l’International Swaps and Derivatives Association (Isda) – l’associazione professionale del settore. Anche la ricerca accademica, nelle Facoltà di Finanza e di Economia Aziendale, sta intensificando gli sforzi in questo senso. Ci sono già esiti positivi.
Un’analisi pubblicata nell’ultimo numero di “Accounting & Finance”, ad esempio, rileva come siano ormai diventati di breve periodo eventuali casi di confusione da parte di investitori a proposito di titoli che sembrano simili ma hanno sottostanti molto differenti.
Un lavoro del Wharton Financial Institution Center dell’Università di Filadelfia conclude (sulla base di 134 variabili in 33 Paesi) che , appropriatamente calibrati, gli strumenti di Global Value at Risks (Global VARs) possono essere utilizzati per stime robuste a medio termine di valorizzazione dei titoli. All’Isda si fa notare con una punta di soddisfazione che a livello mondiale in dicembre il tasso di insolvenza di titoli ad alto rendimento ma di bassa qualità è stato appena dello 0,9% - il più basso che si ricordi.
Segno che si stanno cominciando ad ottenere risultati concreti anche se non si dispone ancora di un ricettario preciso. Tutte indicazioni utili e positive per superare l’attuale difficile momento internazionale. E renderlo meno vincolante sulla politica economica italiana.
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