- Usa-Cina, Perché Obama e Hu non hanno quasi parlato di dollaro e yuan
Roma, 20 gen (Il Velino) - Nella recente visita di stato di Hu Jintao a Barack Obama – affermano le corrispondenze da Washington – il nodo del rapporto di cambio tra dollaro Usa e yuan cinese è stato appena sfiorato. Mentre soltanto un anno fa era al centro del dibattito degli incontri sino-americani. Né le corrispondenze né, tanto meno, i comunicati ufficiali spiegano le ragioni con la conseguenza che si tende a congetturare che l’annoso problema dei rapporti monetari tra Usa e Cina sia sulla via della soluzione. Mentre non è così: proprio ieri il decano degli economisti americani (Presidente in passato del Comitato dei Consiglieri Economici della Casa Bianca per circa un decennio), Martin Feldstein, nel NEBR Working Paper No. W16674, sottolinea come gli Stati Uniti abbiano un deficit delle partite correnti di 500 miliardi di dollari (3,5% del pil) e la Cina un attivo di 300 miliardi di dollari (6% del suo pil): “Prima o poi – afferma Feldstein - saranno le forze del mercato a sanare lo squilibrio, ma politiche pubbliche coordinate faciliterebbero il raggiungimento dell’obiettivo”.
Si stanno mettendo in atto, almeno sottotraccia, tali politiche pubbliche? Indubbiamente, lo sta facendo Pechino ma non in coordinamento con Washington. Al contrario, nell’ultimo anno, a fronte della crisi finanziaria, ha introdotto misure restrittive sulle importazioni di prodotti ad alta tecnologia, nonché sussidi per le imprese nazionali. Quindi, l’obiettivo immediato degli Usa è di entrare nel mercato cinese nonostante questi nuovi ostacoli (di dubbia legittimità a norma dei trattati dell’Organizzazione mondiale del commercio). Ciò spiega perché il punto centrale degli incontri Obama-Hu Jintao è stato un accordo commerciale per 45 miliardi di dollari, di cui 20 dedicato all’acquisto di Boeing per le compagnie aeree cinesi. In secondo luogo, però, l’apprezzamento, o la rivalutazione dello yuan potrebbe avere effetti inferiori a quelli ipotizzati.
Uno studio di Willem Thorbecke della George Mason University (uno dei “pensatoi” nei pressi di Washington più ascoltati) – si tratta dell’ADBI working paper N. 202 - sottolinea come il corpo dell’export cinese di manufatti è il risultato dell’assemblaggio di componenti prodotte in Giappone, Corea del Sud ed altri Stati del Sud Est asiatico. Gli esiti complessivi, quindi, potrebbero essere modesti (e penalizzare Giappone, Corea del Sud ed altri alleati fedeli dello Zio Sam). A Washington preme molto di più l’internazionalizzazione dello yuan e la formazione di un mercato dei capitali efficiente in Cina. Lo sottolinea l’economista giapponese Takeshi Jingu in un saggio pubblicato sul Nomura Journals of Capital Markets. E preoccupa notevolmente ciò che sta avvenendo nell’eurozona che un numero crescente di esperti americani vede in via di sfaldamento, ove non di dissoluzione.
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