lunedì 31 gennaio 2011

Fede e inquieto ateismo ne "La forza del destino" di Verdi Il Sussidiario 31 gennaio

TEATRO REGIO DI PARMA/ Fede e inquieto ateismo ne "La forza del destino" di Verdi
Giuseppe Pennisi
lunedì 31 gennaio 2011
La forza del destino di Verdi al Teatro Regio di Parma
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TEATRO/ "Uno sguarda dal ponte", a Roma l'opera moderna di Miller
STAGIONE LIRICA ROVIGO/ In scena una Carmen da tragedia antica
TEATRO REGIO DI PARMA - LA FORZA DEL DESTINO DI GIUSEPPE VERDI - Verdi - raccontano le storie delle musica - si avvicinò al pentagramma suonando l’organo nella piccola Chiesa di Le Roncole (frazione di Busseto) di fronte alla casa della sua famiglia. La Chiesa era poco più di una cappella dove venne battezzato “Giuseppe Fortunino Francesco”, nomi augurali e ispirati a un cristianesimo frugale. È probabile che con il passar degli anni si cimentasse pure con l’organo di Santa Maria degli Angeli in Busseto, accanto al magnifico complesso policromo in terracotta (con figure a grandezza umana) di Guido Mazzoni raffigurante la deposizione dalla Croce e la sofferenza della Vergine e degli Apostoli.

È in Chiesa che il 4 maggio 1836 (a meno di 24 anni) sposa Margherita Barezzi, figlia del suo benefattore, e va con lei in viaggio di nozze a Milano dove, dopo molte amarezze, conta di perseguire un percorso di successi nella vita musicale nella capitale del Lombardo-Veneto dell’Impero austro-ungarico. Le amarezze diventano, però, insuccessi professionali, tragedie personali e una crescente crisi filosofica e religiosa: “Oberto”, la sua prima opera, ha un buon esito, ma la seconda (“Un giorno di regno”) viene travolta dai fischi. I suoi figli, Virginia Maria Luigia e Icilio Romano (ambedue battezzati secondo i riti di Santa Romana Chiesa) muoiono bambini - e Verdi non avrà più il dono della paternità (dramma che compare in gran parte delle sue opere); muore anche Margherita.

Pochi studiosi hanno affrontato il tema della perdita della Fede nella poetica e nella musica di Verdi. Alcune sue opere (si pensi a “Don Carlo”, a “Aida”, alla prima versione de “La forza del destino”) hanno passaggi violentemente anticlericali - in linea, si dice normalmente, con l’atmosfera di un Risorgimento in cui il Papa e il clero venivano percepiti tra i maggiori ostacoli all’Unità d’Italia -. Che il Verdi maturo fosse ateo è noto: commentando la “Messa da Requiem”- che dovrebbe essere un lavoro religioso per eccellenza - Massimo Mila ha scritto “protagonista ne è l’uomo vivo, non il defunto, e l’azione è in questa terra, non nell’aldilà”. Per Hans von Bülow, il direttore d’orchestra favorito da Wagner, il “Requiem” è “un’opera lirica in veste ecclesiastica” - “che solo un genio può avere scritto”, aggiunge Johannes Brahms.

Poco più di tre anni fa, il Festival Verdi 2008 ha offerto un’occasione per esaminare questo passaggio in modo inconsueto: attraverso quattro opere che collocandosi tra il 1842 ed il 1851, sono rappresentative del decennio in cui Verdi transitò dalla Fede a un ateismo inquieto, molto differente da quello della sua compagna di vita e seconda moglie Giuseppina Strepponi, atea coltissima (proprio in tema di varie tipologie di ateismo) e felice di esserlo (come rivela il suo epistolario).
Di nuovo a Parma, l’inaugurazione della stagione invernale primaverile del Teatro Regio dà il destro per affrontare di nuovo l’argomento. L’occasione è il nuovo allestimento de “La Forza del Destino” (che sarà in scena sino all’8 febbraio nella città emiliana e , ci si augura, verrà ripreso da altri teatri). Viene utilizzata la versione critica di Philip Gosset dell’allestimento scaligero del 1869; è, quindi, integrale e senza i consueti “tagli di tradizione” per una durata complessiva di quattro ore (compresi i due intervalli).

L’edizione critica della versione scaligera (ormai considerata “di riferimento”) permette di toccare con mano le differenze concettuali, non solo tecnico-musicali, rispetto alla stesura originale dell’opera, presentata nel 1862 (peraltro senza grande successo) a San Pietroburgo (che la aveva commissionata per la cifra strabiliante di 22.000 rubli - il cachet medio per una commissione d’opera a un autore russo era 500 rubli). In Italia, nell’ultimo quarto di secolo l’edizione del 1862 è stata vista solo due volte, rispettivamente Roma e a Milano, nel corso di tournée del Teatro Mariinskiy.

La differenza essenziale sta nel trattamento della Fede. Nella versione del 1862 l’opera si conclude con la morte dei tre protagonisti (Alvaro si suicida dopo avere constatato il decesso di Leonora e di Carlo) in un mondo dove non c’è né speranza né posto per l’aldilà, quindi per Dio.
Nella versione scaligera, il finale è dominato dall’intervento del Padre Guardiano Non imprecare umiliati e dallo splendido terzetto sul perdono. Un Verdi convertito? Nei sette anni tra le due versioni, la frequentazione di Alessandro Manzoni aveva probabilmente indotto il compositore a dubitare del proprio ateismo.

Attenzione, a dubitare non a rinunciarvi. Nei lavori successivi - si pensi a “Aida” e “Otello” - la visione del mondo è di nuovo atea, ma si tratta di un ateismo tormentato che troverà (forse) pace solo nel suo testamento musicale: la “fuga” con cui termina Falstaff “Tutto il mondo è una burla!”. Un addio, però, tutt’altro che sereno. Mauro Mariani, docente al conservatorio di Santa Cecilia, ricorda, in un saggio recente, una frase di Verdi: “Penso che la vita è la cosa più stupida, peggio inutile”.
Le differenze musicali tra le due versioni, che ora si possono studiare meglio di prima grazie al lavoro di Gosset, sono percepibili in gran misura unicamente da un orecchio attento e meno rilevanti di quelle concettuali.

Tra il 1862 ed il 1869 Verdi aveva metabolizzato i cambiamenti nel mondo musicale europeo (soprattutto in quello francese), ma non aveva ancora avuto accesso a Wagner. Per molti aspetti, “La Forza” si pone come un primo esempio di “grand opéra padano”, genere in cui si annoverano lavori come “La Gioconda” di Amilcare Ponchielli e “Cleopatra” di Lauro Rossi.


L’allestimento di Parma si avvale di un’efficace drammaturgia (regia, scene, costumi e luci) di Stefano Poda che, con pochi mezzi e ponendo l’azione in visionario Diciannovesimo Secolo, riesce a essere grandiosa. Gianluigi Gelmetti concerta con un afflato quasi beethoveniano. Di rilievo il debutto, nel ruolo di protagonista, di Dimitra Theodossiou, non più giovane e dopo 20 anni di carriera. La sua è una Leonora piena di temperamento, meno dolce di quanto ormai tradizionale, con tinte belcantistiche che scivolano nel drammatico.

La affiancano Vladimir Stoyanov (baritono verdiano sperimentato) e Aquiles Machado (tenore lirico venezuelano che ricompare, dopo un periodo di assenza sulla scena internazionale, in un ruolo più “spinto” di quanto a lui consueto). Di livello, gli altri due protagonisti Mariana Pentcheva e Roberto Scandiuzzi nonché Carlo Lepore, bravissimo “Fra Melitone”.

sabato 29 gennaio 2011

La forza del destino apre la stagione a Parma Milano Finanza 29 gennaio

InScena
di Giuseppe Pennisi


Il primo aspetto interessante della verdiana La forza del destino (che ha inaugurato la stagione lirica del Regio di Parma dove è in scena fino all'8 febbraio) è la versione critica di Philip Gosset dell'allestimento scaligero del 1869. Meno cruda dell'edizione presentata a San Pietroburgo nel 1862, fa comunque toccare con mano quanto nell'arco di pochi anni Verdi abbia metabolizzato nuovi canoni «europei».
Gianluigi Gelmetti mette in risalto questo aspetto con una concertazione dilatata che sottolinea come sia complesso il perdono, tema centrale dell'opera. Gelmetti introduce un cromatismo particolare, tutto verdiano poiché a quell'epoca il maestro di Busseto non aveva ancora avuto accesso a Wagner. Di rilievo il debutto di Dimitra Theodossiou, non più giovane e con 20 anni di carriera nel ruolo di protagonista. La sua è una Leonora piena di temperamento, con tinte belcantistiche che scivolano nel drammatico. La affiancano Vladimir Stoyanov (baritono verdiano sperimentato) e Aquiles Machado (tenore lirico venezuelano che ricompare, dopo un periodo di assenza sulla scena internazionale, in un ruolo più «spinto» di quanto a lui consueto). Di livello gli altri due protagonisti, Mariana Pentcheva e Roberto Scandiuzzi, nonché i numerosi personaggi minori e il coro, che ha un ruolo importante in questo primo esempio di quello che diventerà il «grand opéra» padano. Regia, scene e costumi di Stefano Poda portano l'azione alla seconda metà dell'Ottocento ma convincono solo in parte. (riproduzione riservata)

A Palermo “Senso” salta la prima per sciopero ma incanta Il Velino 28 gennaio

CLT - Lirica/ A Palermo “Senso” salta la prima per sciopero ma incanta
Palermo, 28 gen (Il Velino) - Con la ripresa delle stagioni liriche, sono ricominciati scioperi che danneggiano in primo luogo gli operatori del settore. È saltata la prima del nuovo allestimento di “Cavelleria” e “Pagliacci” alla Scala e, cosa ben più grave, l’inaugurazione del Teatro Massimo di Palermo: “Senso” del compositore milanese Marco Tutino, fra i più rappresentati sulla scena teatrale contemporanea. Una rara commissione data da un teatro a un compositore italiano inserita nel programma pluriennale che il Massimo sta dedicando al 150esimo dell'Unità d'Italia, comprendente sia titoli della stagione principale che attività appositamente ideate per gli studenti, come lo spettacolo "Bianco Rosso e Verdi", che ha ottenuto il prestigioso premio Abbiati della critica Musicale italiana quale miglior progetto italiano del 2009. Minacciano di saltare anche le prime romane de “L’Elisir d’Amore” e del “Lago dei Cigni”. Lo sciopero a Palermo è stato motivato dal fatto che il sovrintendente e il compositore (quando era sovrintendente del Comunale di Bologna) hanno applicato la legge per risanare i conti dei teatri. A Roma si contesta la norma secondo cui non si possano pagare premi di produttività in teatri dove i bilanci consuntivi chiudono in rosso. Il resto del mondo musicale europeo ride rispetto a tali richieste corporative in un Paese in cui il costo di una rappresentazione è il doppio della media Ue, spesso a ragione di organici eccessivi rispetto alla produzione.

“Senso” è in scena a Palermo ancora per pochi di giorni. Nel 2011 sarà a Varsavia (che la coproduce) e forse a Trieste ed a Los Angeles. Occorre correre a vedere lo spettacolo. Il compositore Tutino e l’autore del libretto, Giuseppe Di Leva, si sono ispirati alla omonima novella di Camillo Boito, uscita nel 1883 e resa celebre dalla splendida trasposizione cinematografica di Luchino Visconti nel 1954: l’opera si svolge nei primi anni di vita dello Stato unitario italiano ed è intrisa di profondi dissidi, fra amore, interessi e tradimenti. Una scelta tematica che suggella l'anno di celebrazioni per il 150esimo dell'Unità ma che soprattutto conferma il percorso artistico di Marco Tutino, da sempre intento a misurarsi con temi profondi tratti dalla letteratura o dall'attualità. “Da tempo - sottolinea il compositore - pensavo di comporre un'opera ispirandomi a ‘Senso’, che mi colpì molto già quando vidi il film in tv ad appena dieci anni. Ho subito il fascino della doppia dimensione della novella di Boito, che narra di un dramma personale con un forte riferimento alla storia risorgimentale”. L'opera si dipana infatti su due livelli narrativi: il primo, collettivo, è il panorama storico risorgimentale, il secondo è una vicenda passionale individuale. In primo piano la figura di Livia, io narrante e soggetto di un amore cinico e morboso che nel libretto di Giuseppe Di Leva, frequente collaboratore di Tutino, si intrecciano vicendevolmente.

L’allestimento è una gioia per gli occhi. Hugo De Ana, che firma regia, scene e costumi, ha immaginato un sontuoso apparato scenico, basato su un caleidoscopio di riflessi che propongono un Risorgimento non didascalico ma immaginifico, in cui non mancano i riferimenti alla cinematografia di Visconti. Anche la musica di Marco Tutino vuole creare delle immagini: “vorrei che la musica si dispieghi come la visione di un arazzo, dove su uno sfondo storico ed eroico le note illuminano e ingrandiscono la vicenda passionale e intima”. L'Orchestra e il Coro del Teatro Massimo è una fra le più note bacchette di oggi, Pinchas Steinberg. Fra gli interpreti, lei - Livia Serpieri - sarà il soprano Nicola Beller Carbone, lui - Hans - il tenore Brandon Jovanovich, Giorgio Surian invece indosserà i panni del conte Serpieri.
(Hans Sachs) 28 gen 2011 13:38

giovedì 27 gennaio 2011

L’ombra del petrolio dietro la rivolta in Albania in Affari Internazionali 27 gennaio

L’ombra del petrolio dietro la rivolta in Albania
Giuseppe Pennisi
27/01/2011
Il conflitto tra governo ed opposizione in corso in Albania non ha radici esclusivamente politiche, ma anche, e forse soprattutto, economiche. Le elezioni parlamentari del 2009 sono state vinte per un soffio dall’Alleanza per il Cambiamento, una coalizione di partiti di centro-destra guidata da Sali Berisha, che ha conquistato il 46,85% dei voti (70 seggi). L’Unione per il Cambiamento, una coalizione di centro-sinistra guidata dall’attuale sindaco di Tirana Edi Rama si è fermata al 45,34% dei voti (66 seggi); il resto si è disperso in liste minori di ispirazione socialista (che hanno conquistato otto seggi). Pur rilevando varie irregolarità, gli osservatori internazionali hanno giudicato le elezioni nel complesso corrette, nei limiti di quanto possibile in un paese in via di sviluppo che ha subito decenni di dittatura e la cui struttura sociale è ancora in parte basata su clan spesso in lotta tra loro.

Nuovi giacimenti
Una delle cause principali dell’acuirsi delle tensioni tra governo ed opposizione, e degli scontri in atto in questi giorni è la situazione economica del paese, povero di risorse naturali ed umane, ma a cui si prospettano opportunità di rapida ed inattesa ricchezza grazie alla scoperta di giacimenti di petrolio e di gas naturale che potrebbero essere molto consistenti. Il condizionale è d’obbligo perché la scoperta dei giacimenti risale a circa il 2005, ma non sono ancora chiare né quantità né qualità delle riserve rinvenute.

A sfruttare i pozzi dovrebbe essere la società petrolifera svizzera Manas Corporation, che nel dicembre 2007 ha ottenuto la concessione per le attività di esplorazione, sviluppo e produzione grazie ad un accordo tra il ministero dell'Economia, Commercio e Energia, rappresentato dall'Agenzia nazionale di risorse naturali (Akbn) e la Dwm Petroleum AG (una controllata della Manas). Ottimista uno studio della Gustavson Associates LLC, società internazionale di consulenza ingegneristica e finanziaria: "le riserve di petrolio rinvenute in Albania sono molto più grandi di quanto si pensasse sino ad ora", oltre all'esistenza di un giacimento sotterraneo di tre trilioni di metri cubi di riserve di gas naturale. Secondo la Gustavson Associates, l`Albania diventerà il paese della regione con la maggiore riserva di idrocarburi. Le prospettive del paese cambierebbero drasticamente. Intanto, c’è un’accanita lotta interna - non soltanto tra governo ed opposizione, ma soprattutto tra i vari clan - per assicurarsi il controllo delle risorse energetiche.

Non che non ci sia stata crescita dalla fine del regime comunista ad oggi. Grazie al forte afflusso di aiuti pubblici allo sviluppo e alle rimesse degli 1,2 milioni di albanesi all’estero, nel corso degli ultimi anni le risorse non sono mancate. Carenti, invece, sono le opportunità di investimento. Gli aiuti allo sviluppo sono stati in gran parte indirizzati verso le infrastrutture di base (specialmente trasporti) di cui il paese era estremamente carente vent’anni fa. Gli investimenti non sono stati valutati sempre con il necessario rigore - troneggia al centro di Tirana lo scheletro di un grandioso ospedale la cui costruzione, avviata all’inizio degli anni novanta poi abbondata nel 2004 a causa della sproporzionalta lievitazione dei costi -, ma ora il Paese dispone di un’infrastruttura fisica di base.

Piramidi truffa
Il capitale umano è ancora carente nonostante, in base ad una legge pre-elettorale del 2008, operino in Albania ben 53 università quasi tutte private, molte delle quali di dubbia qualità e nate dietro spinte particolaristiche. I capitali privati dall’estero sono affluiti in gran misura nell’edilizia residenziale o commerciale, in misura minore nel terziario e pochissimo nel manifatturiero (essenzialmente ancora a carattere artigianale). Sono stati uno dei volani delle privatizzazioni delle imprese di stato. Ma hanno anche alimentato la speculazione finanziaria interna che ha portato nel 1997 alla crisi delle “piramidi” truffa, con il fallimento di due delle principali banche, una caduta drastica del Pil, l’esplosione dell’inflazione e dei disordini che causarono oltre un migliaio di morti e gravi distruzioni di proprietà pubbliche e private.

I dati positivi sulla crescita economica e soprattutto quelli sulla distribuzione del reddito sono da prendere con le pinze. Si consideri, ad esempio, che l’Albania è solo al 69simo posto dell’indice di sviluppo umano dell’United Nations development programme. Comunque, la politica economica del Paese viene monitorata con rigore dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale e si sono effettuate privatizzazioni importanti (ad esempio, quella di Telecom Albania-Albtelecom tramite partner importanti sotto il profilo tecnologico e finanziario). Il problema è che la pubblica amministrazione e la struttura di produzione è fortemente incentrata su costruzioni, commercio e agricoltura a bassa produttività. In questo quadro la prospettiva di realizzare cospicue rendite petrolifere è allettante, ma può anche fare da miccia a nuove tensioni politiche e istituzionali.

Giuseppe Pennisi insegna economia internazionale e politica economica europea all'Università Europea di Roma ed all'Università di Malta. V

mercoledì 26 gennaio 2011

Le radici economiche dello scontro in Albania. Il Velino 26 gennaio

ECO - Le radici economiche dello scontro in Albania

Roma, 26 gen (Il Velino) - Le determinanti politiche - ossia i veri o presunti brogli alle ultime elezioni - si intrecciano con determinanti economiche che tocca con mano l’economista che arriva all’aeroporto di Tirana e passa alcuni giorni nel Paese. I dati ufficiali della contabilità economica nazionale, riportati anche da alcuni quotidiani italiani di grande diffusione, mostrano un Paese in rapida crescita il cui Pil pro capite sarebbe quintuplicato dalla caduta del comunismo ad oggi e la cui distribuzione del reddito (con una curva di Lorenz del 26 per cento) sarebbe prossima a quella della Scandinavia. Arduo comprendere perché in un Paese relativamente piccolo (poco più di tre milioni di abitanti in un territorio montagnoso pari a circa un terzo di quello della Puglia) caratterizzato da una forte crescita e da un’equa distribuzione dei suoi benefici sia in atto uno scontro violento. L’economista con esperienza in Paesi in via di sviluppo è consapevole di come i dati della contabilità economica nazionale (specialmente quelli sulla distribuzione del reddito) debbano essere presi con le molle, anzi con diffidenza (specialmente se la struttura di produzione è dominata da costruzioni, pubblica amministrazione, commercio e agricoltura/ pastorizia di sussistenza).

Nel giugno scorso, per una serie di lezioni a un programma di master per dirigenti pubblici, facendo il percorso dallo sfavillante aeroporto di Tirana (molti Paesi in via di sviluppo si dotano di aerostazioni di rango in quanto le considerano il primo biglietto da visita che mostrano al visitatore straniero) al centro della città, conversando con gli allievi - alti funzionari dello Stato e degli enti locali - , andando nei ristoranti e anche a uno spettacolo del Teatro dell’Opera, si avvertiva la forte sensazione di un diffuso crescente malessere per ragioni non solo politiche ma anche e soprattutto economiche. Tirana appare come un enorme cantiere in costruzione con viali che si dipanano da un centro “storico” costruito a immagine di Latina (o meglio Littoria) quando il Regno d’Albania era in un’unione personale con quello d’Italia. Gli eleganti quartieri nei pressi degli edifici pubblici erano presidiati dalla polizia perché circondati da una tendopoli in cui già da un anno - ossia dalle ultime elezioni per il rinnovo del Parlamento - si protestava giorno e notte (in effetti pacificamente) a proposito dei veri o presenti trucchi che avrebbe consentito al Partito Democratico, guidato da Sali Berisha, di risultare il più votato appena per un soffio.

Usciti dal centro “storico” in senso stretto, ci sono vasti quartieri nati da poco e le cui palazzine (in stile edilizia popolare italiana) erano in gran misura vuote. Chiaramente, le rimesse degli emigranti e i frutti di altre attività più o meno lecite sono andati quasi interamente all’edilizia - comparto con un elevatissimo rapporto incrementale tra capitale investito e output - non tanto per ignoranza o ignavia quanto per mancanza di alternative. Gli investimenti in edilizia danno l’impressione di trainare il prodotto interno lordo ma in effetti, se uffici e appartamenti restano vuoti, non contribuiscono a un bel nulla. Nei viali non mancano negozi, dove, però, quasi tutta la mercanzia è importata (in gran misura dall’Italia) dato che il settore manifatturiero interno è quasi inesistente; anche molti prodotti agricoli vengono dall’estero poiché il Paese produce essenzialmente pesca, pastorizia e una gamma limitata di ortaggi. In breve, la crescita reale che si è verificata grazie ad aiuti internazionali, rimesse e attività di albanesi all’estero è confluita quasi interamente in mattoni e calcestruzzo, negozi e supermercati, nonché in una pubblica amministrazione tentacolare in epoca comunista e rimasta sostanzialmente tale. Poco distante dal centro troneggia lo scheletro di un grande ospedale, finanziato (si dice) da programmi italiani e inaugurato già due volte È uno scheletro vuoto fiancheggiato da due gru arrugginite. Il cantiere pare sia stato smontato circa dieci anni fa. I costi del manufatto sono entrati come investimenti nella contabilità economica internazionale anche se i ricavi finanziari e i benefici economico-sociali sono nulli. È emblematico di un’economia cresciuta solo in apparenza.

I viali sono anche fiancheggiati da pubblicità di università: poco prima delle elezioni del 2009 ne sono state parificate numerose. Ora l’Albania si fregia di ben 53 atenei di tutti i tipi e di tutte le sorte (una grande “università turca” è in costruzione nei pressi dell’aeroporto). Producono quel capitale umano così necessario allo sviluppo di un Paese di circa tre milioni di persone? Le contraddizioni appaiono evidenti passando una serata al Teatro dell’Opera della capitale. In una sala di circa 700 posti c’era la Tirana-che-può per un concerto di un giovane tenore albanese ormai noto a livello internazionale (Saimur Pirgu) e dell’orchestra stabile locale. Anche un visitatore giunto da pochi giorni poteva avvertire come l’aria si potesse tagliare a fette. Le tensioni tra i vari gruppi, probabilmente espressione di clan tradizionali, riguardavano - lo si comprendeva nel ricevimento dopo il concerto - chi avesse messo le mani sui giacimenti di petrolio scoperti tra Scutari e Durazzo circa cinque anni fa e della cui consistenza e qualità ancora si discute. Il petrolio viene visto come la speranza per un Paese privo di risorse e tenuto in piedi da flussi di finanziamento dall’estero. È verosimilmente l’effettivo oggetto del contendere, il “sottostante” - si direbbe in termini finanziari - degli scontri di questi giorni. Potrebbe rivelarsi frutto di lacerazioni profonde come, per ricordare un esempio recente, il giacimento chiamato “Espoir” nella Costa d’Avorio.

(Giuseppe Pennisi) 26 gen 2011 15:57

C'è un piano B per salvare l’Europa Il Sussidiario 26 gennaio

FINANZA/ 1. C'è un piano B per salvare l’Europa
Giuseppe Pennisi
mercoledì 26 gennaio 2011
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FINANZA/ Perché gli speculatori abbandonano l’Europa?, di M. Bottarelli
FINANZA/ Roma crolla, e la Lega "festeggia" in Banca e al Governo..., di G. Credit
Vai allo Speciale Euro e Italia: quale destino?

Nella riunione preparatoria dell’imminente riunione del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea, in programma a Bruxelles il 4 febbraio, occorre porre apertamente sul tavolo il nodo delle condizioni che consentano all’eurozona di sopravvivere. Non è argomento che riguarda unicamente i 17 Stati dell’area dell’euro.

Un parere pro-veritate del servizio legale della Banca centrale europea di circa 18 mesi fa è stato chiarissimo: se si è chiesto di entrare nell’unione monetaria e si è stati accettati, ove si esca o si sia buttati fuori, non si fa più parte neanche dell’Ue. La sanzione è severissima, poiché il mercato unico non potrebbe sostenere quelle che sarebbero l’equivalente di svalutazioni competitive.

Sulla gravità del problema è in atto una congiura del silenzio, specialmente sulla stampa italiana (ne parlano più o meno velatamente quella francese e tedesca, non quella britannica, tradizionalmente scettica sulle possibilità di durata a lungo termine). I termini sono spiegati meglio che altrove nel saggio di “The EU and the Eurozone: Past, Present and Future” di Winston W. Chang della State University of New York, diramato on-line agli abbonati di “European Economics: Macroeconimcs & Monetary Economics Journal” Vol. 5, No 11 la notte tra il 21 e il 22 gennaio in attesa di uscire su supporto cartaceo a fine marzo. Winston W. Chang è un professore ordinario sino- americano sulla settantina con una lunga carriera in Asia e negli Stati Uniti e, quindi, nella lontana Buffalo, è distinto e distante dalle beghe del Continente da lui considerato “vecchio”, non “Vecchio”.

Nel saggio, dopo avere tratteggiato i successi dell’Ue (la promozione di pace, giustizia e benessere in un mercato di circa 500 milioni di persone, l’integrazione monetaria tra più di 200 milioni di persone), Winston W. Chang si chiede se i recenti tentativi di rafforzare l’eurozona con un più stringente patto di crescita e di stabilità, con un meccanismo europeo di stabilità finanziaria, con un strumenti quali gli “eurobonds”, con la creazione di agenzie per la supervisione dei mercati finanziari sono tali da assicurare la durata di lungo periodo e dell’area dell’euro e della stessa Ue. La risposta è che sono necessari come rimedi di breve periodo, ma non sufficienti.


Chang è stato considerato un “euro-entusiasta ben temperato” nel mondo accademico americano non come un “euroscettico” quale il decano della professione, Martin Feldstein, per il quale - già in un saggio del 1994 - l’unione monetaria avrebbe voluto dire non solo rallentamento della crescita nell’Ue, ma anche tendenze separatiste che avrebbero portato a conflitti, pure armati.

Gli interrogativi posti da Chang riecheggiano anche in note interne del servizio studi della Banca centrale europea e della Banque de France - due delle vestali dell’unione monetaria. Esigono risposte che non siano meramente di ingegneria finanziaria: l’eventuale fallimento del progetto dell’unione monetaria - negli ultimi sessanta anni se ne sono sciolte una dozzina e ne è sorta una sola - darebbe un colpo durissimo all’Ue e riporterebbe il progetto d’integrazione europea indietro di diversi decenni.

Cosa fare? Il settimanale “The Economist” ha delineato, nel fascicolo in edicola il 14 gennaio, un “Piano B”. Altri economisti hanno tratteggiato percorsi per tornare, contendendone costi (e sofferenze), a un sistema europeo “alla Bretton Woods”, con un aggancio a un paniere di monete forti, limitata flessibilità attorno a parità centrali e gestione collegiale dei cambi.

Tacciare di “anti-europeismo” queste proposte e ignorarle, nella speranza che un maggior coordinamento delle politiche economiche dei 17 dell’eurozona risolva i problemi, vuole dire chiudersi gli occhi. Il modo migliore per andare verso il baratro senza volersene accorgere.


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CONTABILITA’ SPECIALI E RESIDUI PASSIVI, IL MISTERO DEI SOLDI NON SPESI, Il Foglio del 26 gennaio

CONTABILITA’ SPECIALI E RESIDUI PASSIVI, IL MISTERO DEI SOLDI NON SPESI
Giuseppe Pennisi
L’Italia spende troppo poco per la cultura o non sa spendere ciò che destina al settore? I raffronti internazionali sono difficili tanto che l’unica pubblicazione statistica del Ministero dei Beni Ambientali e Culturali (MiBAC, per gli amici) evita di farli: i dati Unesco non sono omogenei soprattutto perché in molti Paesi nel comparto viene incluso l’audioivisivo.
I dati MiBAC sono di facile acceso poiché sul sito del Ministero. Da oltre 15 anni , quale che sia la maggioranza parlamentare, il Governo ed il Ministro in carica, il MiBac spende per investimenti (restauri, scavi archeologici, biblioteche ed archivi), molto meno di quanto gli viene conferito dall’arcigno (forse pure incolto?) Ministero dell’Economia e delle Finanze. La situazione divenne particolarmente preoccupante nel 2002-2008 quando il saldo effettivo di cassa (differenza tra stanziamenti e spese) è diminuito progressivamente per assestarsi al 44 per cento della competenza: come se un padre di famiglia faticasse per guadagnare 100 e moglie e figli spendessero 44, lamentandosi perché porta troppo poco a casa. Dove finisce il restare 56 per cento? Una decreto del 1997(con Prodi a Palazzo Chigi) – il n. 67 del 25 marzo- ha portato alla creazione di 324 “contabilità speciali” – un vero e proprio labirinto – con la motivazione che spendere per la cultura comporta tempi lunghi e procedure complesse. Come se, nella famiglia presa ad esempio, i 56 euro finissero in conti “fuori bilancio” per fare fronte ad “impegni” di vari componenti ma non si riuscisse a mettere insieme il pranzo con la cena. Questi “impegni” sono di due tipi: “propri” se basati su contratti e “impropri” se fondati su strette di mano.
La percentuale dei residui effettivi di cassa è diminuita dal 2008 perché il Tesoro ha ridotto gli stanziamenti sulla base di due analisi condotte rispettivamente dalla Presidenza del Consiglio e dalla Ragioneria Generale dello Stato. La stessa Corte dei Conti si è innervosita: perché ci si indebita per annidare fondi in contabilità fuori bilancio? Non se soffre l’erario? La capacità di spesa del MiBac non ha superato i 500 milioni di euro l’anno; dati preliminari per il 2010 mostrerebbero pure una flessione negli ultimi dodici mesi. All’interno del MiBAC , Il Comitato Tecnico-Scientifico per l’Economia della Cultura ha portato la materia, nella primavera del 2009, all’attenzione del Consiglio Superiore con due distinti elaborati : uno sui residui ed uno sui criteri di valutazione degli investimenti. Il 24 maggio 2009, il Consiglio Superiore ha approvato all’unanimità proposte puntuali per accelerare la spesa tramite una “cabina di regia”. Il Ministro ha supportato le proposte ma la “cabina di regia” non è stata mai istituita e nulla si è fatto per ricostituire il nucleo di valutazione sciolto alcuni anni fa. A fine 2010 un’analisi commissionata dal Segretario Generale ad un gruppo di ricerca esterno ha confermato puntualmente gli studi precedenti.
Nodo politico? La normativa affida questi compiti all’alta amministrazione; secondo alcuni giuristi, se il Ministro intervenisse si tratterebbe di “abuso d’ufficio”. In ogni dicastero, in settembre l’alta dirigenza si affretta a riallocare fondi tra chi è in grado di spenderli (e bene) e chi no. Non si sa se e quando la “cabina di regia” ed il nucleo di valutazioni verranno creati. Nel frattempo, la nuova disciplina sul bilancio dello stato (legge del 31 dicembre 2009 n. 196) prevede la sparizione delle “contabilità speciali” e di quanto lì annidato. Si profila l’eutanasia di un dicastero.

lunedì 24 gennaio 2011

un paper la settimana La Gazzetta Finanziaria del 24 gennaio

IL RITORNO DELLO STATALISMO IN EUROPA E ASIA. Vinod K. Aggarwal (Università della California a Berkely) e Simon J. Evenett (Università di St. Gallen in Svizzera) esaminano, nell' Asian Economic Policy Review Vol. 5 N. 2 pp. 221-244, in che modo la crisi finanziaria iniziata nel 2007 sia diventata un grimaldello per il ritorno dello statalismo in materia sia di politica commerciale sia di politica industriale. Che ciò sia avvenuto in Europa è cosa nota anche e soprattutto a ragione di salvataggi che hanno provocato un forte aumento di indebitamento delle pubbliche amministrazioni e di debito pubblico. E' meno noto che il fenomeno riguarda, alla grande, anche l' Asia, dove la crisi ha morso di meno che in Europa o negli Stati Uniti. Il lavoro delinea una mappa del ritorno di politiche industriali all' insegna di sovvenzioni e controllo dello Stato e di misure commerciali discriminatorie in Cina, Giappone e Corea del Sud. E discute l' impatto che ciò avrà, quanto meno, sui negoziati commerciali multilaterali in seno all' Organizzazione mondiale del commercio (Wto). (di Giuseppe Pennisi)

“Les nuits d’été” di Berlioz in una fredda sera d’inverno Il Velino 24 gennaio

CLT - Roma, “Les nuits d’été” di Berlioz in una fredda sera d’inverno
Roma, 24 gen (Il Velino) - Cosa meglio de “Les nuits d’étè” di Hector Berlioz in una fredda sera d’inverno? L’Accademia nazionale di Santa Cecilia ha ben fatto a programmare questa composizione dal 22 al 25 gennaio, di solito giorni tra i più freddi dell’inverno romano. “Les nuits d’étè” sono una partitura anomala che non rientra nei generi musicali canonici, come non vi fanno parte altri lavori di Berlioz, quali “Lèlio”, “Roméo et Juliette” e “La damnation de Faust”. Sono melodie per voce (mezzosoprano) e orchestra. Berlioz ne compose numerose ma “Les nuits d’été” sono le sole concepite come un ciclo coerente e unitario, con una accurata e misurata successione di atmosfere e una delicata alternanza di tempi e modalità. Si basano, soprattutto, su poesie di un unico autore, Théophile Gautier, che ne rende ancora più forte la concezione unitaria. Nate inizialmente per essere accompagnate soltanto dal pianoforte, Berlioz ne ha successivamente composto una versione in cui la voce del mezzosoprano dialoga con un’orchestra di medie dimensioni. “Les nuits d’été” sono una composizione squisitamente francese, ma molto amate dal pubblico romano, tanto che si sono già sentite una quindicina di volte nei concerti dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia.

Questa volta la bacchetta è stata affidata a Carlo Rizzari poiché Kazushi Ono, ammalato, ha cancellato una lunga tournée programmata per queste settimane in varie città. Il mezzosoprano era Sonia Ganassi. Lei e Rizzari hanno correttamente messo l’accento sul clima tra il sensuale e il meditativo che caratterizza le sei poesie di Gautier e che ha comportato, per Berlioz, la necessità di rinunciare ai suoi consueti enormi organici, per far affiancare un corpo di base di archi da un’arpa, due flauti, un oboe, tre clarinetti, due fagotti e due corni. La composizione è breve (altro aspetto che la distingue da gran parte della produzione di Berlioz), ma piena di fascino e il risultato è stato di far palpitare il pubblico.

“Les nuits d’été” erano inserite in un programma che prevede nella prima parte l’esecuzione nei concerti dell’Accademia di un lavoro molto recente del compositore britannico George Benjamin (Dance Figures) e nella seconda la terza sinfonia di Camille Saint-Saëns. Breve (15 minuti in totale) le nove scene coreografiche per orchestra hanno fatto da aperitivo a Berlioz. Grandiosa la sinfonia di Saint-Saëns che richiede un vasto organico orchestrale con l’aggiunta di un organo e due pianoforti. Anch’essa quintessenza francese ma distinta e distante da “Les nuits d’été”.
(Hans Sachs) 24 gen 2011 13:31

domenica 23 gennaio 2011

IL FUTURO DELLA LIRICA? PER GLI USA E’ NELL’OPERA LOW COST , Avvenire 23 gennaio

IL FUTURO DELLA LIRICA? PER GLI USA E’ NELL’OPERA LOW COST
Giuseppe Pennisi
Il Lyric Theater di Baltimora è un teatro all’italiana di fine ottocento con oltre 2500 posti; vi cantò Enrico Caruso ed era la sala preferita da soprani come Rosa Ponselle e da baritoni come James Morris. Sino al marzo 2009 era anche la sede della Baltimore Opera (BO) che produceva quattro nuovi allestimenti l’anno e ospitava compagnie di altri teatri. Aveva un suo corpo stabile di artisti anche grazie al Peabody Conservatori (uno dei migliori degli Usa) localizzato nella città. La BO è stata una delle prime vittime della crisi che ha colpito Baltimora, la cui economia è basata su commercio e finanza. La Baltimore Opera ha dichiarato fallimento. Dal marzo 2009 nel manufatto si mettono in scena spettacoli rock-pop ed anche circensi, pur se una “Traviata” è in cantiere per il novembre 2011 ed un “Faust” per la primavera 2012.
Il baritono trentenne Brendan Cooke, elemento stabile della compagnia, trovatosi senza lavoro, avrebbe potuto cambiare mestiere oppure dedicarsi alla musica leggera. Ma voleva continuare a cantare l’opera. E con lui altri colleghi. I loro risparmi ammontavano ad appena 750 dollari. Sapevano che la Baltimora-che-può (ossia ad alto reddito) sarebbe andata, per la lirica, a New York o a Washington, ma che c’è la domanda insoddisfatta di chi non se lo può permettere. In 12 giorni dalla dichiarazione di fallimento della BO, mettevano in scena, in una sala da ballo (la Garrett-Jacobs Ballroom) con una capacità di 300 posti, una versione da concerto (ma integrale) del Don Giovanni; per fare sapere della rappresentazione utilizzarono i “social network”. La prima esecuzione, che sarebbe dovuta essere anche l’ultima, ebbe un successo tale che si dovettero programmare repliche. Ad una giunse anche il critico del maggior giornale locale, The Baltimore Sun. Recensione senza sconti: ottimi alcuni giovani cantanti, ancora “verdi” altri. Tale però da incoraggiare Brendan e soci: dalla fine del 2010 esiste la Baltimore Concert Opera (BCO), una onlus, con un bilancio di 100.000 dollari (un’inezia rispetto ai 4 milioni di dollari stanziati dal Metropolitan per il nuovo allestimento de “L’Anello del Nibelungo”), che metterà in scena quattro opere nel 2011. Gli abbonamenti volano.
E soprattutto l’esperimento fa proseliti. Visto il successo della BCO, altri artisti lasciati senza lavoro dal fallimento della Baltimore Opera, hanno creato l’American Opera Theater , la Cheasapeake Chamber Opera, Opera Vivente e The Figaro Project. Prima de “La Traviata” in calendario in novembre (se si farà), a Baltimora queste compagnie low cost metteranno in scena 40 rappresentazioni (senza contare quelle dell’affascinante teatrino del Peabody Conservatory). L’esperimento si espande a macchio d’olio: a Boston, accanto alla Boston Opera , funziona la piccola ma agguerritissima – lo dice il nome- “Guerilla Opera”.
Non che si suggerisca di chiudere le fondazioni liriche ed i teatri “di tradizione” ed andare tutti super-low cost. Tuttavia, costi medi (quelli della lirica in Italia) pari a 140% della media dell’Ue a 15 e 210% della media dell’Ue a 27 dovrebbero indurre a riflettere. La “Guerrilla Opera” è in agguato. Con mire espansioniste.

sabato 22 gennaio 2011

MA IL BRASILE NON PUO' INTIMIDIRE L'EUROPA in Ffwebmagazine 22 gennaio

Il presidente della Commissione Ue, Barroso
Caso Battisti: il Parlamento Ue si è espresso. E la Commissione?
Ma il Brasile non può
intimidire l'Europa
di Giuseppe Pennisi
Il Parlamento europeo, con un voto che ha rasentato l’unanimità, ha chiesto al Brasile l’estradizione in Italia del pluriomicida Cesare Battisti. È un primo importante passo verso quella “risposta europea” auspicata dal nostro Ffwebmagazine del 7 gennaio. Il passo è tanto più importante e significativo perché il Parlamento Europeo è istituzione politica e democratica; ha agito, inoltre, in un momento in cui la posizione internazionale dell’Italia è indubbiamente indebolita da quelle che possiamo chiamare il “Rubygate”. Il Parlamento ha, quindi, voluto esprimere come il torto sia stato fatto non solo all’Italia ma all’intera Europa, alla sua tradizione giuridica, ai suoi valori di umanità, pietas ed equità.

La Commissione Europea, organo che dovrebbe essere considerato meramente burocratico e a tal rango dovrebbe essere ridotto, trascina i piedi e sostiene che la questione è puramente bilaterale tra Roma e Brasilia. Non sono un esperto di diritto europeo ma specialisti del campo dovrebbero esaminare se la posizione della Commissione è in linea con i Trattati. Ove non lo fosse il prossimo Consiglio Europeo del 4 febbraio dovrebbe metterla in riga e chiedere che vengano applicate sanzioni comunitarie nei confronti del Brasile, resosi vero e proprio “out-lawed” del diritto internazionale.

L’argomento è che sono troppi gli interessi economici e finanziari che il’Europa ha nel vasto paese sudamericano. Oggi il Brasile è l’ottava maggiore economia del mondo in termini di Pil nominale e la nona in termini di Pil calcolato in termini di parità di potere d’acquisto secondo la metodologia della Banca Mondiale. Il potenziale di crescita del paese è noto da decenni e si fonda su una ricca dotazione di risorse naturali e su una popolazione di circa 200 milioni di abitanti, fortemente integrati pur se provenienti da razze ed etnei differenti. Il portoghese e la religione cattolica sono stati tra gli elementi unificanti. Da circa vent’anni, il tasso di crescita annuo del Pil è stato attorno al 5% l’anno. Si temeva in una contrazione quando un esponente della sinistra , Luis Lula da Silva, è stato eletto presidente nel 2002 (e ri-eletto nel 2008).

L’aumento del Pil non ha subito freni, nonostante una politica economica caratterizzata da un maggior intervento pubblico che nel passato e una più marcata attenzione agli aspetti sociali: dal 2000 a oggi il reddito pro-capite è aumentato circa del 35% (nonostante la crisi economica internazionale, che ha comunque appena sfiorato il Paese). Nel 2002, per fare fronte a difficoltà alla bilancia dei pagamenti (dovute anche a fughe di capitali conseguenti l’avvento del nuovo Governo), il Brasile ha ottenuto dal Fondo monetario un prestito di ben 30 miliardi di dollari da rimborsare entro il 2006; lo ha restituito un anno prima della scadenza.

Un rapido sguardo alla contabilità economica nazionale mostra una nazione fortemente caratterizzata dai servizi e dal manifatturiero; l’agricoltura conto quasi il 6% del Pil. Molto dinamico il commercio con l’estero: i principali prodotti da esportazione sono l’aeronautica, l’impiantistica elettrica, le automobili, i tessili, la siderurgia, il caffè e derivati dall’agricoltura (come la soia, la carne in scatola, i succhi di frutta e, in misura crescente, l’etanolo).

Tuttavia, nonostante l’attenzione alla distribuzione del reddito e alla mobilità sociale particolarmente marcata negli ultimi otto anni, il Brasile ha ancora oggi un tasso d’analfabetismo del 10%, aree (quali in Nord Est) in forte ritardo di sviluppo e periferie delle grandi metropoli dove domina la povertà. Le tensioni stanno crescendo. Le stime per il 2011 parlano di un forte rallentamento della crescita del Pil.

In breve, il Brasile è, indubbiamente, una tigre. Ma una tigre di carta. Che non può e non deve intimidire l’Europa. Se la Commissione si impaurisce, non merita di restare in carica.

22 gennaio 2011

Roma saluta l'America con Uno sguardo dal ponte Milano Finanza 22 gennaio

InScenaRoma saluta l'America con Uno sguardo dal ponte di Giuseppe Pennisi


Con A view from the bridge (Uno sguardo dal ponte) di William Bolcom la «nuova opera americana» sbarca a Roma, dove è in scena fino al 25 gennaio. Negli ultimi 40 anni, la «nuova opera» ha successo perché tratta di argomenti noti (spesso tratti da romanzi o anche da film di cassetta) e una scrittura vocale e orchestrale melodica e orecchiabile.

Molto distante, quindi, dallo sperimentalismo. I teatri sono privati e le sponsorizzazioni agevolate, ma i sovrintendenti devono tener d'occhio il botteghino e gli sponsor guardano con attenzione al gradimento del pubblico. A view from the bridge segue il noto dramma di Arthur Miller. L'opera, andata in scena a Chicago nel 1999 e riproposta in varie produzioni negli Usa, approda ora in Europa. Bolcom coniuga il musical di Broadway con il verismo pucciniano e con un pizzico di Berio. Raffinata l'orchestrazione, dove i leit motiv si intrecciano con il gioco timbrico. La scrittura vocale è imperniata sul declamato: sono notevoli i due «ariosi» affidati rispettivamente al tenore lirico e al baritono, nonché un duetto tra tenore lirico e soprano leggero. Di grande impatto la regia di Frank Galati, molto attento alla recitazione, le scene (a tre livelli) e i costumi di Santo Loquasto, lo scenografo di Woody Allen. David Levi concerta con efficacia. Il cast è interamente americano e tra i protagonisti spiccano Kim Josephson (Eddie Carbone), Amanda Squitieri (Catherine), Amanda Roocroft (Beatrice Carbone), Marlin Miller (Rodolfo) e Mark McCrory (Marco). (riproduzione riservata)

venerdì 21 gennaio 2011

GLI SQUILIBRI DEMOGRAFICI ALLA LUNGA SINONIMI DI GUERRA in Avvenire 21 gennaio

GLI SQUILIBRI DEMOGRAFICI ALLA LUNGA SINONIMI DI GUERRA
Giuseppe Pennisi

Da dove verranno i prossimi conflitti su grande scala? Probabilmente non dal fanatismo islamico o da veri e presunti “scontri di civiltà”. Ma, ancora una volta come nel secolo scorso, dalla demografia. Con caratteristiche, però, molto differenti da quelle di allora. Nel Novecento, l’ipotesi della mancanza di uno “spazio vitale” entro i confini politici dell’epoca, attizzò spinte belliciste in Giappone, Germania ed anche Italia. Oggi la Cina, prima, e l’India, poi, stanno per diventare i focolai delle guerre mondiali prossime future a ragione delle loro politiche demografiche e delle modifiche che esse comportano alla struttura per genere delle loro popolazione. E’ tema che spesso si ignora, quasi da “dialogo proibito”, anche se di recente pure in Italia si è levata qualche voce contro la “stage delle innocenti” (ossia di bambine quasi sul punto di nascere oppure appena partorite Le politiche di controllo delle nascite, le culture tradizionali e la diffusione delle tecniche di selezione pre-natale hanno, in Cina ed in India (una popolazione complessiva di 2,5 miliardi di uomini e donne) un effetto congiunto: la creazione di società in cui per ogni 120-150 giovani maschi in età di prendere moglie non ci sono più di 100 ragazze. In Cina, sin dai tempi di Mao, la politica delle nascite prescrive (con eccezioni per le aree rurali) che una coppia non possa avere più di un figlio: la tradizione dà maggior valore al maschio (a cui è affidata la continuazione della famiglie) che alla femmina (ai cui bisogna dare una costosa dote prima che vada a formare una famiglia altrui). Sino ai due lustri fa, le bambine venivano spesso uccise sul nascere; oggi, dall’ecografia si transita sovente all’aborto sino a quando non giunge il figlio maschio. In India non c’è una politica demografica esplicita tanto rigorosa quanto quella in vigore in Cina; si stanno, però, diffondendo prassi analoghe per contenere la dinamica demografica; la preferenza tradizionale delle famiglie a favore di eredi maschi fa il resto.
Già oggi in Cina sono il numero dei ragazzi ventenni supera del 25% quello delle ragazze; in cifre assolute, siamo ad una differenza di oltre 50 milioni (quasi un’Italia solo di giovanotti con il testosterone ai livelli più elevati e predisposti a mettere su famiglia, ma privi di donne). Non che l’evoluzione non fosse stata anticipata dalla demografia: si stimava però che vi si sarebbe giunti tra un paio di decenni e che (nel frattempo) il progresso tecnico avrebbe permesso di allentare i rigori della regola “un solo figlio per coppia”. La tecnologia ha, invece, progredito in senso opposto: agevolando la selezione pre-natale e la diffusione dell’aborto a scopi di scelta del genere del nascituro. Andrea M. de Boer e Valerie Hudson ne analizzano le implicazioni politiche alcuni anni fa nel libro “Bare branches: the security implications of Asia’s surplus male population”. Non c’è da stare allegri: salvo un ritorno della poliandria (ora in vigore solo in Polinesia, pur se praticata – pare- anche in certi ambienti dell’aristocrazia del Madagascar), società in cui i giovani maschi sono tanto più numerosi delle fanciulle tenderanno a replicare, su scala continentale (e mondiale), il ratto delle Sabine. I giovanotti non avranno altra scelta che andare alla conquista di donne in terre e Paesi altrui per soddisfare i propri istinti di sesso e di paternità. Uno squilibrio tra i generi così marcato – aggiunge Steve Fish dell’Università di Berkeley – non può non creare instabilità pure all’interno dei singoli Paesi: un’analisi comparata mostra una marcata tendenza a dar vita a regimi autoritari ed a discriminazioni (pure violente) nei confronti) delle donne. I conflitti nel Nord Ovest della Cina ai confini con Mongolia e con Siberia avrebbero la caccia alle donne (di popolazioni ancora in gran misura nomadi) tra le loro determinanti Altra conseguenza: il giovane maschio senza donna (e senza prospettive di paternità) è il soggetto che si arruola più facilmente nei gruppi terroristi.
Non c’è una soluzione facile: l’Europa, però, non può nascondersi dietro ad un ditoe fare fina di nulla.

giovedì 20 gennaio 2011

Usa-Cina, Perché Obama e Hu non hanno quasi parlato di dollaro e yuan in Il Velino 20 gennaio

- Usa-Cina, Perché Obama e Hu non hanno quasi parlato di dollaro e yuan

Roma, 20 gen (Il Velino) - Nella recente visita di stato di Hu Jintao a Barack Obama – affermano le corrispondenze da Washington – il nodo del rapporto di cambio tra dollaro Usa e yuan cinese è stato appena sfiorato. Mentre soltanto un anno fa era al centro del dibattito degli incontri sino-americani. Né le corrispondenze né, tanto meno, i comunicati ufficiali spiegano le ragioni con la conseguenza che si tende a congetturare che l’annoso problema dei rapporti monetari tra Usa e Cina sia sulla via della soluzione. Mentre non è così: proprio ieri il decano degli economisti americani (Presidente in passato del Comitato dei Consiglieri Economici della Casa Bianca per circa un decennio), Martin Feldstein, nel NEBR Working Paper No. W16674, sottolinea come gli Stati Uniti abbiano un deficit delle partite correnti di 500 miliardi di dollari (3,5% del pil) e la Cina un attivo di 300 miliardi di dollari (6% del suo pil): “Prima o poi – afferma Feldstein - saranno le forze del mercato a sanare lo squilibrio, ma politiche pubbliche coordinate faciliterebbero il raggiungimento dell’obiettivo”.

Si stanno mettendo in atto, almeno sottotraccia, tali politiche pubbliche? Indubbiamente, lo sta facendo Pechino ma non in coordinamento con Washington. Al contrario, nell’ultimo anno, a fronte della crisi finanziaria, ha introdotto misure restrittive sulle importazioni di prodotti ad alta tecnologia, nonché sussidi per le imprese nazionali. Quindi, l’obiettivo immediato degli Usa è di entrare nel mercato cinese nonostante questi nuovi ostacoli (di dubbia legittimità a norma dei trattati dell’Organizzazione mondiale del commercio). Ciò spiega perché il punto centrale degli incontri Obama-Hu Jintao è stato un accordo commerciale per 45 miliardi di dollari, di cui 20 dedicato all’acquisto di Boeing per le compagnie aeree cinesi. In secondo luogo, però, l’apprezzamento, o la rivalutazione dello yuan potrebbe avere effetti inferiori a quelli ipotizzati.

Uno studio di Willem Thorbecke della George Mason University (uno dei “pensatoi” nei pressi di Washington più ascoltati) – si tratta dell’ADBI working paper N. 202 - sottolinea come il corpo dell’export cinese di manufatti è il risultato dell’assemblaggio di componenti prodotte in Giappone, Corea del Sud ed altri Stati del Sud Est asiatico. Gli esiti complessivi, quindi, potrebbero essere modesti (e penalizzare Giappone, Corea del Sud ed altri alleati fedeli dello Zio Sam). A Washington preme molto di più l’internazionalizzazione dello yuan e la formazione di un mercato dei capitali efficiente in Cina. Lo sottolinea l’economista giapponese Takeshi Jingu in un saggio pubblicato sul Nomura Journals of Capital Markets. E preoccupa notevolmente ciò che sta avvenendo nell’eurozona che un numero crescente di esperti americani vede in via di sfaldamento, ove non di dissoluzione.

mercoledì 19 gennaio 2011

Roma, sbarca l’opera americana con “A view from the bridge” in Il Velino 19 gennaio

Il Velino presenta, in esclusiva per gli abbonati, le notizie via via che vengono inserite.

CLT - Roma, sbarca l’opera americana con “A view from the bridge”


Roma, 19 gen (Il Velino) - La messa in scena, in collaborazione col Lyric Opera di Chicago, di “A view from the bridge” (“Uno sguardo dal ponte”) di William Bolcom è un avvenimento che trascende il fatto di essere la prima europea di un’opera americana di grande successo negli Usa. Da un lato, infatti, riallaccia il Teatro dell’opera di Roma a quella che è stata una sua buona prassi sino alla metà degli anni Sessanta, quando ogni “stagione” - composta di una ventina di titoli - c’era una prima mondiale o almeno italiana, sovente lavori commissionati dall’ente. Da un altro dà spazio alla “nuova opera americana”, distante dall’avanguardia alla Philip Glass o alla John Cage ma fatta per soddisfare le attese del grande pubblico e portarlo in teatro, alla quale tuttavia sinora sembra interessato soltanto il Regio di Torino, che anni fa ha proposto “A streetcar named desire” di André Prévin. Pochi in Italia hanno mai ascoltato, ad esempio, Sophie’s choice” (“La scelta di Sofia”) di Nicholas Maw, “Seven attempted escapes from silence” (“Sette tentativi di fuga dal silenzio”), un libretto di Jonathan Safran Foer messo in musica da sette giovani compositori di Paesi e scuole musicali differenti, “Doctor Atomic” di John Adams e tanti altri titoli che, nati negli Usa, hanno un grande successo in tutto il mondo perché trattano di argomenti noti e hanno una scrittura vocale e orchestrale diatomica, melodica e facilmente orecchiabile. Ho vissuto negli Usa per 15 anni (dal 1967 al 1982) e allora c’erano sì le innovazioni di Ginastera, ma i teatri venivano riempiti dai lavori di Thomas Pasatieri e Dominick Argento, i cui tempi e la cui scrittura erano molto graditi dal pubblico. Considero “The Seagull” del primo e “Passport from Marocco” capolavori assoluti dell’ultimo scorcio del Novecento. Negli Usa (e non solo) i teatri sono privati e le sponsorizzazioni sono agevolate sotto il profilo tributario ma i sovrintendenti devono tener d’occhio il botteghino (e gli stessi sponsor guardano con attenzione l’affluenza e il gradimento del pubblico).

A “View from the Bridge”, in cartellone all’Opera, è il dramma di Arthur Miller musicato da William Bolcom. Il lavoro di Miller, a sua volta, affonda le radici nel teatro greco: una prima edizione era un atto unico in versi, ma il successo internazionale venne assicurato dalla seconda versione in due atti e in prosa in cui gli italo-americani di Brooklyn hanno la funzione del coro e l’avvocato Alfieri quella del corifeo. Già nel 1961-62, proprio all’Opera era stata tenuta a battesimo un’opera di Renzo Rossellini (con regia di suo fratello Roberto) tratta dal lavoro di Miller; l’opera di Rossellini - di impostazione quasi pucciniana - era in lingua italiana ed ebbe un certo successo ma dopo qualche anno sparì dalle sale. L’opera di Bolcom, andata in scena a Chicago nel 1999, dopo varie produzioni negli Usa e un cd di successo, approda nel Vecchio Continente al centro di un interesse internazionale. Bolcom, premio Pulitzer per la musica, percorre l’itinerario musicale che fu di Gershwin e di Bernstein (anche se si avverte anche il segno di Berio), sente l’impegno sociale che lo porta a citare tra le sue fonti di ispirazione “West Side Story”. Bolcom stesso era presente alla prima romana. Presenti anche nomi famosi della prosa e del cinema: da Ilaria Occhini che fu interprete di “Uno sguardo dal ponte” con la regia di Luchino Visconti a Massimo Foschi, interprete teatrale negli anni Cinquanta con Raf Vallone e Alida Valli, da Michele Placido, protagonista di una delle ultime edizioni di successo, a Jean Sorel, che vestiva i panni di Rodolfo nel film di Sidney Lumet nel 1961.

Bolcom traduce in musica il fascino delle atmosfere del dramma americano con uno stile eclettico che coniuga gli stilemi del musical di Broadway e del verismo pucciniano. Bolcom, inoltre, attinge a piene mani alla grande tradizione musicale italiana e propone un dramma di grande attualità: una passione illecita che divora un uomo fino a fargli rinnegare tutto quello in cui ha creduto e a portarlo alla morte e accentua l’idea iniziale di Miller di collegarla alla tragedia greca. Raffinata l’orchestrazione, in cui i leitmotiv si intrecciano con un buon gioco timbrico. La scrittura vocale è imperniata sul declamato, ma non mancano due “ariosi” affidati al tenore lirico e al baritono di agilità e un duetto tra tenero lirico e soprano leggero. Di grande impatto la regia di Frank Galati (molto attento alla recitazione), le scene (a tre livelli) e i costumi di Santo Loquasto (scenografo di Woody Allen) di impronta cinematografica, sono in sintonia con il realismo drammatico dell’opera. David Levi ha concertato con efficacia. Tutto americano il cast e tutte voci di livello: John Del Carlo (Alfieri), Kim Josephson (Eddie Carbone), Dale Travis (Louis), Amanda Squitieri (Catherine), Amanda Roocroft (Beatrice Carbone), Gregory Bonfatti (Tony), Marlin Miller (Rodolfo), Mark McCrory (Marco). Apprezzamento dal pubblico.

(Hans Sachs) 19 gen 2011 13:27

GLI EUROBONDS SONO STRUMENTI DI SVILUPPO in Avvenire 19 gennaio

GLI EUROBONDS SONO STRUMENTI DI SVILUPPO
Giuseppe Pennisi
Dalla riunione dell’Eurogruppo è chiaramente emerso che la Repubblica Federale e l’Olanda nutrono perplessità nei confronti del Fondo “salva Stati” (come viene chiamato colloquialmente il Meccanismo Europeo per la Stabilità Finanziaria, in fase di gestazione- per era esiste solo una ciambella di sicurezza provvisoria utilizzata per dare una mano a Grecia ed Irlanda). In questo contesto pongono anche il freno sugli eurobonds (di cui il Governo italiano è uno dei maggiori promotori) e, di conseguenza, si riapre il dibattito sugli obiettivi e sulle modalità tecniche dello strumento.
Queste emissioni “europee” servono soltanto o principalmente al sollievo del debito “sovrano” di Stati dell’eurozona a rischio di insolvenza? Questo è l’interrogativo che emerge da quanto appare su molti giornali in materia di “eurobonds”- strumenti, tra l’altro, ancora particolarmente complessi perché l’istituto d’emissione è in fase di costruzione. Come illustrato su Avvenire del 7 dicembre, gli “eurobonds” non sono un’idea affatto nuova: le prime proposte risalgono addirittura agli anni 60 ed 80. Stanno debuttando adesso sulla scia della crisi finanziaria, del forte indebitamento di molti Stati dell’eurozona (nell’anno in corso i 17 della moneta unica dovranno emettere obbligazioni per 1.200 miliardi di euro unicamente per rifinanziare i loro debiti in essere) e dell’esigenza, quindi, di impedire insolvenze che potrebbero rendere difficile proseguire nella strada dell’integrazione europea. In effetti, la crisi è stata il grimaldello per fare uscire gli “eurobonds” da una scatola di attrezzi economico-finanziari in cui, in vario modo, erano in gestazione da decenni.
Sarebbe errato ritenere che il loro obiettivo sia unicamente l’ingegneria finanziaria. Da un lato, dall’Himalaya del debito si esce bene soltanto con la crescita della produzione e dell’occupazione e con il miglioramento dei tenori di vita; negli anni 70, si è sperimentato come uscirne con una ventata d’inflazione a due cifre con esiti che nessuno ha intenzione di replicare. Da un altro, nelle versioni precedenti, e nella stessa proposta “Tremonti-Juncker” all’Eurogruppo (ora al centro del dibattito), l’accento non è principalmente sul sollievo dal fardello del debito ma soprattutto sul finanziamento dello sviluppo nell’eurozona: gli “eurobonds” servirebbero sì a tamponare rischi di insolvenza ma soprattutto a fornire quella che in gergo viene chiamata “fresh money” (“denaro fresco”) per lo sviluppo. Gli effetti sul debito e sui pericoli d’insolvenza sono quelli che più attirano i media (più attenti al breve che al medio e lungo periodo). Sarebbe, invece, utile che il dibattito sugli “eurobonds” riguardasse i contenuti del modello di sviluppo dell’eurozona più esplicitamente di quanto non si stia facendo (né nei media né nei “vertici”).

lunedì 17 gennaio 2011

Il futuro dell'euro: per chi suona la campana Ffwebmagazine 17 gennaio

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Un dibattito che dovrebbe vederci partecipare da protagonisti
Il futuro dell'euro:
per chi suona la campana
di Giuseppe Pennisi

Mentre le prime pagine dei “media”, e anche numerose di quelle interne, trattano di veri o presunti festini nelle ville del presidente del Consiglio, il dibattito sul futuro dell’euro, e dello stesso processo d’integrazione europea, pare ristretto a pochi esperti. Dovrebbe, invece, essere il punto centrale di discussione non soltanto di politica economica ma di politica economica e sociale in senso più lato in quanto dal futuro dell’unione monetaria, e quindi del processo d’integrazione europea, dipende il futuro economico e sociale dell’Italia. Oggi, 17 gennaio, si riunisce a Bruxelles, l’Eurogruppo (ossia i 17 Stati che fanno parte dell’eurozona – l’Estonia è entrata nel club il primo gennaio). Domani, sempre a Bruxelles, si svolge la riunione mensile dell’Ecofin, il Consiglio dei Ministri Economici e Finanziari dell’Ue.

Sul tavolo delle due riunioni, ci sono, oltre ai soliti dossier predisposti dalle delegazioni nazionali, almeno tre documenti inquietanti:

Un “briefing” dell’Economist Intelligence Unit riassunto sul settimanale The Economist in edicola il 14 gennaio: il lavoro sottolinea come la crisi del debito sovrano ha causato una divergenza molto marcata tra i tassi d’interesse sui titoli pubblici decennali (al 3% di quelli tedeschi, corrisponde il 4,26% di quelli italiani, ed il 5,% di quelli spagnoli, il 6,8% di quelli portoghesi, l’8,3% di quelli irlandesi e l’11,3% di quelli greci). In effetti dato che i tassi d’interesse rispecchiano il declino nel tempo del valore di una valuta, non solo siamo tornati a una situazione analoga a quella del primo scorcio degli Anni Novanta in termini di differenziali di tassi , mentre allora esistevano più valute in quella che ora è l’area dell’euro ora esistono più euro con valori differenti. Sino a quando può tenere un’unione monetaria a più velocità ed in cui titoli emessi da differenti Tesori hanno valori divergenti?

Il Premio Nobel Paul Krugman ha pubblicato, sempre il 14 gennaio, non un saggio tecnico accademico ma un lungo articolo (ben due pagine del New York Times) in cui documenta come “la ciambella di salvataggio europea” predisposta il 9 maggio e in via di formalizzazione e ampliamento (con l’obiettivo di dare vita a un meccanismo europeo) sia del tutto inadeguata; e tale resterebbe anche se i contribuenti europei fossero disposti (e c’è da dubitare che lo siano) a versare ulteriori risorse nel salvadanaio. Gli stessi “eurobonds” proposti da Tremonti e da Juncker possono essere utili ma non sono la soluzione se il quadro di riferimento (ossia i trattati relativi all’unione monetaria) non cambia

Un lavoro interno della Banque de France ancora inedito: il working paper n. 308 intitolato To Be or Not to Be in a Monetary Union: A Synthesis in cui si compie un’acuta analisi dei costi e dei benefici di un’unione monetaria (ovviamente si tratta di quella europea). La conclusione è che l’unione migliora il benessere, anche a fronte di tassi d’inflazione del 2-3 %, se gli Stati che ne fanno parte riescono a sincronizzare i loro cicli economici. In parole povere, in una situazione come l’attuale - cicli economici chiaramente non sincronizzati e inflazione in rialzo - non è l’ingegneria finanziaria a rinsaldare l’eurozona. L’unione monetaria – ricordiamolo – nasce come proposta della Francia all’unificazione tedesca e al pericolo che la Germania pur di favorire il riassetto e la crescita dei Länder orientali desse meno importanza agli impegni europei, in particolare agli accordi di cambio europei del 1978 e all’accordo del Louvre del 1987. Se anche Parigi dubita, c’è da essere preoccupati.

A fronte di problemi di questa natura, la politica italiana dovrebbe volare: non soltanto sostenere gli “eurobonds” (elemento utile anche se non risolutivo – come riconosce Krugman , economista distinto e distante dalla nostre beghe), ma proporre, da “grande potenza”, un programma articolato d’interventi interni ed europei per fare fronte al “per chi suona la campana”, una vera e propria emergenza.

17 gennaio 2011

venerdì 14 gennaio 2011

Cassandra riporta lustro al Bellini di Catania 15 gennaio

InScena
Cassandra riporta lustro al Bellini di Catania
di Giuseppe Pennisi


Il Teatro Massimo Bellini di Catania ha meritatamente la fama di essere uno dei teatri europei con la migliore acustica. Negli ultimi anni non ha avuto, per una serie di vicende, stagioni lirico-sinfoniche in linea con il suo potenziale. Guidato da una energica sovrintendente e da un brillante direttore artistico, sta cercando di tornare ai fasti del passato.
Il primo segnale è stato dato l'anno scorso, quando è stata messa in scena una straordinaria edizione di Elektra di Richard Strauss. La nuova stagione è cominciata con uno spettacolo che ha attirato critici e suscitato l'interesse di molti teatri: la prima messa in scena in Italia, dopo oltre 60 anni, di Cassandra di Vittorio Gnetti (in scena fino al 19 gennaio). Sul lavoro è caduta una fitta coltre di oblio nonostante il suo debutto a Bologna, nel 1905, fosse stato concertato da Arturo Toscanini e l'opera avesse girato in Italia e anche a Vienna e New York. Ripresa in forma di concerto da Radio France nel 2000 e in versione abbreviata a Berlino nel 2009, Catania presenta l'opera integrale: 100 minuti di musica in un prologo e due atti con un libretto che segue i classici greci. La regia di Gabriele Rech pone il coro su un piano differente da quello dell'azione, che viene portata al tempo attuale come un dramma familiare di tensione ed eros. Buona la concertazione di Donato Renzetti a cui risponde efficacemente l'orchestra del teatro. Si alternano due cast. Cassandra è, come molti lavori di Strauss per la scena, un'opera al femminile: spiccano dunque Giovanna Casolla e Marianna Pentcheva. Di buon livello tutti gli altri. (riproduzione riservata)

L’asta portoghese e i dubbi della Banque de France Il Velino 14 gennaio

POL - Roma, 14 gen (Il Velino) - A Bruxelles e a Francoforte non tutti hanno stappato bottiglie di champagne ai risultati dell’asta di titoli di stato portoghese (andata molto meglio del previsto anche a ragione dei relativamente alti tassi d’interesse offerti). Li hanno stappati, senza dubbio, a Lisbona dove, invece, si temeva che gli esiti mostrassero un Paese considerato dai mercati finanziari sulla soglia dell’insolvenza. E li hanno stappati anche a Roma e a Madrid, dove le aste sono andate ugualmente bene.

A Bruxelles e Francoforte ci si prepara al vertice del 4 febbraio che dovrebbe portare a un rafforzamento della “ciambella di salvataggio” europea nei confronti dell’eurozona e quindi della stessa Unione Europea poiché le sorti della seconda sono strettamente legate a quelle della prima. Il presidente della Commissione Europea prema per un rafforzamento dello strumento. Pare che l’incontro bilaterale Germania-Italia del 12 gennaio sia stato utile ad “addolcire” la posizione tedesca. Il ministro del Bilancio Francese, François Baroin ha, però, appena dichiarato che le risorse attribuite alla “ciambella di salvataggio” sono adeguate. I francesi, vale la pena ricordarlo, sono stati nel 1989 coloro che hanno proposto, per primi, l’unione monetaria e tra i maggiori sostenitori dello strumento per sostenerne la stabilità. Sta mutando la posizione di Parigi? O c’è qualcosa di più profondo.

I commentatori economici non sono buoni segugi e lettori di letteratura economica. A mio parere, ci sono due documenti che possono spiegare molto. Il primo è un lavoro interno della Banque de France in possesso del vostro chroniqueur ma ancora inedito: il working paper n. 308 intitolato "To Be or Not to Be in a Monetary Union: A Synthesis". Il secondo è un vasto saggio su "Sovereign Risk and Secondary Markets" pubblicato nell’ultimo numero dell’"American Economic Review".
Andiamo in primo luogo al lavoro della Banque de France. Ne sono autori Lambert Clerc, Harris Dellas e Olivier Loisel; è frutto, quindi, della collaborazione tra il servizio studi dell’istituto e il mondo accademico. Nello studio si compie un’acuta analisi dei costi e dei benefici di un’unione monetaria (ovviamente si tratta di quella europea): la conclusione è che l’unione migliora il benessere, anche a fronte di tassi d’inflazione del 2-3 per cento l’anno, se gli Stati che ne fanno parte riescono a sincronizzare i loro cicli economici. In parole povere, in una situazione come l’attuale - cicli economici chiaramente non sincronizzati e inflazione in rialzo - non è l’ingegneria finanziaria a rinsaldare l’eurozona.

Andiamo ora al secondo. Ne sono autori Fernando Broner, Alberto Martin e Jaume Ventura. È uno spesso saggio di teoria economica e dimostrazioni econometriche, la cui lettura richiede formazione specialistica (mentre per la lettura del lavoro della Banque de France basta una cultura economica di base); in esso si dimostra che, se i mercati finanziari secondari funzionano bene, le insolvenze di debiti sovrani non creano alcun problema serio. D’altronde la stessa storia economica dimostra che “sovrani” grandi e piccoli hanno spesso ripudiato i loro debiti senza che derivassero grandi problemi.
Cautela, quindi, prima di chiedere ai contribuenti di mettere ulteriori risparmi nel salvadanaio europeo per la stabilità.
(Giuseppe Pennisi) 14 gen 2011 13:02
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lunedì 10 gennaio 2011

Musica, il 2011 sarà l’anno della Lisztomania Il Velino 10 gennaio

Il Velino presenta, in esclusiva per gli abbonati, le notizie via via che vengono inserite.

CLT - Musica, il 2011 sarà l’anno della Lisztomania


Roma, 10 gen (Il Velino) - Vi ricordate “Lisztomania” il bel film del 1975 in cui Ken Russell raccontava la vita di Franz Liszt come quella di una “pop star”? Il 2011 sarà l’anno della Lisztomania perché ricorre il bicentenario della nascita di Franz Liszt (1811-1886). Le iniziative pullulano. Tra le più significative quelle promosse dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in collaborazione con altre istituzioni. In particolare, Michele Campanella dedica interamente la sua attività di pianista e direttore d’orchestra al compositore ungherese da lui studiato e amato fin dall’età di quattordici anni. In programma concerti solistici con assolute rarità per l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a Roma (Sala Sinopoli, 11 marzo e 21 ottobre), al San Carlo di Napoli (7 aprile e in ottobre), a Buenos Aires e Rosario in Argentina (14 e 15 luglio), un concerto di musica corale all’Accademia Musicale Chigiana di Siena (20 aprile), l’inizio di una tournée con l’Orchestra Luigi Cherubini per l’esecuzione, in una sola serata, come solista e direttore, di tutta la musica per pianoforte e orchestra di Liszt che toccherà diverse città italiane fino ad arrivare a Varsavia e Mosca. All’attività di musicista, Campanella affianca quella di scrittore: il 10 marzo lo Spazio Risonanze del Parco della Musica di Roma ospiterà la presentazione del suo libro “Il mio Liszt” (Bompiani): lo studio di una vita e il racconto di una vera comunione artistica e spirituale, l’omaggio personale e sincero a un compositore da sempre amatissimo. E in uscita anche una collana di nove cd di composizioni pianistiche lisztiane per l'etichetta Brilliant Classic.

Fra gli appuntamenti di spicco di questo impegnativo 2011, quello del 30 settembre (replica l’1 e 4 ottobre), in cui Campanella raggiungerà Riccardo Muti a Chicago per il culmine delle celebrazioni lisztiane con l’esecuzione, insieme alla Chicago Symphony Orchestra, del “Primo Concerto per pianoforte e orchestra”: un incontro storico, un concerto che già si preannuncia memorabile. E ancora, torna la maratona lisztiana, organizzata dall'Accademia di Santa Cecilia, ossia “la maggior impresa lisztiana organizzata dall’Italia e una delle maggiori al mondo”: così è stato definito il progetto ideato da Campanella che, dopo la prima giornata del maggio scorso, coinvolge ancora una volta decine di pianisti fra giovani e promettenti interpreti e affermati concertisti, impegnati nell’esecuzione di brani di rarissimo ascolto o in prima esecuzione italiana. Un’impresa gigantesca che ha riservato molte sorprese, nell’arco di due giornate, dalla mattina alla sera, di sabato e domenica scorsi nella Sala Petrassi del Parco della Musica con le parafrasi delle “Nove sinfonie di Beethoven” (8 gennaio) e de "I Romantici: Weber, Schubert, Schumann e Mendelssohn” (9 gennaio). Tra gli artisti impegnati, Roberto Prosseda, Bruno Canino, Antonio Ballista, Maurizio Baglini, Monica Leone, Massimiliano Damerini. “Il carattere della rarità - ha scritto Quirino Principe anticipando i brani in programma nel concerto di Campanella - si sposa alla misteriosa ispirazione che investe le ‘cose ultime’ di un compositore e allo straniamento stilistico di quei lavori”. Il programma ha previsto, infatti, l’esecuzione della Sancta Dorothea R. 73 del 1877, La lugubre gondola II R. 81 del 1882, Nuages gris R. 78 del 1881, l’incantevole e magico En Rêve R. 87 del 1885, scritto da Liszt al limitare dell’esistenza, la demoniaca Bagatelle sans tonalité R. 60c del 1885, un diverso sguardo verso l’aldilà, la rarissima Ave Maria (Die Glocken von Rom) e infine il ciclo celeberrimo del Deuxième Année de Pèlerinage: Italie R 10b, composto tra il 1837 e il 1856.

“Franz Liszt - afferma Michele Campanella - vive ancora oggi della fama di sommo pianista, ma quale compositore di rango assoluto continua a subire un giudizio negativo diffuso da oltre un secolo e basato sulla conoscenza di pochissime sue opere. Il bicentenario della nascita può essere un’ottima occasione per scoprire qualcosa di nuovo del repertorio lisztiano e rimodellare l’immagine del compositore ungherese alla luce di un approfondimento che comprenda le opere spirituali,i Lieder, le parafrasi neglette, tutto quel versante che è in grado di trasformare il suo ritratto di musicista e di uomo. Come in pochi altri casi, questo anniversario può rappresentare una svolta nella ricezione del musicista commemorato. Tutto il progetto Liszt che mi impegna in prima persona come interprete, docente, scrittore e direttore artistico è concepito per questo scopo; sono orgoglioso del coinvolgimento di più di 70 miei colleghi italiani e dell’Orchestra Cherubini, nell’omaggio a un autore amatissimo dalla nuova generazione di pianisti del nostro paese. Ricordandoci l’amore che Liszt portava all’Italia, e alla sua lunghissima residenza romana”.

L’ultimo traguardo musicale di Campanella è l’esecuzione, come direttore d'orchestra e solista, in una sola serata, dei quattro capolavori lisztiani per pianoforte ed orchestra, ossia “Totentanz”, la “Fantasia Ungherese”, il “Primo” e il “Secondo Concerto”, vedendolo impegnato contemporaneamente come direttore e solista e con il fine di valorizzare la profonda coerenza delle partiture lisztiane, spesso trascurate. Questa intensa esperienza musicale si ripeterà grazie alla nuova collaborazione con l’Orchestra Luigi Cherubini, fondata e diretta abitualmente da Riccardo Muti. Proprio con questa famosa formazione orchestrale, Campanella inizierà una tournée italiana e internazionale, con quattro tappe a fine marzo (Piacenza il 25, Cremona il 26, Udine il 27, Parma il 29) poi Varsavia il 31, quindi in giugno Ravenna nell’ambito del celebre Festival, e a seguire in settembre Mosca alla Sala Chajkovskij. Come solista Campanella tornerà all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia l’11 marzo con un terzo e raro programma, replicato poi al Teatro San Carlo di Napoli il 7 aprile e poi nuovamente a Roma con il quarto e ultimo concerto, sempre a Santa Cecilia il 21 ottobre, mentre il 20 aprile sarà a Siena, per la rassegna “Micat In Vertice” organizzata dall’Accademia Musicale Chigiana, con l’Ensemble Vocale di Napoli e un programma dedicato alla musica sacra corale di Liszt. In programma la Via Crucis R. 534 per mezzosoprano, baritono, coro e pianoforte, il rarissimo San Cristoforo, leggenda R. 483 per baritono, coro e pianoforte e Le Crucifix R. 642 per contralto e pianoforte.

(Hans Sachs) 10 gen 2011 10:31





Roma, 10 gen (Il Velino) - Vi ricordate “Lisztomania” il bel film del 1975 in cui Ken Russell raccontava la vita di Franz Liszt come quella di una “pop star”? Il 2011 sarà l’anno della Lisztomania perché ricorre il bicentenario della nascita di Franz Liszt (1811-1886). Le iniziative pullulano. Tra le più significative quelle promosse dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in collaborazione con altre istituzioni. In particolare, Michele Campanella dedica interamente la sua attività di pianista e direttore d’orchestra al compositore ungherese da lui studiato e amato fin dall’età di quattordici anni. In programma concerti solistici con assolute rarità per l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a Roma (Sala Sinopoli, 11 marzo e 21 ottobre), al San Carlo di Napoli (7 aprile e in ottobre), a Buenos Aires e Rosario in Argentina (14 e 15 luglio), un concerto di musica corale all’Accademia Musicale Chigiana di Siena (20 aprile), l’inizio di una tournée con l’Orchestra Luigi Cherubini per l’esecuzione, in una sola serata, come solista e direttore, di tutta la musica per pianoforte e orchestra di Liszt che toccherà diverse città italiane fino ad arrivare a Varsavia e Mosca. All’attività di musicista, Campanella affianca quella di scrittore: il 10 marzo lo Spazio Risonanze del Parco della Musica di Roma ospiterà la presentazione del suo libro “Il mio Liszt” (Bompiani): lo studio di una vita e il racconto di una vera comunione artistica e spirituale, l’omaggio personale e sincero a un compositore da sempre amatissimo. E in uscita anche una collana di nove cd di composizioni pianistiche lisztiane per l'etichetta Brilliant Classic.

Fra gli appuntamenti di spicco di questo impegnativo 2011, quello del 30 settembre (replica l’1 e 4 ottobre), in cui Campanella raggiungerà Riccardo Muti a Chicago per il culmine delle celebrazioni lisztiane con l’esecuzione, insieme alla Chicago Symphony Orchestra, del “Primo Concerto per pianoforte e orchestra”: un incontro storico, un concerto che già si preannuncia memorabile. E ancora, torna la maratona lisztiana, organizzata dall'Accademia di Santa Cecilia, ossia “la maggior impresa lisztiana organizzata dall’Italia e una delle maggiori al mondo”: così è stato definito il progetto ideato da Campanella che, dopo la prima giornata del maggio scorso, coinvolge ancora una volta decine di pianisti fra giovani e promettenti interpreti e affermati concertisti, impegnati nell’esecuzione di brani di rarissimo ascolto o in prima esecuzione italiana. Un’impresa gigantesca che ha riservato molte sorprese, nell’arco di due giornate, dalla mattina alla sera, di sabato e domenica scorsi nella Sala Petrassi del Parco della Musica con le parafrasi delle “Nove sinfonie di Beethoven” (8 gennaio) e de "I Romantici: Weber, Schubert, Schumann e Mendelssohn” (9 gennaio). Tra gli artisti impegnati, Roberto Prosseda, Bruno Canino, Antonio Ballista, Maurizio Baglini, Monica Leone, Massimiliano Damerini. “Il carattere della rarità - ha scritto Quirino Principe anticipando i brani in programma nel concerto di Campanella - si sposa alla misteriosa ispirazione che investe le ‘cose ultime’ di un compositore e allo straniamento stilistico di quei lavori”. Il programma ha previsto, infatti, l’esecuzione della Sancta Dorothea R. 73 del 1877, La lugubre gondola II R. 81 del 1882, Nuages gris R. 78 del 1881, l’incantevole e magico En Rêve R. 87 del 1885, scritto da Liszt al limitare dell’esistenza, la demoniaca Bagatelle sans tonalité R. 60c del 1885, un diverso sguardo verso l’aldilà, la rarissima Ave Maria (Die Glocken von Rom) e infine il ciclo celeberrimo del Deuxième Année de Pèlerinage: Italie R 10b, composto tra il 1837 e il 1856.

“Franz Liszt - afferma Michele Campanella - vive ancora oggi della fama di sommo pianista, ma quale compositore di rango assoluto continua a subire un giudizio negativo diffuso da oltre un secolo e basato sulla conoscenza di pochissime sue opere. Il bicentenario della nascita può essere un’ottima occasione per scoprire qualcosa di nuovo del repertorio lisztiano e rimodellare l’immagine del compositore ungherese alla luce di un approfondimento che comprenda le opere spirituali,i Lieder, le parafrasi neglette, tutto quel versante che è in grado di trasformare il suo ritratto di musicista e di uomo. Come in pochi altri casi, questo anniversario può rappresentare una svolta nella ricezione del musicista commemorato. Tutto il progetto Liszt che mi impegna in prima persona come interprete, docente, scrittore e direttore artistico è concepito per questo scopo; sono orgoglioso del coinvolgimento di più di 70 miei colleghi italiani e dell’Orchestra Cherubini, nell’omaggio a un autore amatissimo dalla nuova generazione di pianisti del nostro paese. Ricordandoci l’amore che Liszt portava all’Italia, e alla sua lunghissima residenza romana”.

L’ultimo traguardo musicale di Campanella è l’esecuzione, come direttore d'orchestra e solista, in una sola serata, dei quattro capolavori lisztiani per pianoforte ed orchestra, ossia “Totentanz”, la “Fantasia Ungherese”, il “Primo” e il “Secondo Concerto”, vedendolo impegnato contemporaneamente come direttore e solista e con il fine di valorizzare la profonda coerenza delle partiture lisztiane, spesso trascurate. Questa intensa esperienza musicale si ripeterà grazie alla nuova collaborazione con l’Orchestra Luigi Cherubini, fondata e diretta abitualmente da Riccardo Muti. Proprio con questa famosa formazione orchestrale, Campanella inizierà una tournée italiana e internazionale, con quattro tappe a fine marzo (Piacenza il 25, Cremona il 26, Udine il 27, Parma il 29) poi Varsavia il 31, quindi in giugno Ravenna nell’ambito del celebre Festival, e a seguire in settembre Mosca alla Sala Chajkovskij. Come solista Campanella tornerà all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia l’11 marzo con un terzo e raro programma, replicato poi al Teatro San Carlo di Napoli il 7 aprile e poi nuovamente a Roma con il quarto e ultimo concerto, sempre a Santa Cecilia il 21 ottobre, mentre il 20 aprile sarà a Siena, per la rassegna “Micat In Vertice” organizzata dall’Accademia Musicale Chigiana, con l’Ensemble Vocale di Napoli e un programma dedicato alla musica sacra corale di Liszt. In programma la Via Crucis R. 534 per mezzosoprano, baritono, coro e pianoforte, il rarissimo San Cristoforo, leggenda R. 483 per baritono, coro e pianoforte e Le Crucifix R. 642 per contralto e pianoforte.

(Hans Sachs) 10 gen 2011 10:31

2011: IL DIFFICILE PERCORSO DEL RIEQUILIBRIO in Formiche Gennaio

2011: IL DIFFICILE PERCORSO DEL RIEQUILIBRIO
Giuseppe Pennisi
Il 2010 appena concluso è stato un anno di crisi convulse nell’area dell’euro e della messa in atto di paratie per scansarle – argini testati, al momento in cui viene scritta questa nota, nei casi della Grecia e dell’Irlanda. Il 2011 appena iniziato si dovrebbe caratterizzare come l’anno in cui l’Europa, presa contezza delle profonde trasformazioni dell’economia internazionale, inizia un lungo e non facile percorso di riequilibrio. Le scelte di politica economica per l’Italia – quali che siano gli scenari politici – sono condizionate da questo percorso, e non possono essere compiute che nel suo alveo.
Il percorso è indicato a tutto tondo in un grafico del Global Outlook , lo studio annuale sull’economia internazionale prodotto dall’Istituto Affari Internazionali (I:A.I), pubblicato a fine 2010 – un lavoro che, per il provincialismo di molta stampa italiana sempre pronta a dare rilievo alla fonti straniere od internazionali, riceve meno attenzione di quel che merita. Il grafico illustra l’evoluzione dei consumi mondiali tra due gruppi di Paesi dal 2007 al 2025 . Il primo comprende Stati Uniti, Giappone, Francia, Italia. Il secondo Cina , India, Russia, Brasile, Messico, Corea del Sud. La Russia – aquila a due facce- appartiene ad ambedue in quanto sia “sviluppata” sia ancora “emergente”. Nel 2007, il primo gruppo rappresentava il 43% dei consumi mondiali ed il secondo il 24%. Nel 2025 – in base alle previsioni economiche I.A.I. (che tengono conto, a loro volta, di quelle di una ventina di modelli)- il secondo gruppo assorbirà il 40% dei consumi mondiali, il secondo il 37%. Nella loro cruda semplicità, queste due cifre fanno toccare con mano il, processo di trasformazione economica in atto. Mentre dall’inizio dell’Ottocento (quando l’economia di sussistenza imperversava in tutto il mondo e la somma del Pil di India e Cina era pari al 45% circa di quello mondiale), le innovazioni tecnologiche (meccanica, elettricità, telefonia) sono state per due secoli monopolio di un ristretto gruppo di Paesi del Nord del Mondo (Europa e Stati Uniti), la nuova ondata di innovazioni legate alla tecnologia dell’informazione e comunicazione ha quasi abbattuto le distanze di tempo e di spazio, spezzando il monopolio della creatività, e dell’innovazione.
Il percorso del riequilibrio è reso più difficile, specialmente per Usa ed Ue, dall’esplosione del debito pubblico innescata o aggravata dalla crisi finanziaria iniziata nel 2007- una pesante ipoteca sulle politiche di crescita differenti da quelle basate su una massiccia liberalizzazione nei servizi (di ardua attuazione a ragione delle ricadute occupazionali , almeno di breve periodo).
Quali le implicazioni dell’Italia? Il Governo ed il Parlamento (quale che siano i loro colori politici) dovranno tener dritta la barra dei conti pubblici: le stime più ottimistiche (dell’Economist Intelligence Unit) pongono al 120% il rapporto tra stock di debito pubblico e Pil, un’Himalaya che non si può scalare facendo leva sulla crescita che nei prossimi anni sarà molto contenuta (attorno all’1% l’anno) in tutti i Paesi dell’area dell’Euro (con l’eccezione della Germania). Inoltre la struttura produttiva del Paese , costituita da piccole e medie imprese specialmente nel manifatturiero, da elemento di forza (come sottolineato dalla Fondazione Edison) durante la crisi potrà verosimilmente diventare elemento di debolezza nell’uscita dalla crisi e nel futuro dell’economia mondiale. La Germania mostra di essere riuscita ad aumentare il grado d’internazionalizzazione (ora doppio di quello dell’Italia mentre era pari al nostro nel 1995-1999) tramite un processo di concentrazioni aziendali in cui servizi e manifatturiero sono stati integrati nella stesse imprese al fine aumentare competitività tramite una più efficace catena del valore.
Gli Anni Novanta - ricordiamolo – sono stati quelli della concentrazione del sistema bancario italiano (composto, all’inizio del periodo, da circa 600 istituti) attorno a cinque – sei poli. La politica pubblica dovrebbe adesso favorirne uno analogo nel manifatturiero e nei servizi.

domenica 9 gennaio 2011

A New and Better World? in Music and Vision 9 December

A New and Better World?
GIUSEPPE PENNISI was at
La Scala Milan for
Wagner's 'Die Walküre'

On 7 December, St Ambrose Day, patron saint of Milan and traditional date to inaugurate the 'season' of the Teatro alla Scala, if you happened to be in Milan city center you would not have sensed the economic crisis. An oversized temporary Tiffany shop under the Christmas tree in the main square, expensive gifts in the windows of the Galleria Vittorio Emanuele, elegant customers going from department store to department store, and pretty Christmas markets in the medieval Piazza della Mercanzia. Inside the theatre, where orchestra and central row boxes seats had been sold for 2,400 euros a piece, gentlemen in dinner jackets and dames adorned with jewels were walking in the foyers. In Milan, el diné ('money' in local slang) does matter; if you have it, you show it off. In each level of the foyer (there are four) a buffet was ready for those who needed a snack during the long performance (Richard Wagner's Die Walküre) -- from 6pm until 11.30pm; prices of the snack were commensurate with those of the tickets. Outside the theatre, on 7 December, riots erupted against luxury at a time of distress and unemployment: two policemen were hurt and had to be hospitalized.
The much awaited performance was videocast live to several countries as well as shown in a large network of movie houses. Thus, this review will be read by many M&V readers who may have already seen and listened to the performance on TV or in a nearby cinema. Ths report is based not on the 7 December 2010 performance, but on a general preview staged on 4 December for youngsters under thirty years of age and some hundred music critics from all over the word. The young audience (at 10 euros a ticket) was enthusiastic; for most of them, it was their first encounter with Wagner.
Die Walküre is the most frequently performed of the four operas of Wagner's Ring. It is well-compacted in three Acts, each one of about eighty minutes; musically, on its own account, each Act is divided into three sections. Thus, it is a rather symmetric opera, still anchored to the German Romantic style -- eg preceding Wagner's music drama of 'total theatre', already theorized by him but actually tried out from Tristan und Isolde onwards. A determinant for the popular success of Die Walküre is that it deals mostly with love intertwined with power politics. Love and power are two staples of music theatre. Each spectator can easily give his own personal meaning to music in the pit and action on stage. It is a complex love story because several facets of love overlap each other: Hunding's sadistic sexual passion for Sieglinde, Siegmund and Sieglinde's total passionate love (honest and pure in spite of the adulterous and incestuous intercourse), a tired marriage relationship between Wotan and Fricka, the motherly love of Sieglende for her yet-to-be-born child (Siegfried) and, especially, Brünnhilde's complex love for her father (Wotan), her half-brother and half-sister (Siegmund and Sieglinde), and her other sisters (the valkyries). Power politics is central to the plot because the King of the Gods (Wotan) would want to betray his own basic laws but he is stopped by his long term (and often misled) wife Fricka from doing it. Thus, Brünnhilde becomes his willing executioner (in breaking the laws); in spite of her own father's wish, she is to be punished.
Die Walküre is one of the most popular Wagner's work also because it is full of action on stage (races, duels, fights, rides) not through the accounts of the protagonists (as, eg, in Siegfried). A single exception is Wotan's fifteen minute monologue in Act II -- a real headache for stage directors.
The production on stage in Milan until 2 January 2011 is a joint-venture with the Berlin Staatsoper Unter Den Linden; the entire project provides for a full staging of The Ring in 2013 -- the bicentenary of the composer's birth -- after having staged one opera per year of the full cycle in the preceding four 'seasons'. This Die Walküre will be in Berlin in the Spring. M&V readers may recall that a review of the Prologue (Das Rheingold) was published on 22 May 2010. Throughout the project, the musical direction is entrusted to Daniel Barenboim and the stage direction to the Belgian Guy Cassiers and his colleagues (Enrico Bagnoli, stage set and lighting, Tim Van Steenbergen, costumes) from the Antwerp experimental theatre company Toneelhuis.

Waltraud Meier as Sieglinde and Simon O'Neill as Siegmund in Act I of 'Die Walküre' at Teatro alla Scala, Milan. Photo © 2010 Brescia/Amisano
As underlined on 22 May in M&V, on Rheingold, Cassiers and his associates appeared to have a rather antiquated view of The Ring; they read it as a struggle of the populace against globalized capitalism. Somewhat similar was Ruth Berghaus' reading in the sixties, when she was the main stage director of East Berlin's major opera house. But Ruth Berghaus had a lighter hand than Cassiers and friends; also, she knew quite well what Wagnerian music theatre is. This 'political' view is now softened to the overall improvement of the production.
Before commenting the stage direction and alike, let us focus on the music. Daniel Barenboim is known for slowing the tempos, especially in the most lyric parts of the opera, and sharpening them when the action gets moving. This is, in my view, a merit especially in the first Act of 'Die Walküre', a true Kammerspiel as Georg Solti underlined in several occasions. Overall, the production lasts nearly two hundred minutes (without accounting for the intermissions) -- as much as Solti's and nearly fifteen minutes longer than Boulez's. But Boulez is a quick runner.

A scene from Act I of 'Die Walküre' at Teatro alla Scala, Milan. Photo © 2010 Brescia/Amisano
We feel the atmosphere from the introduction to the first Act -- Siegmund's run to a shelter (Sieglinde's and Hunding's cabin in the forest). Barenboim shows to the listeners the peculiarity of the first Act: in spite of Wagner's theoretical writings, there is a great deal of music that the composer never, or rarely, make use of subsequently in The Ring; thus there are almost no leitmotives until Siegmund's tonic B Flat motif signaling that a new love (or a new world?) is born. The staging opts for a highly stylized approach: there are no dogs, no Hunding's henchmen running after Siegmund. In his run, the young man is lonesome. The cabin is a rather modern woodhouse where a high tree dominates. The lighting is dark; it remains as such even at the end of the Act where a sunny Spring dawn is in the score. Waltraud Meier (Sieglinde) is very skilled in avoiding acute and any C but she is no longer the Sieglinde she used to be; her timbre has darkened and she does better with the low than with the high tonalities. Simon O'Neill is still a very professional Siegmund vocally, but he no longer looks like a young man (not even made up). John Tomlinson is Hunding; I much prefer to keep a good memory of his long past as a great Wotan. In short, Barenboim and the orchestra -- eg the cello solo at the appearance of Sieglinde -- are not fully matched up by the overall staging (acting is quite good in the love scene and at the end of the Act) and by the uneven singers.

Vitalij Kowaljow as Wotan and Ekaterina Gubanova as Fricka in Act II of 'Die Walküre' at Teatro alla Scala, Milan. Photo © 2010 Brescia/Amisano
In the second Act, we are in the 'heart of things' starting with the masterpiece of leitmotiv manipulation as conducted by Barenboim and played by La Scala orchestra: we hear the Sword and Hunting motive finally flowing into the Valkyries' ride, in one arch. Berenboim slows the tempos so that during Wotan's monologue, the audience can have a summary of what went on in Das Rheingold. Three excellent singers (and magnificent actors) take center stage (but the set is always bleak and gloomy): Vitalij Kowaljow, a young Ukranian bass with a very extended range, as Wotan, an excellent Nina Stimme (Brünnhilde) and a very good Ekaterina Gubanova as Fricka. Barenboim takes a very solemn approach to Wotan's monologue and to the three confrontations (Wotan versus Brünnhilde, Wotan versus Fricka, and again Wotan versus Brünnhilde). Here, the orchestra and the singers deliver an engrossing Todesverkündigung, when Brünnhilde announces to Seigmund that he must die but she is won over by the human plight of the young man and of his sister-bride. Under Barenboim's baton, the somber mood drops like a weight from the music and the lovers' encounter ends in great jubilation, before the double killing drama ending the Act (which lasts ninety-four minutes).

The Ride of the Valkyries - Act III of 'Die Walküre' at Teatro alla Scala, Milan. Photo © 2010 Brescia/Amisano
In the third Act, Barenboim, Stimme, Kowaljov, Meier and the eight valkyries are quite effective musically and vocally, but it is really hard to imagine the young semi-Gods in the black widows' attire of the German upper class at the beginning of the twentieth century; of course, they cannot ride, but they also have a hard time moving on stage. Their mountains and hills are (obviously!) dark, and the magic fire is made up of a few turn-of-century red lamps descending from the higher level of the stage. Barenboim and the singers make up for the stage direction, sets and costumes from the very beginning of the Act (the well known ride) to Sieglinde's exalted rapture, a motif which makes only a few appearances in The Ring but carries the highest significance when it does appear -- it is also the last motif in the final scene of Götterdämmerung: according to some authors, it means transformation, according to others, redemption through love. Meier and Stimme had the perfect emission and volume, and the orchestra stressed the passion, an anticipation of the blessing at the end of the cycle.

Vitalij Kowaljow as Wotan and Nina Stimme as Brünnhilde in Act III of 'Die Walküre' at Teatro alla Scala, Milan. Photo © 2010 Brescia/Amisano
The last scene -- Wotan's farewell to Brünnhilde -- is the moving climax of the opera. Often played as a concert piece, its power defeated even Cassiers and friends' heavy handing. The first duet (Stimme -- Kowaljov) was enrapturing; the big orchestral peroration when Wotan agrees to surround his sleeping daughter with a wall of fire was moving. The tremendous E major chord was highly emotional: the now helpless King of the Gods embraces Brünnhilde before the music dissolves the intense father-daughter relationship into a major fire. The fire music is initially brisk and then becomes increasingly soft. Barenboim excelled in the skillful blend of the sleep music and the fire music into a modulation based on a long slow sweep. On 4 December 2010 the youngsters exploded in a fifteen minute accolade after over five hours in the theatre. On 7 December, the elegant crowd also erupted into a long applause. Clearly, they thought that for 2,400 euros a seat, they had received their money's worth.
On 22 May in M&V, my review stressed how horrible the Rheingold staging by Cassiers and friends was, with the stage crowded by mimes, dancers and doubles of the singers. Luckily, all this useless paraphernalia has been dropped in Die Walküre and, I understand, was conceived only for Das Rheingold, eg the Prologue, but the approach remains more attentive to politics (the struggle for a new and better world) than to the rest.
Copyright © 9 December 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

RICHARD WAGNER
DIE WALKUERE
LA SCALA
MILAN
ITALY
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A Difficult Cocktail in Music and Vision 5 December

A Difficult Cocktail
Rossini's 'Moïse et Pharaon',
assessed by GIUSEPPE PENNISI

Moïse et Pharaon by Gioacchino Rossini inaugurated the 2010-2011 'season' of the Teatro dell'Opera of Rome on 3 December 2010. The inauguration was preceded on 30 November by a special charity performance in the presence of the Head of State, with a parterre des rois -- authorities and prominent personalities from politics, industry, finance as well as from Rome's (no longer very large) surviving aristocracy. I went to the 3 December performance -- a première (opening night) subscription series; again, dinner jackets almost a requirement for the gentlemen and, likewise, long dresses for the ladies. Bouquets of flowers in the six rows of boxes and (Italian) champagne in the foyer before the long performance; 210 minutes of music, eg including entreacts lasting from 7pm until nearly midnight -- made both 30 November and 3 December very special, and very long, nights). On 3 December, a selected crowd also had drinks and hors-d'œuvres during the intermissions and dinner after the performance -- hence the evening was extended nearly until dawn.

A scene from Rossini's 'Moïse et Pharaon' in Rome. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
In the opinion of the management of the Teatro dell'Opera, these inaugural performances ought to be the telling signals of a true turnaround in Rome's main opera house. (There are other opera theatres in town but they're rather small and of limited importance.) The Teatro dell'Opera has been plagued by serious financial problems. Now, in spite of the economic crisis affecting Italy as much as the rest of Europe, things might be looking up: the program for the 'season' is attractive as indicated by a 20% increase in subscriptions and tickets sales as compared with the same period in 2009. Rome's Mayor endeavored to chip in much needed extra financing (but the city has a dire budgetary stringency). Although without any official title, Maestro Riccardo Muti undertook to keep an eye on future developments of the Teatro dell'Opera. This 'season', he will conduct Verdi's Nabucco, in addition to the inaugural Rossini Moïse et Pharaon, as well as a series of concerts -- including two major events: one in the House of Parliament and one in the Vatican, offered by the President of the Republic to the Pope, for the 150th anniversary of the Italian Unification. Muti will also take the orchestra, chorus and singers of the Teatro dell'Opera to St Petersburg to perform Nabucco at the Mariinskij Theatre. Finally, a number of his long term associates -- from the chorus master Roberto Gabbiani to the head of the ballet company Micha von Hoecke -- have joined the ranks of the theatre. Thus, there is a new optimistic mood in the corridors, in the offices, in the halls -- in short everywhere.
Moïse et Pharaon had never been previously performed in Rome in its unabridged French 1827 version. In the Italian capital and in other towns, Mosè in Egitto, composed by Rossini for Naples in 1818, has been staged, but not very often either. For decades the standard fare was Mosè, a peculiar version by Callisto Bassi of Rossini's work where the 1818 Mosè in Egitto is merged with the 1827 Moïse et Pharaon conceived for the Paris Opera, following standards and conventions for the Parisian audience. Mosè was a pale copy of both operas: it did not have either the dramatic strength of Mosè in Egitto or the grandiose, indeed, colossal emphasis of Moïse et Pharaon. Also the 1827 Paris opera was drastically cut (about sixty minutes of music) by Bassi. To have almost rediscovered Moïse et Pharaon is a merit of Riccardo Muti (and of Vladimir Jurowski). Jurowski conducted the unabridged opera at the 1997 Rossini Opera Festival in Pesaro (only four performances) and Muti has performed it at La Scala in 2003 and in Salzburg in 2009 (almost unabridged). To the best of my knowledge, in the previous five decades, Moïse et Pharaon had been staged only in the 1970s in Boston and Philadelphia under Sarah Caldwell's baton and at the Opéra de Paris conducted by Georges Prêtre. The 1975 Paris edition had a stellar cast but only a limited success; the score had been drastically cut, as can be heard in a live recording released in 1983 but no longer available in the regular catalogues.

Eric Cutler as Aménophis in Rossini's 'Moïse et Pharaon' in Rome. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
In all three editions conducted by Muti (Milan, Salzburg, Rome), the opera ends with the rich orchestral description of the Red Sea waters drowning the Egyptians as well as a rhapsody to peace. Muti does not include the final 'cantique' of Moses and the Jews ('Chantons, Bénissons le Seigneur!'). In my opinion, the 'cantique' seals the opera very well. On the other hand, the orchestral description was one of the sources of inspiration for the climax of Wagner's Götterdämmerung -- its ending. Thus, there is a reason for omitting the 'cantique'.
There is a vast literature on the differences, as well as the similarities, between Mosè in Egitto and Moïse et Pharaon. For an English speaking audience, the main reference can be an essay by the late American musicologist M Elisabeth C Bartlet; it is hard to find, but assistance to receive a copy can be obtained by the M Elisabeth C Bartlet Fund. Those who read Italian can find an excellent treatment in the recent book Rossini by Giovanni Carlo Ballola (Bompiani, 2008). Now, Callisto Bassi's Mosè (rather than Rossini's) is generally dismissed, even though it is occasionally performed in some faraway lands -- I am told of a relatively recent staging in Johannesburg. In short, even though many musical numbers are the same, they are two different operas: the 1818 Neapolitan version is short, highly terse and tense, whereas the long 1827 Parisian opera is sumptuous.

The reading of the Book of Exodus during the overture of Rossini's 'Moïse et Pharaon' in Rome. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
The main issue is how to deal dramatically and musically with Moïse et Pharaon. There are three different confrontations closely intertwined: a religious confrontation (between the monotheistic Jews and the polytheistic Egyptians), a power politics confrontation (between Moses and the Pharaoh) and a love-story -- with a confrontation between Moses' niece and the Pharaoh's son. In short, a difficult cocktail to mix.

Ildar Abdrazakov as Moïse in Rossini's 'Moïse et Pharaon' in Rome. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
In 1997 in Pesaro, with stage sets and direction by Graham Vick, Jurowski emphasized the dramatic strengths and pre-Romantic intuitions: the long opera was seen as the journey of the Jews towards freedom. The costumes were those of the 1940s -- a very eloquent indication. In 2003, with stage direction by Luca Ronconi and sets by Carlo Diappi, Muti gave prominence to a neo-classical design where Rossini sounded almost like Cherubini, especially in the choral parts, but with nervous accompaniment of the soloist(s). A more dramatic and grandiose approach was taken by Muti in 2009 in Salzburg, with Jurgen Flimm's timeless staging, albeit with references to Nazism and the Holocaust.

Nicola Alaimo as Pharaon in Rossini's 'Moïse et Pharaon' in Rome. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
In Rome, Pier'Alli stages the complex plot in a single structure with projections and special effects. (The parting of the waters of the Red Sea, the crossing of the Jews and the drowning of the Egyptians at the end of the opera as well as the full bright light after the darkness at the beginning of the second Act were all especially good.) During the overture, traditional Jews are reading the Bible's Book of Exodus. The opera itself develops in a colossal stylized Egypt, halfway between Cecil B De Mille's blockbuster The Ten Commandments and Fritz Lang's Metropolis. An earnest effort is made to keep lighting and projections in line with the music; whilst this objective is met and also the choral scenes are well resolved, the acting should have received more attention when only the principals are on the stage (eg the duet Si je perds celle que j'aime). The third Act ballet was very elegant, but Shen Wey's precious choreography seemed more American-Chinese than Egyptian. The audience seemed particularly to love the special effects of the staging. I found that, although pleasing the audience, once more (like in the Wagner Ring he directed several years ago) Pier'Alli lacked a central concept; he appeared more interested in surprising the audience with technological tricks than in providing a real focus to this complicated opera.

Sonia Ganassi as Sinaïde in Rossini's 'Moïse et Pharaon' in Rome. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
Musically, the key aspect of Moïse et Pharaon is the perfect fusion between personal and collective drama. Rossini had already achieved this perfection in Maometto II -- staged only one night, in 1820, in Naples at the Teatro San Carlo: it was too far ahead of its time, and neither the audience nor the music critics could understand it. As with Maometto II, in Moïse et Pharaon, when the principals with their own dramatic problems of power and love retreat to the background, the people take the foreground and limelight, with the chorus leading the way. The large number of choral interventions, required by the story, take center stage. The balance between soloists, chorus and orchestra is a challenging task of musical direction. Muti handled it extremely well, also because he had at his disposal 'his' chorus director (Roberto Gabbiani) and, by-and-large, 'his' Salzburg cast. The Teatro dell'Opera orchestra also played its part beautifully. After four hours of performance, the audience enthusiastically requested (and obtained) an encore of the large and engrossing prayer scene (O Toi que tout révère) when the chorus and many soloists (all the Jews) cross the Red Sea. Once more, as in Milan and at Salzburg, Muti conducts Rossini with an eye to Cherubini, Spontini and even Berlioz, more than with the foresight of European Romantic music -- not only Italian (Donizetti, Verdi), but also German (Marschner, Weber and even Wagner) and French (Auber, Gounod, Bizet) as Antonio Pappano did in his recent Guillaume Tell performances in Rome [see Music & Vision, 18 October 2010].

Nicola Alaimo as Pharaon in Rossini's 'Moïse et Pharaon' in Rome. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
As mentioned, the vocal cast is mostly the same as at Salzburg. Indeed Moïse is Ildar Abdrazakov, who had the title role both in Milan in 2003 and at Salzburg in 2009. In these seven years he has grown more authoritative both vocally and dramaturgically; his scene and quartet with Nicola Alaimo (Pharaon), Eric Cutler (Aménophis) and Nino Surguladze (Sinaïde) -- Ah! Quel désastre at the beginning of the second Act -- is especially imposing. Nicola Alaimo stands up very well to Ildar Abdrazakov. On 3 December Sinaïde was acted and sung by another Salzburg veteran, Sonia Ganassi. She is a dramatic mezzo, who received real accolades after her aria Ah! D'une tendre mère. The hopeless and helpless lovers were scheduled to be, as in Salzburg, Marina Rebeka and Eric Cutler. Due to a difficult pregnancy, Rebeka had to be replaced by the young Georgian soprano Anna Kasyan as Anaï, a role of limited vocal difficulties until the fourth Act duet (Jour funeste, loi cruelle) and aria (Quelle horrible destinée). The limelight was more on her than on him (a good stern Iowa tenor with more voice than agility). She did quite well and deserved the applause she received; she is still somewhat 'green' but has the potential to grow. Juan-Francisco Gatell and Nino Surguladze were good as Éliézier and Marie.

A scene from Rossini's 'Moïse et Pharaon' in Rome. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
After more than four hours, there were ten minutes of accolades. Then, a lot of after-theatre pouring rain whilst awaiting for a night tube or bus, as there were no taxis in sight. Even some of the audience, then, got wet -- but not from the Red Sea.
Copyright © 5 December 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

GIOACCHINO ROSSINI
TEATRO DELL'OPERA
RICCARDO MUTI
ROME
ITALY
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