martedì 31 marzo 2009

AL G20 L’ITALIA SARA’ UN PAESE DA CUI ALTRI POSSONO PRENDERE ESEMPIO L'Occidentale 31 marzo

Domani due aprile, si tiene a Londra il secondo appuntamento del G20 dei Capi di Stato e di Governo da quando la crisi finanziaria ed economica internazionale è al centro delle loro preoccupazioni. Da alcuni giorni, gran parte della stampa quotidiana (non solamente le testate a caratura economica e finanziaria) riassumono le bozze dei vari documenti predisposti dai gruppi di lavoro istituiti dalla sessione precedente del consesso – quella tenuta a Washington a metà novembre. Il nostro “orientamento quotidiano” li chioserà quando si saprà quanto i “grandi” avranno recepito dalle proposte presentate (in vario stadio di articolazione) dai gruppi di lavoro.
In questa puntata del “diario”, ci preme mettere l’accento invece su come l’Italia giunge a Londra. E’ importante fare un passo indietro; a quando, nell’autunno 1992 (Governo Amato) e nella primavera 1995 (Governo Dini) i mercati internazionali dimostrarono di non considerare il nostro Paese affidabile; nel 1992 si dovette svalutare ben del 30% , nella primavera del 1995 la lira (da poco svalutata) subì un ulteriore deprezzamento. I due episodi provocarono una serie di riforme di cui la più importante fu quella delle pensioni dell’aprile 1995. Eravamo giudicati come un Paese non in grado di mantenere i propri impegni, con una struttura produttiva familiar-lippuzziana, con servizi finanziari (banche in primo luogo) ancora in via di sviluppo, con una propensione congenita all’inflazione (ed alle svalutazioni competitive per tentare di restare , almeno temporaneamente, a galla con l’export- da sempre elemento trainante). Nel “sottostante” politico, c’erano governi di breve durata, caratterialmente rissosi, strutturalmente instabili in quanto composti da coalizioni spesso raccogliticce, dominati da una miriade di corporazioni in grado di bloccare qualsiasi processo decisionale.
Non che i nodi strutturali dell’Italia siano stati risolti, ma oggi il Paese si presenta al G20 come uno dei pochi che sta meglio resistendo alla crisi e dalla cui politica economica si possono trarre lezioni utili anche per gli altri soci del club. In un’Italia intrisa di quella “malinconia mediterranea” – che Giovanni Spadolini chiavama, più eloquentemente, “piagnistei”, pochi si soffermano su questi punti di forza.
Esaminiamo alcuni dati estrapolandoli sia da uno studio, ancora inedito di Marco Fortis della Fondazione Edison (“The World Financial Crisis and Italy”) sia dalle elaborazione dei 20 principali istituti econometrici internazionali (tutti privati, nessuno italiano) – statistiche, quindi, che non possono essere tacciate di essere “di parte”. Che non si siano risolti tutti i problemi di fondo dell’economia italiana è detto , chiaro e forte, dal “Fragility Index” della Royal Bank of Scotland (un istituto che di fragilità se ne dovrebbe intendere): nell’area dell’euro, il nostro settore dei servizi finanziari è più fragile di quelli di Francia, Germania e Finlandia, ma molto più forte di quelli d’Irlanda, Portogallo, Spagna, Paesi Bassi, Austria, Belgio e Grecia e molto più solido di quelli di Gran Bretagna e Stati Uniti.
Nonostante la relativa fragilità dei servizi finanziari (un freno all’espansione ed all’ammodernamento delle nostre imprese), nel manifatturiero siamo, secondo l’Eurostat, i quarti al mondo (dopo Cina, Germania e Giappone) in termini di export di metalmeccanica, attrezzature per i trasporti, chimica ed altre merci industriali. Restiamo anche a tenere abbastanza bene in campi (tessili, mobili, ecc.) dove la concorrenza da Paesi a bassi salari ed a bassa tutela sociale è molto agguerrita. Ciò ci distingue rispetto a molti Paesi , soprattutto europei (Gran Bretagna innanzitutto) che negli Anni 80 e 90 hanno seguito una strategia di de-industrializzazione a favore dell’espansione dei servizi finanziari e commerciali. In questi mesi, sull’onda della crisi, una squadra di economisti inglesi sta studiando come i nostri “distretti industriali” (un’invenzione di Alfred Marshall, abbandonata nel Paese d’origine) stanno adattando i loro comportamenti alle esigenze derivanti dalla crisi.
Quella che è stata a lungo ritenuta una determinante di debolezza, appare ora come un elemento di forza: abbiamo un’imprenditoria diffusa (515 imprese nel manifatturiero , 270 nell’alberghiero e nella ristorazione) – il doppio, sempre secondo Eurostat, rispetto al n. 2 in Europa (la Francia) , il quadruplo rispetto al Regno Unito. Ciò ci dà una forte dose di flessibilità: ad un impresa che muore sotto i colpi della crisi ne corrisponde un’altra che nasce. Le nostre “piccole” casse di risparmio, banche popolari e banche di credito cooperativo si stanno mostrando particolarmente efficaci nel superare, a livello locale, la “credit crunch”.
Dagli indicatori micro-economici passiamo a quelli macro-economici. La crisi è indubbiamente dura: il “consensus” prevede una contrazione del 2,9% del pil nell’anno in corso (ancora peggiori le stime di Confindustria). Giunge , però, in un Paese maturo, a popolazione anziana che nonostante questi vincoli ha avuto una crescita complessiva del pil del 20% (un quinto) negli ultimi tre lustri, in cui l’83% delle famiglie abitano in una casa di loro proprietà, il cui tasso di risparmio è relativamente elevato (il 16% circa del reddito disponibile, in contrazione rispetto al 20% degli Anni 80, ma tra i più alti al mondo in una società a struttura demografica come la nostra) ed il cui tasso di disoccupazione (pur se ora sfiora il 7% della forza lavoro) è inferiore all’8,2% della media dell’area dell’euro.
Da questi dati, emerge una conclusione: non solo al G20 possiamo parlare a testa alta ma fornire indicazioni sulla base della versione italiana dell’economia sociale di mercato – che ha saputo coniugare flessibilità con attenzione ad esigenze socialmente strategiche. C’è ancora molto da fare. Ed il nostro “orientamento quotidiano” non mancherà di pungolare nella direzione che riteniamo appropriata. A Londra, però, all’”high tea”, abbiamo elementi per farci ascoltare.

lunedì 30 marzo 2009

L’ITALIA AL G20: OPPORTUNITA’ E RISCHI CALCOLATI , FFwebmagazine 30 marzo

La settimana economica e finanziaria che inizia il 30 marzo è caratterizzata dalla riunione dei Capi di Stato e di Governo del G20 (i maggiori Paesi industriali ad economia di mercato e quelli che sino a qualche tempo fa venivano chiamati Paesi “emergenti” e che ora, dato il peso assunto nell’economia e nella politica economica internazionale, sarebbe più opportuno denominare Paesi “emersi”). E’ giudizioso non nutrire troppe aspettative concrete sugli esiti del vertice – non preconizzare, ad esempio, che partorisca un nuovo codice internazionale e nuove procedure di vigilanza sui flussi di capitale. E’ lecito e legittimo, invece, auspicare che dal G20 provengano alcune indicazioni chiare per una strategia concertata di quelle che un tempo venivano chiamate “le grandi Potenze” per affrontare i temi di come uscire dalla crisi e quale saranno le caratteristiche dell’economia e della politica economica mondiale del “dopo-crisi”. E’ anche doveroso attendersi che l’Italia possa fare sentire la propria voce: al seminario internazionale, guidato dal Presidente della Camera Gianfranco Fini, il 25 marzo è stata presentata un’ampia documentazione di statistica economica che dimostra come tra i “grandi” dell’Emisfero Occidentale, l’Italia sia il Paese che, per le sue peculiarità economiche, ha “retto” meglio alla crisi e ne potrà uscire, se non prima degli altri, in condizioni migliori degli altri. Parallelamente, e distintamente, il fascicolo del settimanale “The Economist” (che non ha mai mostrato affinità o simpatia con i Governi italiani di centro-destra), in edicola dal 28 marzo al 3 aprile, riconosce che, sotto il profilo dei più significativi indicatori economici, l’Italia ha superato, ancora una volta, la Gran Bretagna; in aggiunta, economisti britannici di livello stanno studiando il sistema manifatturiero italiano poiché – ricordiamocelo- il Regno Unito è volutamente uscito dalla manifattura negli Anni 80 e 90 per puntare su un settore finanziario ora ridotto quasi a cumulo di macerie.
Per cogliere con mano opportunità per l’Italia occorre esaminare i rischi al tavolo del G20 e come aggirarli. I principali sono i seguenti.
• Il primo è quello del “duopolio” geopolitico e geoeconomico tra Usa e Cina. La prima visita del Segretario di Stato Usa della nuova Amministrazione Obama (Hillary Clinton) è stata a Pechino dove si è recata – ha scritto la stampa tedesca- come una penitente. Ho ottenuto la promessa che il Celeste Impero continuerà a collocare la propria liquidità in buoni del Tesoro Usa (impedendo il tracollo del dollaro) ed ha invogliato l’impegno che in futuro non meglio specificato l’economia mondiale monetaria avrà come sua ancora una “moneta virtuale” (ossia un’espansione del ruolo dei Diritti speciali di prelievo, Dsp, emessi e gestiti dal Fondo monetario). Tale duopolio (ove sorgesse) schiaccerebbe l’Europa e ridurre il ruolo potenziale dell’euro. Bruxelles non pare aver reagito. L’Italia può fare sì che gli altri Paesi dell’Ue e soprattutto quelli della moneta unica sottolineino a Londra come un duopolio del genere sarebbe contrario all’interesse generale. Anche in quanto gli Usa hanno dato prova di essere laschi in materia di regolamentazione e vigilanza finanziaria e la Cina ha molta strada da fare in materia di diritti umani e di assuefazione alle buone prassi di condotta economica internazionale.
• A Londra, l’Amministrazione Obama inviterà l’Europa ad una politica di bilancio e della moneta ancora più espansionista di quella messa in campo. Un documento riservato del Tesoro Usa per il vertice sostiene che Washington ha stanziato circa il 5% del pil in misure dirette a contrastare la crisi e la Cina il 6%, mentre la Germania, la Francia, la Gran Bretagna e l’Italia hanno varato misure aggiuntive anti-crisi pari al 3,5%, all’1,4%, all’1,3% ed allo 0,5% dei rispettivi pil. L’Italia, alla prese con uno stock elevatissimo di debito pubblico e con un’occupazione e produzione che stanno resistendo abbastanza bene, ha titolo per sottolineare come una strategia più espansionista oggi – il bilancio di previsione 2009 Usa prevede un disavanzo pari al 13% circa – significhi la “tassa più iniqua” sui poveri del mondo domani: un’ondata d’inflazione. Gli indici degli alimentari hanno fatto passi indietro negli ultimi mesi, ma la ripresa di un loro balzo è dietro l’angolo. Si legga a riguardo “The Anatomy of a Crisis: the Causes and Consequences of Surging Food Prices” di Shenggen Fan, un economista cinese che lavora a Washington all’International Food Policy Research Institute. Uscito due settimane fà merita di essere studiato dagli sherpas dei “grandi”.
• A Londra, si tenterà di giungere alla definizione di nuove regole per la finanza mondiale. Vi lavora alacremente comitato guidato dal Vice Governatore della Banca centrale dell’India e dal Vice ministro dell’economia del Canada. Il rapporto, di cui ho avuto modo di studiare una delle stesure, da un lato, è troppo timido (“fare sì che le istituzioni finanziarie migliorino le loro prassi di vigilanza prudenziale e di retribuzioni ai manager in linea con obiettivi a lungo termine”), da un lato non tiene adeguatamente conto delle esigenze di Paesi come l’Italia il cui tessuto è costituito da piccole e medie imprese (infatti verrebbero potenziati vincoli come quelli di Basilea II). Altro campo in cui Roma può, e deve, fare sentire la propria voce.
Naturalmente, oltre a questi tre punti ce ne sono molti altri. Li approfondiremo man mano che la cronaca della crisi evolve.

sabato 28 marzo 2009

ECCO PERCHE’ NON CONVIENE L’ACCORDO TRA CINA ED AMERICA Il Tempo del 29 marzo

ECCO PERCHE’ NON CONVIENE L’ACCORDO TRA CINA ED AMERICA

Il G20 (il vertice dei Capi di Stato e di Governo dei Paesi più importanti nella geo-politica mondiale) in programma a Londra il 2 aprile rischia di diventare un G2. Un “vertice” in cui gli Usa di Barack Obama e la Cina di Hu Jintao saranno i protagonisti e definiranno i cardini delle regole di un duopolio mondiale ed in cui gli altri (la Ue in primo luogo) finiranno per essere meri comprimari. Ci sono indizi chiari. La prima visita del neo-Segretario di Stato Hillary Clinton è stata a Pechino per ribadire il legame tra Washington e la capitale della Repubblica Popolare . Le autorità monetarie cinesi pur riaffermando che continueranno ad investire i loro saldi attivi in dollari Usa (ed a impedire, o almeno frenare, il tracollo del valore internazionale della valuta degli Stati Uniti) hanno indicato la possibilità di un percorso “di lungo periodo” verso una moneta mondiale “virtuale” composta di un paniere di monete reali tale da attutire gli effetti delle fluttuazioni sui tassi di cambio.
Non ci inquieta un malcelato orgoglio europeo o la dimostrazione che l’eurocentrismo appartiene ormai ad un passato non più tanto prossimo. Ma il timore che il duopolio Usa-Cina non sia nell’interesse generale dell’economia (e della politica) mondiale e soprattutto non sia in grado di contribuire ad uscire da una fase di crisi come l’attuale. In primo luogo, una delle radici della crisi risiede nel modo in cui il sistema americano dei servizi finanziari (dalle banche alla molteplicità di istituzioni preposte alla loro regolamentazione, vigilanza, valutazione dell’affidabilità) ha svolto i propri compiti. In ciò, gli Usa sono stati agevolati dalla Cina (e dal resto) dell’Asia alla ricerca di rendimenti relativamente elevati per i loro crescenti attivi di bilancia dei pagamenti investiti nel mercato finanziario americano in una valuta (il dollaro Usa) in deprezzamento da anni. Ove ciò non bastasse , il programma di rilancio in corso di attuazione negli Stati Uniti non sfiora i nodi strutturali del basso tasso di risparmio delle famiglie, delle imprese e delle pubbliche amministrazioni e della urgenza di un riassetto della regolamentazione e della vigilanza dei servizi finanziari all’interno degli Usa prima ancora che su base internazionale. La Cina, dal canto suo, ha guadagnato molto dal processo d’integrazione economica internazionale ( che ha consentito a 400 milioni di suoi cittadini di uscire dalla miseria) ma ha dato troppo poco non solamente in materia di diritti umani ma in tema di comportamento responsabile in seno alle istituzioni internazionale oppure nel negoziato commerciale in corso da oltre otto anni in seno all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc). Utilizza il proprio diritto di veto al Consiglio di Sicurezza Onu per bloccare progressi in tutte le aree difficili.
Con tali credenziali, ove Usa e Cina tentassero la carta di un duopolio, gli altri – l’Ue prima di tutto – dovrebbero bloccarla sul nascere.

IL RE NUDO, Musica Aprile

LOMBARDI Il Re Nudo Elio, D. Formaggia, P. Coni, N. Irshewood, A. Panunzio, S. Franceschetto, A. Svab, S. Visentin, S. Testa, M. Calcaterra, M. Boni, A. Trevisan, M. Settimo, Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma direttore Enrique Mazzola, regia Dmitrij Bertman, scene e costumi Lena Lukjanova, movimenti mimici di Edvald Smirnov Libretto di Sandro Cappelletto da una commedia di Evgenij Schwartz.
Roma, Teatro Nazionale 20 marzo 2009

Su commissione della fondazione del Teatro dell’Opera di Roma (in co-produzione con l’Opera di Bremen dove sarà in scena tra qualche mese - ma si parla già di possibili repliche a Bolzano ed a Mosca), il “divertimento in due atti” di Luca Lombardi e Sandro Cappelletto è tratto di un lavoro satirico di Evgenij Schwartz, ispirato a sua volta da tre fiabe di Hans Christian Anderson. Da un lato, prende in giro l’arroganza ceca del potere (e del Palazzo); dall’altro, la stupidità del “popolo bue” che segue potere (e Palazzo) sino a quando l’innocenza di un bambino apre loro gli occhi. I lavori per la scena di Lombardi sono molto rappresentati all’estero, specialmente in Germania. L’intenzione è chiaramente quella di fare uscire l’opera contemporanea dai circoli per pochi “addetti ai lavori” e portarla al grande pubblico senza giungere, da un lato, alla “rock opera-musical” o, dall’altro, a espressioni neo-veriste nazional-popolari tipo “La Zingara Guerriera” di Luigi Nicoli e Paolo Limiti (dopo il debutto al milanese Dal Verme in scena , in aprile, a Novara). Infatti, anche se il libretto è veloce e divertente e la partitura piena di ritmo (ed il personaggio principale tagliato su misura su un cantante di grande notorietà nella musica leggera solo da alcuni anni approdato in quella “colta”, Elio dell’ensemble “Elio e le storie tese”), la scrittura musicale e vocale è diretta ad un pubblico che ben conosce la storia del teatro in musica: densa di citazioni, è colma di ironia nei confronti dell’’”opera seria” (c’è anche un’aria di coloratura), del “belcanto”, del melodramma ottocentesco , del verismo. Ci sono echi dell’operetta viennese (il valzer) e della musica afro-cubana, giungendo pure ad una garbata presa in giro dei Platters. Spigliato e spesso con toni da chansonnier (come “Le Balcon” di Eötvös), la messa in scena viene valorizzata dalla regia , scene , costumi e movimenti mimici della “squadra” (Bertman, Lukjanova, Smirnov) che ha fatto diventare il teatro Helikon di Mosca una delle fucine di innovazione e di idee geniali a basso costo di produzione della scena lirica mondiale. Essenziale e funzionale l’impianto scenico unico (in stile Anni 70) ed i costumi (pure essi in stile Repubblica delle Banane quale nei film di 30 anni fa) . Di gran livello la recitazione. Nel cast spiccano, oltre ad Elio, Sonia Visentin e Danilo Formaggia. Paolo Coni ha un piccolo ruolo da “cammeo”. La “prima mondiale” ha avuto un buon successo. Si vedrà nelle repliche se l’intenzione di fondo viene apprezzata da un pubblico differente da quello degli appassionati di teatro in musica che non mancano una novità .
Giuseppe Pennisi

I TRE PASSI CHE HANNO CAMBIATO L’ECONOMIA ITALIANA , Il Domenicale 28 marzo

Negli ultimi tre lustri, tre passi, strettamente interconnessi, hanno cambiato l’economia italiana: a) l’adesione al gruppo di testa dell’unione monetaria europea; b) la riforma del sistema previdenziale; c) la liberalizzazione “normata” del mercato del lavoro. La decisione di entrare nell’euro ha avuto conseguenze analoghe a quelle dell’ingresso nella Comunità Europea nel lontano 1957. Pur se per l’ingresso nella moneta unica si sarebbe dovuta seguire una strada differente da quella (contrassegnata da aumenti della pressione tributaria) voluta dal centro-sinistra, ha comportato un vasto programma di privatizzazioni e una profonda revisione del sistema previdenziale mirata a renderlo finanziariamente sostenibile e più equo nei confronti delle nuove generazioni. Il riassetto della previdenza nel 1995 non sarebbe stato fattibile se il Governo in carica nel 1994 non ne avesse preparato la strada ponendo le pensioni al centro dell’agenda politica. La liberazione “normata” del mercato del lavoro (che va sotto il nome di “Legge Biagi”) è una conseguenza diretta del processo volto a portare l’Europa in Italia (ossia le prassi migliori del resto dell’Ue nel nostro Paese) dopo essere entrati nell’unione monetaria. L’adesione all’euro è un passo irreversibile; il riassetto della previdenza e del mercato del lavoro sono, e saranno ancora per molti anni, cantieri aperti da sviluppare con l’obiettivo di rendere l’Italia sempre più moderna e sempre più giusta, vigilando nei confronti di marce indietro come quelle tentate ed in parte realizzate durante il Governo Prodi nel 2006-2007.

ELIO E’ RE NUDO PIENO DI VOCE, Milano Finanza 28 marzo

E’ in scena all’Opera di Roma sino al 31 marzo (minacciata dall’eventualità di un commissariamento) un nuovo lavoro di un compositore contemporaneo, molto rappresentato all’estero (Luca Lombardi), specialmente in Germania, Francia e Svizzera, ma raramente presente in Italia. Il “divertimento in due atti” (“”Il Re Nudo”) è una commedia in musica che utilizza sapientemente un cantante di grande notorietà nel “pop” (Elio e le storie tese) , per la cui voce è stato scritto il ruolo del protagonista, ma che guarda al mercato internazionale. Si parla già di riprese a Bolzano, in uno dei circuiti regionali italiani, a Brema ed a Mosca (scene, costumi, luci e movimenti mimici sono della squadra che ha fatto diventare un successo mondiale il Teatro Helikon della capitale russa).
Il libretto di Sandro Cappelletto è tratto da un lavoro di Evgenij Schwartz (vietato per decenni nella Russia sovietica), ispirato a sua volta da tre fiabe di Hans Christian Anderson. Da un lato, prende in giro l’arroganza ceca del potere (e del Palazzo); dall’altro, la stupidità del “popolo bue” che segue potere (e Palazzo) sino a quando l’innocenza di un bambino gli apre gli occhi. La satira è garbata , tutt’altro che corrosiva. La scrittura musicale e vocale è, però, diretta ad un pubblico che ben conosce la storia del teatro in musica per apprezzarne i contenuti: è, infatti, densa di citazioni e colma di ironia nei confronti dell’’”opera seria” (c’è anche un’aria di coloratura), del “belcanto”, del melodramma ottocentesco , del verismo, dell’operetta viennese (il valzer), della musica afro-cubana, e dei Platters. La messa in scena viene valorizzata dalla regia , scene , costumi e movimenti mimici di Dmitrij Bertman, Lena Lukjanova e Edvald Smirnov (per così dire, “The Russian Connection”).. Essenziale e funzionale l’impianto scenico unico (in stile Anni 70) ed i costumi (pure essi, un po’ alla Woody Allen nei film sulla Repubblica delle Banane di 30 anni fa) . Di gran livello la recitazione. Nel cast spiccano, oltre ad Elio, Sonia Visentin e Danilo Formaggia. Il baritono Paolo Coni, un tempo grande protagonista di ruoli per la sua vocalità ha un piccolo ruolo da “cammeo”. La “prima mondiale” ha avuto un buon successo. Vale la pena seguire se il buon esito si ripeterà nelle repliche e nelle riprese dato il ruolo marginale che il teatro in musica italiano contemporaneo pare avere in Italia (dove pur questa forma di spettacolo è nata) e la scarsa propensione di sovrintendenti a tentare titoli nuovi per timore che non attirino il pubblico, mentre il genere fiorisce negli Usa, in Europa centrale e Francia anche grazie a compositori e librettisti accattivanti.

venerdì 27 marzo 2009

FESTIVAL PUCCINIANO: UN’INDAGINE SU MUSICA E MARKETING, Il Velino 27 marzo

Il Festival Pucciniano di Torre del Lago ha condotto una valutazione delle manifestazioni effettuate nel 2008 in occasione dei 150 anni dalla nascita del compositore. E’ un’iniziativa intelligente , e molto più completa di quelle condotte in passato dai Festival di Ravello e di Pesaro, specialmente in fase come l’attuale in cui siamo in restrizioni economiche e finanziarie e si levano voci critiche nei confronti del supporto alla cultura ed allo spettacolo dal vivo. L’indagine condotta nel 2008 da Simulation Intelligence di Milano per la Fondazione Festival Pucciniano di Torre del Lago, non è una analisi dei costi e dei benefici economici della manifestazione in senso stretto; ha analizzato le caratteristiche, le motivazioni di partecipazione, il grado di soddisfazione del pubblico e l’impatto della manifestazione sul territorio. In breve, gli effetti di “marketing territoriale”, un elemento importante per le decisioni di enti locali e sponsor, oltre che del Mibac (il Ministero dei Beni Ambientali e Culturali).

Il ritratto del Festival tracciato dai risultati dell’indagine è quello di un prodotto di eccellenza ben conosciuto ed apprezzato per la proposta artistica e la qualità degli allestimenti: l’84% del pubblico è soddisfatto del Festival e considera la qualità artistica e gli allestimenti uno dei punti di forza della proposta culturale della manifestazione. Molto buono il giudizio sui servizi (personale, biglietteria, informazioni) mentre parcheggi, raggiungibilità del teatro e bookstore rappresentano gli aspetti da migliorare.

L’89% degli abitanti del territorio conosce il Festival ed il 91% lo considera un importante veicolo di promozione per il territorio. “Dati confortanti - dichiara il Presidente Massimiliano Simoni – che ci stimolano a migliorare sempre più l’offerta, ma anche a diversificarla per attrarre nuovo pubblico e soprattutto giovani.”

Chi è il pubblico del Festival? e Qual è l’impatto della manifestazione sul territorio? sono stati i quesiti principali che hanno guidato lo studio attraverso il quale però la Fondazione ha inteso rilevare altri interessanti dati: sulla provenienza, sull’età, sul sesso, sulle modalità di fruizione e l’efficacia dei mezzi di comunicazione attivati per la promozione degli spettacoli. Una indagine che ha analizzato anche le tendenze evolutive dei consumi culturali e della domanda di spettacolo al fine di dare alla Fondazione un quadro conoscitivo della domanda attuale e della sua possibile evoluzione futura per attuare una programmazione in grado di qualificare sempre più l’offerta e soddisfare sempre più i desideri del pubblico. L’impatto della manifestazione sul territorio è stato analizzato attraverso una indagine telefonica, 200 persone di cui 100 residenti a Viareggio: 50 abitanti a Torre del Lago e 50 abitanti a Viareggio e 100 residenti nella provincia di Lucca
l’89 % degli intervistati ha dichiarato di conoscere il Festival Puccini e di questi il 93% di essere in grado di descriverne le sue attività, con una buona conoscenza dei titoli in cartellone per la stagione in corso; il 90% ha risposto di ritenere il Festival Puccini una manifestazione di importante tradizione e da valorizzare perché di forte attrazione turistica.
L’indagine sugli spettatori è stata effettuata attraverso la distribuzione di un questionario in 4 lingue: italiano, francese, inglese e tedesco distribuito nel corso di 4 spettacoli del cartellone 2008 (Tosca, Madama Butterfly, Turandot, Edgar) ed è stato compilato da 924 spettatori di questi l’81% in italiano, il 10% in inglese il 5% in tedesco e il 4% in francese.
Gli spettatori sono più donne che uomini, il 54% ha più di 55 anni, ma ben l’8% ha meno di 24 anni; provengono dalla Toscana e da altre regioni italiane, soprattutto nord est e nord ovest e ben il 21%sono stranieri che preferiscono Tosca a Turandot. Edgar, titolo pucciniano rappresentato a Torre del Lago per la prima volta nel 2008 ha incuriosito soprattutto i toscani e tra gli spettacoli del cartellone 2008 conquista la palma dello spettacolo più gradito, seguito da Turandot.

Il 60 % del pubblico del festival è composto da spettatori fedeli (lo frequentano da più di 10 edizioni) con una elevata percentuale di nuovo pubblico. L’84% degli spettatori intervistati esprime un giudizio positivo sul Festival, un elevato gradimento al cui giudizio concorrono in via prioritaria la qualità artistica e degli allestimenti veri e propri punti di forza del Festival Puccini di Torre del Lago. Il giudizio positivo sulla manifestazione è influenzato anche da altri importanti parametri: la gentilezza e la disponibilità del personale, la promozione e l’accesso alle informazioni e dalla facilità di acquisto e prenotazione biglietti. Il sito web del Festival è considerato uno dei più importanti canali per informarsi ed è utilizzato prevalentemente dal pubblico straniero.
Dall’indagine emergono anche i punti di debolezza, sui quali la Fondazione deve investire per aumentare il grado di soddisfazione del proprio pubblico: i parcheggi e la viabilità sono quelli che maggiormente influenzano negativamente il parametro del gradimento e che determina insoddisfazione sul parametro rapporto qualità/prezzo.

L’indagine non è esaustiva ma rappresenta un buon punto d’inizio a cui altre manifestazioni – nell’estate 2008 c’erano in Italia ben 35 festival di musica lirica- in un momento in cui la competizione per accesso a fondi pubblici e privati è serrata. Ed il “marketing territoriale” è elemento importante di giudizio per enti pubblici ed imprese.

mercoledì 25 marzo 2009

E’ NEL COMMERCIO INTERNAZIONALE IL TERMOMETRO DELLA CRISI, L'Occidentale 26 marzo

La produzione industriale tracolla. Non solo in Italia (circa – 17% in 12 mesi all’ultima conta) e nell’unione monetaria europea (-12%; - 19% nella sola Germania federale e – 24% in Spagna), ma anche in Paesi di nuova e rapida industrializzazione come il Brasile (-15%), la Repubblica di Cina, a Formosa, (-45%), la Tailandia (-22%) o la Turchia (-21%). Sotto il profilo strutturale, ciò vuol dire che , quando si sarà usciti dalla crisi, il mondo sarà differente da quello che era all’inizio del XXI secolo: non solamente una finanza più prudente (e forse meglio vigilata) ma anche una mappa differente della produzione industriale. Ad esempio, i dati di Cina ed India sono in marcata controtendenza rispetto al resto dell’economia internazionale: un aumento della produzione industriale del 4% nella prima e del 6,4%. Le statistiche cinesi sono sempre un po’ sospette (specialmente se espresse “a prezzi costanti”); non così quelle indiane- tradizionalmente di ottima qualità da oltre 40 anni e indicate come modello da Fondo monetario e Banca mondiale. Se i numeri indicano tendenze a lungo termine, si starebbe tornando al 1820 quando, secondo gli studi meticolosi e certosini di Angus Maddison, Cina ed India rappresentavano, insieme, il 43% del valore aggiunto mondiale.
Riservandomi di approfondire gli aspetti strutturali quando il quadro comincerà ad essere più chiaro,.chiediamoci se gli indici sulla produzione industriale, unitamente a quelli sui mercati mobiliari (scesi ai livelli in cui erano una dozzina di anni fa) , suggeriscono che siamo al punto di svolta inferiore oppure che “si comincia a vedere la luce alla fine del tunnel” (come sostiene Nouriel Roubini, generalmente accreditato per avere previsto la crisi alla fine del 2006, mentre un paio di economisti italiani ne avevano già scritto a metà 2006 e , paradossalmente, in un saggio a quattro mani del lontano 1999 due collaboratori de L’Occidentale anticipavano temi (sulla qualità della vigilanza dei servizi finanziari a fronte dell’espansione della finanza strutturata) correnti in questi mesi).
La scuola secondo cui starebbe per iniziare la ripresa (specialmente del mercato mobiliare) sta guadagnando adepti, soprattutto negli Stati Uniti. Il Preside della Stern School of Business della New York University , Thomas Cooley, ad esempio, suggerisce che dato che mediamente le valorizzazioni mobiliari sono crollate del 50 rispetto al punto più alto toccato dagli indici 17 mesi fa, la rimonta dovrebbe essere dietro l’angolo. Lo ripete da mesi Warren Buffett, uno dei finanzieri di maggior successo al mondo; tuttavia, da quando in ottobre ha, per la prima vola, ha invitato a correre a Wall Street a comprare, il Dow Jones ha perso un buon 20%. Meno istintiva l’indicazione di Russel Napier nel libro “Anatomy of the Bear: Lesson from Wall Street’s Four Great Bottoms”. In base ad un’analisi storica, Napier afferma che in passato ci sono stati tre “anticipatore” di rilievo: il prezzo del rame, i valori delle obbligazioni di grandi imprese, il rendimento dei titoli di Stato (ossia del Tesoro Usa) indicizzati. Da tre-quattro mesi , i tre indicatori puntano all’insù. Napier non dice che ciò s’inquadra perfettamente con il tracollo della produzione industriale, in parte determinato dallo smaltimento delle scorte.
Due altri indicatori devono essere tenuti in conto: i prezzi effettivi di vendita delle case ed il mercato dell’auto. I primi non sono scesi in modo uniforme né all’interno degli Stati Uniti né raffrontando le medie Usa con quelle del resto del mondo. Il secondo è giunto nel Nord America a livelli non toccati dal 1981. Secondo un lavoro della Anderson School of Management della Univesity ol California a Los Angeles, gli Usa potranno dirsi fuori dalla crisi quando le giovani coppie americane troveranno case facilmente a prezzi in linea con i loro portafogli e le loro possibilità di contrarre mutui alle condizioni attuali (più prudenti di quelle di solo qualche anno fa) e gli americani riprenderanno le loro storie d’amore con le automobili. Allora gli Stati Uniti riprenderanno a trainare il mondo. E si sarà superata la boa.
Ricordiamoci però del detto di John Kenneth Galbraith, secondo cui in materia di previsioni gli economisti non hanno in generale una reputazione molto migliore di quella degli astrologhi. Le indicazioni sul punto di svolta inferiore e sulla luce alla fine del tunnel, sono, in gran misura, Usa-centriche ove non Wall Street- centriche. I dati sulla produzione industriale in apertura di questa nota suggeriscono invece che è in atto un cambiamento strutturale forse profondo. Vorrei azzardare un’ipotesi: potremo dire che si sta uscendo dalla crisi quando ai tre rispettabilissimi indicatori di Napier si aggiunge l’indice dell’eximport mondiale. Quando il commercio internazionale (oggi in contrazione dopo un decennio di tassi di crescita al 7% l’anno) darà segni di ripresa, potremo dire che il fondo è stato toccato e si sta risalendo. Potremo anche individuare chi siede al posto del conducente.

martedì 24 marzo 2009

PICCOLE E MEDIE IMPRESE: ORA TOCCA PEDALARE FFwegmagazine 24 marzo

Prendendo a prestito un vecchio proverbio milanese, si può dire che ora che il Fondo di garanzia per le PMI è stato dotato di uno stanziamento che gli stessi interessati considerano, alla luce delle difficoltà internazionali e nazionali, adeguato, la bicicletta (ossia il Fondo medesimo) deve essere pedalato nella direzione appropriata.
Quale è tale direzione? In passato, strumenti analoghi sono stati appesantiti dalla molteplicità degli obiettivi e dalla scarsa chiarezza tra le loro priorità. Senza dubbio, pure adesso gli obiettivi del Fondo sono molteplici (occupazione, potenziali situazioni di crisi a livello locale), ma le priorità per i singoli programmi e progetti devono essere poste alla luce di un obiettivo principe: l’export di merci e servizi ad alto contenuto tecnologico – il volano più importante, ove non l’unico, per un Paese, come l’Italia, di medie dimensioni , privo di materie prime e che può e deve contare essenzialmente sulla sua capacità d’innovazione per la propria crescita, il proprio sviluppo ed il miglioramento della distribuzione del reddito. Gli ultimi dati Istat (pubblicati il 19 marzo) dipingono un quadro preoccupante: in gennaio 2009 ( rispetto al gennaio 2008) l’export del Paese è diminuito del 25,8% e l’import del 24,1% . L’aspetto più importante non è il saldo commerciale negativo (sottolineato dai maggiori quotidiani economici) ma il segno che è cominciato un processo di deglobalizzazione , molto minaccioso per l’Italia in generale . L’ultimo rapporto ICE- Prometeia , diffuso a metà febbraio, è chiarissimo: il 2009-2010 saranno anni duri per l’export italiano e lo saranno anche successivi se il “made in Italy” non entra in nuovi mercati e non amplia il proprio spazio in quelli dove è già presente puntando non solo sui comparti tradizionali ma anche e soprattutto su quelli innovativi.

A riguardo è interessante riprendere in mano il “Piano Nazionale per l’Innovazione, la Crescita e l’Occupazione” (il PICO, nel gergo comunitario) presentato dall’Italia alla Commissione nell’ottobre 2005 ed allora poco notato anche in quanto stava iniziando la campagna elettorale. Il PICO (che dovrebbe essere aggiornato al più presto) ha le sue radici sono nella “strategia di Lisbona” (dal nome della città dove nel marzo 2000 venne tenuta una sessione straordinaria del Consiglio Europeo dei Capi e di Governo dell’Ue), mirata a fare diventare entro il 2010 l’Europa l’area più dinamica dell’economia internazionale tramite politiche economiche a medio e lungo termine mirate al capitale umano ed alla trasformazione del tessuto produttivo. In breve la politica di crescita che avrebbe dovuto equilibrare (o meglio ancora controbilanciare) le politiche della moneta e di bilancio iscritte nel Trattato di Maastricht, prima, e nel “patto di stabilità”, poi – ambedue restrittive. Frutto di ampie consultazioni con le autonomie locali e con le categorie, il PICO partiva dalla constatazione (ancora attualissima) che l’Italia presenta una preponderanza di imprese di piccole e medie dimensioni . Una categoria (principalmente a conduzione familiare) è vulnerabile alla competizione di prezzo, specialmente dai Paesi a bassi salari e bassa tutela sociale. Un’altra (il “made in Italy” di alta qualità) è vulnerabile alle contraffazioni. Sono, inoltre, presenti dualismi territoriali e settoriali accentuati. Infine, il Paese è caratterizzato da modi di soddisfazione delle esigenze di solidarietà tali da incidere sui bilanci delle pubbliche e delle imprese , già peraltro gravate da eccessiva regolamentazione.
Il PICO si articolava in due vaste tipologie di strumenti da attivare: provvedimenti a carattere generale i progetti specifici. I primi riguardavano : liberalizzazioni, segnatamente nei settori dei servizi; miglioramento delle prestazioni della pubblica amministrazione; creazione di un contesto normativo favorevole agli investimenti; valorizzazione della piccola e media impresa allo scopo di accrescere l’utilizzazione da parte loro delle tecnologie digitali, piena valorizzazione del capitale umano, creazione o completamento di reti infrastrutturali, un’incisiva attuazione della politica di seconda europea. I secondi concernevono : a) il completamento del progetto Galileo per una rete satellitare europea; b) la partecipazione ai progetti europei Egnos e Sesame per la gestione del traffico aereo; c) la realizzazione di piattaforme informatiche per la tutela della salute, lo sviluppo del turismo, l’infomobilità, la gestione delle banche dati pubbliche e territoriali; d) l’attuazione di 12 programmi strategici di ricerca nei settori della salute, farmaceutico e bio-medicale, dei sistemi di manifattura, della motoristica, della cantieristica navale e aeronautica, della ceramica, delle telecomunicazioni, dell’agroalimentare, dei trasporti e della logistica avanzata, dell’ ICT e componentistica elettronica e della microgenerazione energetica; e) la creazione di 12 laboratori di collaborazione pubblico-privata per lo sviluppo della ricerca nel Mezzogiorno nei settori della diagnostica medica, dell’energia solare, dei sistemi avanzati di produzione, dell’e-business, delle bio-tecnologie, della genomica, dei materiali per usi elettronici, della bioinformatica applicata alla genomica, dei nuovi materiali per la mobilità, dell'efficacia dei farmaci, dell’open source del software, dell’analisi della crosta terrestre; f) lo sviluppo di 24 distretti tecnologici, che estendono l’esperienza dei distretti industriali italiani a settori ad alto contenuto tecnologico e potenziale innovativo; g) l’ampliamento e l’uso razionale delle infrastrutture nel settore energetico e idrico; h) settori di rilevanza strategica aventi ricadute tecnologiche nei processi produttivi e nel benessere dei cittadini e in condizione di garantire una migliore tutela ambientale, con particolare attenzione alle fonti energetiche alternative.
Il PICO non era un Piano “chiuso”. Oltre a considerare ciò che già è stato fatto in attuazione della strategia di Lisbona, il PICO accoglieva provvedimenti e progetti di pronta attuazione, che incidono una tantum sulla spesa pubblica e sono capaci di attrarre risorse private, ma restava “aperto” ad accogliere nuovi contributi provenienti delle capacità progettuali del sistema economico e politico italiano ed europeo, anche perché il meccanismo di nuovi finanziamenti pubblici è basato sul gettito derivante dalla cessione di attività reali di proprietà dello Stato, secondo una logica di gestione patrimoniale (asset management), e trova attuazione nelle scelte che su queste disponiblità verranno effettuate dal CIPE. Il Fondo di garanzia – ma forse pochi ne hanno piena consapevolezza – deve essere visto come uno strumento importante per dare corpo agli obiettivo del PICO (ed uno sprone operativo per aggiornarlo alla situazione internazionale e nazionale attuale).
Tanto più che si pone quasi immediatamente il nodo della gestione del Fondo di garanzia: se estendere la convenzione esistente con il Mediocredito Centrale (che scade in settembre) od avviare una gara tra gestori. Non è uno nodo di facile e pronta soluzione perché ciascuna delle due ipotesi ha vantaggi e svantaggi da ponderare con curare. Sapere con chiarezza come e dove pedalare la bicicletta può essere anche utile a definire tempestivamente questo aspetto.

lunedì 23 marzo 2009

UN MINIFESTIVAL SPONTANEO DI MUSICA CONTEMPORANEA Il Velino 23 marzo

A Roma è in corso in questi un mini-festival spontaneo di musica contemporanea. Metto l’accento sull’aggettivo “spontaneo” in quanto non credo che le varie istituzioni coinvolte si siano coordinate . Dal 20 al 31 marzo è in scena al Teatro Nazionale una nuova commissione della fondazione del Teatro dell’Opera di Roma (su cui incombe la minaccia del commissariamento per ragioni che nessuno comprende) - il “divertimento in due atti” di Luca Lombardi e Sandro Cappelletto “Il Re Nudo” ; all’Auditorium di Via della Conciliazione il 22 ed il 23 marzo, l’Orchestra Sinfonica della Fondazione Roma (Os-Fr) ha riproposto un capolavoro di Gianfrancesco Malipiero (“Pause dal Silenzio”) ; la sera del 23 marzo l’Accademia Filarmonica Romana offre fuori abbonamento nella Chiesa di Santa Maria del Popolo con un appuntamento dedicato alla musica contemporanea internazionale dal titolo “Cries of London”, ciitando così l’omonimo brano di Luciano Berio; il 26 marzo, a conclusione di un convegno internazionale, la musica contemporanea è a casa propria anche nella splendida Fondazione Scelti a Via San Teodoro 8, prospiciente il Foro. In breve un segno importante di vitalità in una città che – pochi lo sanno- nel 2009 offre tanta musica contemporanea quanto Berlino.

Veniamo alle varie proposte, di cui le prime due già assaporate dal vostro “chroniqueur£”. “Il Re Nudo” è tratto di un lavoro satirico di Evgenij Schwartz, ispirato a sua volta da tre fiabe di Hans Christian Anderson. Da un lato, prende in giro l’arroganza ceca del potere (e del Palazzo); dall’altro, la stupidità del “popolo bue” che segue potere (e Palazzo) sino a quando l’innocenza di un bambino apre loro gli occhi. I lavori per la scena di Lombardi sono molto rappresentati all’estero, specialmente in Germania. L’intenzione è chiaramente quella di fare uscire l’opera contemporanea dai circoli per pochi “addetti ai lavori” e portarla al grande pubblico senza giungere, da un lato, alla “rock opera-musical” o, dall’altro, a espressioni neo-veriste nazional-popolari tipo “La Zingara Guerriera” di Luigi Nicoli e Paolo Limiti (dopo il debutto al milanese Dal Verme in scena , in aprile, a Novara). Infatti, anche se il libretto è veloce e divertente e la partitura piena di ritmo (ed il personaggio principale tagliato su misura su un cantante di grande notorietà nella musica leggera solo da alcuni anni approdato in quella “colta”, Elio dell’ensemble “Elio e le storie tese”), la scrittura musicale e vocale è diretta ad un pubblico che ben conosce la storia del teatro in musica: densa di citazioni, è colma di ironia nei confronti dell’’”opera seria” (c’è anche un’aria di coloratura), del “belcanto”, del melodramma ottocentesco , del verismo. Ci sono echi dell’operetta viennese (il valzer) e della musica afro-cubana, giungendo pure ad una garbata presa in giro dei Platters. Spigliato e spesso con toni da chansonnier (come “Le Balcon” di Eötvös), la messa in scena viene valorizzata dalla regia , scene , costumi e movimenti mimici della “squadra” (Bertman, Lukjanova, Smirnov) che ha fatto diventare il teatro Helikon di Mosca una delle fucine di innovazione e di idee geniali a basso costo di produzione della scena lirica mondiale. Essenziale e funzionale l’impianto scenico unico (in stile Anni 70) ed i costumi (pure essi in stile Repubblica delle Banane quale nei film di 30 anni fa) . Di gran livello la recitazione. Nel cast spiccano, oltre ad Elio, Sonia Visentin e Danilo Formaggia. Paolo Coni ha un piccolo ruolo da “cammeo”. La “prima mondiale” ha avuto un buon successo. Si vedrà nelle repliche se l’intenzione di fondo viene apprezzata da un pubblico differente da quello degli appassionati di teatro in musica che non mancano una novità . Si parla di riprese a Bolzano, Brema, Mosca e forse qualche circuito nazionale.
Le due parti di Pause nel Silenzio (rispettivamente del 1918 e del 1927) di Malipiero sono state dirette magistralmente da Francesco La Vecchia alla guida della Os.Fr. Si tratta di composizioni sintetiche ma piene di pathos; espressioni sinfoniche – legate la prima alle sensazioni causate dalla grande guerra a l’allora giovane autor e la seconda all’intenzione di presentare la grande musica italiana contemporanea al pubblico internazionale (la prima esecuzione avvenne a Philadelphia) . E’ triste notare come in Italia su Malipiero si sia gettata una coltre di oblio (con l’accusa di essere apprezzato da Benito Mussolini e quindi fascista). Una delle sue opere più divertenti (“I Capricci di Callot” del 1940-41) è in repertorio e ne esiste un’ottima edizione discografica:”Il Re Nudo” ha più di un punto in contatto con questo splendido lavoro di 70 anni fa. Il pubblico ha accolto molto bene Pause nel Silenzio che diventerà un cd . Auguriamoci che la stessa sorte abbiamo Le Sette Canzoni: si può contare quasi esclusivamente su La Vecchia e sulla Os.Fr per farci godere di questo repertorio italiano volutamente obliato.
Il concerto del 23 è, ad ingresso libero. Viene realizzato in collaborazione con l’Accademia di Danimarca e la rassegna di Musica Contemporanea di ROMA MUSICA NUOVA nell’ambito del Progetto Calliope della Fondazione Musica per Roma. Si svolge in occasione del Symposium “Classical music and Modern classical music in Globalization and Consumer-Society” che si svolgerà in quei giorni a Roma presso l’istituto danese. Il concerto presenta brani di rara esecuzione nella scena musicale italiana. La prima parte comprende tre brani di argomento sacro. Sarah was ninety years old, composto da Arvo Pärt nel 1977 e da lui stesso revisionato nel 1990 si basa sulle parti 1617,18 e 21 della Genesi ed ha una struttura in 7 parti per un organico veramente insolito (soprano, 2 tenori, organo e percussioni) utilizzato sempre a gruppi separati (percussione sola, 2 tenori, soprano e organo) seguendo una scansione di un vero e proprio rituale sonoro. I due brani di Josquin des Prés che seguono, Domine, exaudi ora-tionem meam (prima parte) ed il Kyrie dalla Missa de Beata Virgine, sono stati inseriti, oltre che per il loro fascino contrappuntistico, per la funzione di preghiera assembleare che esprimono di contrasto all’asciuttezza mistica del precedente brano di Arvo Pärt.
Nella seconda parte, due composizioni profane straordinariamente ricche di un profondo senso della drammaturgia musicale. Il Cyprianus di Bent Sørensen del 1982 che racchiude, nell’uso molto originale della vocalità, tutto il senso di mistero e di evocazione del testo (una raccolta di sortilegi dei primi del ‘600 molto conosciuto nella tradizione popolare nordeuropea). Una novità ed un’occasione per far conoscere al pubblico italiano uno dei più originali compositori europei diventato ormai da molti anni uno degli autori di spicco pubblicati dall’etichetta ECM. Cries of London di Luciano Berio, del 1976,dà il titolo alla serata ed è, insieme ad Aronne, uno dei suoi lavori più rappresentativi per ensemble vocale resi famosi dalle interpretazioni che ne fecero gli Swingle Singers. I testi dei 7 brani sono un raccolta di “grida” molto popolari dei venditori di un mercato della vecchia Londra. Corriamo a Santa Maria del Popolo.

domenica 22 marzo 2009

IL LAZIO E L’EXPORT, SCOMMESSA VINCENTE, Il Tempo del 23 Marzo

IL LAZIO E L’EXPORT, SCOMMESSA VINCENTE

Si può evitare al Lazio il tracollo dell’export che, secondo i dati pubblicati dall’Istat il 19 marzo, sta interessando tutta la Penisola? Probabilmente sì. Se sapremo “fare sistema” ed utilizzare bene gli strumenti esistenti, inclusi quelli appena creati.
In primo luogo, ci vorranno alcune settimane prima che l’Istat pubblichi i dati disaggregati per regione (oltre che per ramo merceologico). Tuttavia, il quadro generale non è positivo: in gennaio 2009 ( rispetto al gennaio 2008) l’export del Paese è diminuito del 25,8% e l’import del 24,1% : l’aspetto più importante non è il saldo commerciale negativo (sottolineato dai maggiori quotidiani economici) ma il segno che è cominciato un processo di deglobalizzazione , molto minaccioso per l’Italia in generale e per il Lazio in particolare – in quanto, come documentato da Il Tempo più volte nei mesi scorsi, l’export è stato il volano della crescita della regione negli ultimi cinque anni. Le statistiche disaggregate dell’ultimo trimestre 2008 (le più recenti disponibili) dimostrano che le esportazioni (ancora più dello “zoccolo duro” di pubblico impiego) sono state la paratia che ha protetto la regione anche nella prima fase della crisi finanziaria ed economica internazionale. Nonostante un arretramento dell’export su base nazionale, il Lazio è una delle poche regioni che ha segnato un incremento delle proprie esportazioni (3,1%) negli ultimi tre mesi dell’anno scorso – il più alto dopo il 6,5% riportato dalla Liguria (anche se più che dimezzato rispetto al 7,7% registrato nell’ultimo trimestre del 2007. A livello provinciale , molto bene l’andamento dell’export di Roma e Latina. Preoccupante quello di Rieti e, soprattutto, la retromarcia del chimico-farmaceutico che negli ultimi anni è stato uno dei motori dell’esportazioni della regione. Inquietanti, poi, le stime del modello econometrico di Prometeia secondo cui nell’anno in corso le esportazione dal Lazio riporterebbero una contrazione dello 6,8% superiore a quella stimata a livello nazionale a prezzi costanti (-0,1%), che preconizza una forte ripresa dal secondo trimestre.
Cosa è auspicabile e fattibile in tale contesto? In primo luogo, tutti i soggetti interessati devono fare il possibile per facilitare il credito all’export: Il Tempo ha sottolineato come si tratti della tipologia di credito che presenta meno rischi, gli istituti non mancano di liquidità ed esistono forme di assicurazione con una rete di sicurezza pubblica. In secondo luogo, occorre orientare verso le imprese esportatrici (specialmente le medie imprese) il Fondo di garanzia per le Pmi di cui è stata recentemente aumentata la dotazione. Questi strumenti, se ben utilizzati, possono essere risolutivi. Quando meno ad impedire che il Lazio soffra troppo dalla crisi mondiale.

sabato 21 marzo 2009

DA’ PENSIERO LA SUA POLITICA ECONOMICA. ANCHE AGLI AMERICAN Il Domenicale 23 marzo

DA’ PENSIERO LA SUA POLITICA ECONOMICA. ANCHE AGLI AMERICANI

Robert Kuttner è un saggista americano di successo ed un sostenitore convinto dell’attuale Amministrazione Usa; uno dei suoi ultimi libri chiama quella di Barack Obama “the Transformative Presidency” – ossia la Presidenza che ha il compito, e le potenzialità, di trasformare gli Stati Uniti – ed il resto del mondo. Kuttmer afferma, non senza una punta di verità, che l’attuale crisi non deve essere assimilata alla “Grande Depressione”; è qualcosa di più e di differente da denominare “Il Grande Crollo”. Occorre chiedersi se, dato che, prima di darsi alla saggistica, è stato, per vent’anni, redattore di Business Week ha esaminato come la Borsa ha accolto i primi passi della Presidenza Obama. Barack avrebbe voluto ispirarsi a Roosevelt. Nei primi 54 giorni dell’Amministrazione che fece uscire gli Usa dalla Depressione degli Anni Trenta, il Dow Jones ha segnato un aumento del 35%. Nello stesso periodo della Presidenza Obama ha, invece, segnato un’ulteriore riduzione del 16% rispetto ai livelli tombali che aveva quando Barack e famiglia sono diventati i nuovi inquilini della Casa Bianca.
Potrebbe essere considerato quasi fisiologico che non piaccia alla Borsa un Presidente la cui campagna elettorale è stata molto ideologicamente improntata a sinistra (anche se, una volta vinte le presidenziali, ha scelto i propri collaboratori principalmente tra personalità considerata di centro). Tuttavia, non è solamente il mercato mobiliare a preoccupare gli americani ma anche e soprattutto l’aumento della disoccupazione (attorno all’8% della forza lavoro in febbraio e probabilmente oltre il 10% prima della fine dell’anno). E, con il tasso di disoccupazione in espansione a macchia d’olio, le notizie sempre più inquietanti sull’andamento del settore dei servizi finanziari (banche, assicurazioni), della metalmeccanica ed anche dell’elettronica e dell’informatica.
Ciò che più da pensiero è la mancanza di una chiara politica economica. Sino ad ora le uniche misure adottate riguardano l’espansione della liquidità (che, però, dalle banche non arriva alle famiglie ed alle imprese) e del disavanzo dei conti federali (dal 3-4% del pil negli ultimi anni ad oltre il 12% nel bilancio di previsione per l’anno in corso). In aggiunta, nelle riunioni internazionali le delegazioni Usa insistono perché anche l’Europa mandi a briglia sciolta l’offerta di moneta ed il deficit pubblico. In un mondo che ristagna, e verosimilmente, si sta contraendo, una politica espansionista sembra sensata (pur se ha il germe di un’ondata inflazionistica). Tuttavia, non basta pompare moneta e aumentare il disavanzo tra uscite ed entrate. L’infusione di liquidità ed il deficit dei conti pubblici devono servire ad alimentare investimenti e consumi. Non solamente gli intermediari finanziari non allentano i loro crediti, ma il 90% della manovra di 787 miliardi di dollari appena varata – ne sarebbe in preparazione un’altra aggiuntiva di 750 miliardi di dollari – è diretto al sociale con finalità indubbiamente nobili di fornire ammortizzatori ma non tali da incidere , almeno nel breve periodo, sulla crescita. In una situazione, poi, di forte squilibrio strutturale dei conti con l’estero degli Usa una strategia di questa natura rischia di aggravare lo sorti dei vicini (specialmente degli europei) con un ulteriore deprezzamento del dollaro Usa e con un futura ventata d’inflazione preveniente da oltre-atlantico, senza tirare gli americani fuori dal “Grande Crollo”.

IFIGENIA, CHE COLPI’ MARIA ANTONIETTA, A ROMA CON MUTI. Il Domenicale del 21 marzo

Dopo avere assistito alla “prima” di “Iphigénie en Aulide” di Christoph Willibad Gluck (suo maestro di canto a Vienna) il 19 aprile 1774 all’Académie Royale de Musique, Maria Antonietta, Delfina di Francia, scrisse una lettera entusiasta alla sorella Maria Cristina Joseph:”Ne fui rapita ed ormai non si parla d’altro…..tutte le teste sono in ebollizione.a Corte vi sono parteggiamenti , in città la diatriba sembra ancora maggiore”. La futura Regina di Francia (che quasi venti anni dopo, sarebbe ascesa al patibolo) non si rese conto quanto “rivoluzionario” fosse il contenuto del lavoro dell’allora sessantenne compositore: prendeva nettamente le distanze sia dall’opera italiana (che a Parigi aveva un partito guidato da J-J- Rousseau) sia dalla “tragédie-opéra” francese (di cui il maggior esponente era l’ottantenne J-Ph. Rameau): era una “tragédie mise en musique”, tratta da Racine, in cui una struttura drammatica e musicale tersa non lasciavano spazio ad inutili abbellimenti (fioriture canore, balletti) per andare all’essenziale scavando nella psicologia dei personaggi, così come nella tragedia greca (d’Euripide) a cui si ispira. La musica non era un contrappunto della voce; parole ed orchestra si integravano in un sinfonismo continuo. Lo comprese bene, qualche decennio più tardi, il più rivoluzionario (anche politicamente) dei compositori dell’Ottocento, Richard Wagner, il quale, giovane direttore musicale dell’opera di Dresda, riprese in mano la partitura e soprattutto sostituì il “lieto fine” , obbligatorio nella Francia pre-rivoluzionaria, con un finale ambiguo che avrebbe fatto da ponte con l’ancora più “rivoluzionaria” “Iphigénie en Tuaride” (sempre ispirata ad Euripide) che Gluck avrebbe messo in scena nel maggio 1779, mentre si udivano i primi rulli di tamburo.
“Iphigénie en Aulide” è al Teatro dell’Opera di Roma dal 17 al 29 marzo in un nuovo allestimento (regia,scene e costumi di Yannis Kokkos) che riprende molti dei concetti di quello visto alla Scala il 7 dicembre 2002 (le cui scene, però, sono state distrutte). Riccardo Muti dirige un cast giovane ed in gran misura sconosciuto in Italia. L’edizione è quella con il finale modificato da Wagner, più coerente con lo spirito complessivo del lavoro di numerose versioni discografiche in concerto. Le rappresentazioni romane di “Iphigénie” avvengono in una fase difficile per il teatro della capitale: dopo una rigorosa e severa opera di risanamento e circa dieci anni di consuntivi in pareggio od in leggero attivo, nel 2008 ha segnato un disavanzo di circa 4 milioni di euro e se ne prospetta uno di 8 per il 2009- ambedue speculari ai tagli del Fondo unico per lo spettacolo (Fus) – tagli che non sarebbero stati necessario se il vertice amministrativo del dicastero avesse operato una tempestiva riallocazione da aree dove da 15 anni si accumulano residui al Fus. Si prospetta un cambiamento di gestione. L’orchestra ha richiesto a gran voce (pure con un concerto a Piazza Venezia) che Muti diventi il direttore musicale di un teatro che, secondo la stampa internazionale, presenta quest’anno la programmazione più interessante nella Penisola.

QUARANTA ANNI DI VALUTAZIONE DELLE POLITICHE E DEGLI INVESTIMENTI PUBBLICI: LEZIONI DALL’ESPERIENZA. Rassegna Italiana di Valutazione n. 40

Riassunto
L’articolo è una rassegna di 40 anni di valutazione delle politiche e degli investimenti pubblici sulla base dell’esperienza dell’autore, il quale ha potuto sia partecipare sia osservare i cambiamenti di metodi, tecniche e procedure di valutazione in varie sedi istituzionali – dalla Banca Mondiale alla Commissione Europea, dai Ministeri italiani alla docenza presso Università anche straniere e la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. La conclusione principale della rassegna è che l’analisi costi benefici con opzioni reali, specialmente se coniugata con il “metodo degli effetti”, consente di risolvere alcuni nodi di fondo delle tecniche tradizionali di valutazione economica e finanziaria e soprattutto di portare tali tecniche a sintesi con quelle della valutazione socio-organizzativa.
Parole Chiave: valutazione ex-ante, valutazione ex-post, Banca Mondiale, pesi distributivi

Abstract
This is a review article based on 40 years of experience in the field of policy and project appraisal and evaluation. The author has had an extensive career in this area in the World Bank, the European Commission, Italian Government Ministries and in academia. The review concludes that cost benefit analysis extended to “real options” and applied jointly with the “effects method” helps solve certain critical issue of traditional financial and economic appraisal and evaluation techniques. More significantly, it contributes to better integrate financial and economic evaluation and appraisal techniques with organizational and sociological evaluation techniques.
Key Words: appraisal, evaluation, World Bank, distribution weights


Giuseppe Pennisi

Premessa

Questo articolo è una riflessione sintetica su 40 anni di valutazione (dell’investimento pubblico) come visti dalla mia esperienza di “public servant” in organizzazioni sia nazionali sia internazionali al fine di trarne alcune lezioni per coloro che oggi si affacciano al mondo della valutazione. E’ diretto principalmente alle giovani generazioni che entrano in questo campo o che meditano di entrarci. Riguarda, poi, soltanto un aspetto della valutazione: quella economica e finanziaria ex-ante. Da un lato non mi considero competente ad affrontare altri aspetti della valutazione (quelli sociologici, politologici, giuridico-istituzionali, tecnologici) se non da orecchiante e da dilettante. Da un altro, una retrospettiva di esperienze e di metodi di monitoraggio e di valutazione ex-post ci porterebbe molto lontano e comporterebbe entrare in dimensioni procedurali, di interesse limitato ai lettori della Rassegna Italiana di Valutazione. La presentazione è organizzata per vasti periodi cronologici.

Gli Anni Sessanta e Settanta

I miei interessi professionali iniziali non erano diretti alla valutazione ma alla teoria del commercio internazionale ed alle politiche commerciali (Pennisi, 1967, 1969) con particolare attenzione alle implicazioni di quelle dei Paesi industriali ad alto reddito pro-capite sulla crescita di quelli che allora erano chiamati i Paesi in via di sviluppo. Un lavoro sui rapporti d’associazione tra quella che ora è l’Unione Europea (Ue) e 18 Stati associati mi portò inevitabilmente a studiare il Fondo europeo di sviluppo (F.e.s.) ed ad effettuare numerose visite ai servizi della Commissione a Bruxelles (Pennisi, 1966) e, per ciò, ad avere accesso alla valutazione ex-ante che si cominciava ad effettuare nel contesto comunitario La prima di tali valutazioni con contenuto professionale , a mia memoria, riguardò un progetto di sviluppo agricolo nel Madagascar: venne condotta da consulenti incaricati dal Governo del Madagascar (ma approvati, e finanziati, dalla Commissione Europea) sulla base di “regole di ingaggio” che contemplavano essenzialmente stime degli effetti dell’intervento, ma non il calcolo di indicatori sintetici attualizzazti di convenienza finanziaria ed economica tipici dell’analisi costi-ricavi finanziaria e dell’analisi costi-benefici economica (come il Sir, Saggio interno di rendimento, ed in Van, Valore attuale netto).

Veniva, infatti, applicato quel “metodo degli effetti” che sarebbe, successivamente, statola centro di animato dibattito nella professione (per una sintesi, Chervel, 1995). Era un approccio differente dell’analisi costi-benefici, di cui allora studiavo i rudimenti alla Johns Hopkins University, ma che ben si collocava nella cultura europea (e non solo) della valutazione dei programmi di sviluppo della seconda metà degli Anni Sessanta, imperniata sugli effetti di trazione dei poli di sviluppo (ad es. Marrama 1958; Moussa, 1960; Myrdal, 1962; Perroux, 1962, Prebish, 1951) inseriti in programmi pluriennali ispirati a quella che veniva chiamata “la programmazione indicativa”; era parte della prassi della Cassa per il Mezzogiorno (Petriccione, Piccioni, 1976) ed aveva rappresentato il modello sottostante la programmazione e la valutazione (degli effetti) del polo siderurgico di Taranto (Solustri, 2002). Rappresentava soprattutto il metodo seguito non soltanto nei Paesi dell’area francofona ma anche dell’America Latina nell’ambito delle varie scuole dello strutturalismo economico (ad es. Prebish, 1951; Pennisi, 1987). Il “metodo degli effetti”, come vedremo in un paragrafo successivo, avrebbe avuto nuovo lustro nel primo scorcio del XXI secolo; allora era visto con diffidenza specialmente all’Ocse, all’Unido ed alla Banca Mondiale, organizzazioni internazionali che stavano diventando la fucina delle metodologie, tecniche e procedure di valutazione basate sull’analisi dei costi e dei benefici “sociali”. Nelle analisi relative a progetti finanziati dalla Commissione Europea veniva seguita una versione molto semplificata del “metodo degli effetti” (quale illustrata ad esempio in Bridier, Michailoff 1980 e in Bussery, Chartois 1975-82) agevolata, però, dal fatto che in numerosi Paesi di espressione francese esistevano tavole input-output, anche se spesso stimate, non rilevate, e soprattutto non aggiornate con la periodicità necessaria. E’ utile ricordare che veniva vista con favore la programmazione economico dell’investimento pubblico (e di molti altri aspetti delle politiche pubbliche); ancora alla metà degli Anni Novanta Chervel sottolineava come il “metodo degli effetti” sotto-intendesse un’economia di piano; tanto nella versione colloquialmente chiamata dell’Unido quanto in quella considerata dell’Ocse, al centro dell’operatività dell’analisi costi benefici venivano concepiti istituzioni chiamate COPE (Central Office of Project Evaluation) non dissimili ad un Commissariato al Piano. In sintesi, il “metodo degli effetti” consisteva nell’individuare e quantizzare gli effetti di una politica o di una misura oppure ancora di un progetto sull’economia su cui insisteva , a soffermarsi sulle variabili-obiettivo (occupazione, valore aggiunto, industrializzazione) ritenute più importanti alla luce degli obiettivi di programmazione e giungere ad una molteplicità di indicatori sulla cui base giungere ad una decisione.

Più importante degli aspetti tecnico-economici, è che il dialogo committente- consulenti (i valutatori) si svolgeva tra i funzionari della Commissione e gli esperti-consulenti, con interventi abbastanza modesti da parte dei dirigenti e dei funzionari degli Stati associati, che avrebbero, in ogni caso, avuto la responsabilità di attuare e soprattutto gestire i progetti. E’ difficile dire se ciò si dovesse attribuire al ruolo quasi debordante della Commissione nella gestione del F.e.s. , nel fatto che gli Stati associati si sentissero solo parzialmente titolari dei progetti, nelle differenze di preparazione professionale od altro. Alla base c’erano verosimilmente le procedure molto centralizzate del F.e.s , come sottolineato acutamente (oltre che in numerosa pubblicistica dell’epoca) in libro che ben tratteggia il clima generale di quel periodo (Andreis, 1967).

Arrivai in Banca Mondiale con un bagaglio modesto in materia di valutazione- anche se, in seguito, tutta la mia carriera nell’istituzione è stata nel settore della valutazione (ex-ante, in itinere, ex-post) di progetti. Cominciai ad annusare le complessità della valutazione in un progetto idroelettrico in Argentina (El Colchon) ed in un progetto di irrigazione in Sudan (Rahad). Il mio ruolo personale era modesto anche poiché si trattava di due investimenti molto vasti e finanziati da una molteplicità di fonti. Con El Colchon appresi i rudimenti delle tecniche di co-finanziamento tanto parallelo quanto congiunto con partner finanziari pubblici e privati sia tramite crediti da parte dei fornitori. Con Rahad mi fu chiesto di effettuare l’analisi di reattività, tanto finanziaria quanto economica, degli indicatori sintetici di convenienza al variare di alcune ipotesi; mi dovetti confrontare con Development & Resources (D & R) , la società di consulenza ingaggiata dal Governo sudanese per la preparazione del progetto, un’azienda creata e guidata da David Lilienthal che nella sua carriera pubblica era stato l’iniziatore e l’amministratore delegato della Tennessee Valley Authority e il primo Presidente della Atomic Energy Comission americana. La stessa Banca mondiale si confrontava con umiltà nei confronti di D & R. Occorre dire che l’analisi di reattività, condotta con un collega svizzero ventiseienne come me, ebbe un impatto utile sull’allestimento del progetto (nonostante fu effettuata allo stadio molto avanzato del negoziato per il pertinente finanziamento): convinse D & R (che a sua volta operò azione di persuasione sul Governo sudanese) della fragilità dei rendimenti finanziari del progetto e, dunque, della necessità di assistenza tecnica e di formazione del personale per il controllo dei costi (tanto di gestione quanto di investimento), nonché per il marketing del prodotto (cotone di altissima qualità). Ciò mi fu utile nell’affrontare (nel contesto di una missione di analisi della situazione e delle prospettive economiche del Paese non di valutazione di progetti) le tematiche del manifatturiero tessile in Egitto; avevo trovato stimolante, quasi divertente, l’analisi finanziaria (un lavoro faticoso che allora si faceva con le tabelle di attualizzazione ed i calcolatori da tavolo); riuscii quindi a scoprire una serie di sussidi occulti al tessile da esportazione di cui né i miei colleghi né il Ministero dell’Economia del Paese avevano contezza. La scoperta fu utile poiché comportò una razionalizzazione del sistema. Fu ancora più utile alla mia reputazione all’interno dell’istituzione ed al conseguente orientamento verso l’analisi di progetti.

Allora (fine Anni Sessanta) l’analisi dei costi e dei benefici economici era pittosto embrionale (specialmente in materia di derivazione dei “prezzi ombra”, ossia di valori economici che esprimessero, al tempo stesso, scarsità relative per la collettività ed obiettivi di politica economica). Si era già giunti, però, a raffinatezze in materia di analisi finanziaria, soprattutto sotto il profilo dell’analisi di rischio; ebbi la fortuna di lavorare sulle prime applicazione delle “simulazioni di Montecarlo” ai porti di Mombasa e Mogadiscio (Pouliquen; 1975) ed all’analisi pionieristica sui rendimenti dell’istruzione in Kenya (Thias, Carnoy, 1972), nonché allo studio sul potenziale dell’energia nucleare a fini civili in Paesi in via di sviluppo – tre pietre miliari in vario modo rispettivamente per l’analisi finanziaria del rischio, dell’economia dell’informazione e della conoscenza, e della valutazione di alternative tecniche ai fini della minimizzazione dei costi complessivi.

A cavallo tra la fine degli Anni Sessanta e l’inizio degli Anni Settanta, furono pubblicati due manuali fondamentali da parte dell’Ocse e dell’Unido (Little, Mirlees, 1974; Dasgupta, Marglin, Sen 1972), che innovarono in materia metodologica e procedurale specialmente in materia di derivazione di “prezzi ombra” e di considerazione di valutazione di distribuzione del reddito e di beni ed obiettivi meritori o sociali. Avevano una robusta base teorica nell’economia del benessere (Drèze, Stern, 1987). L’innovazione metodologica e procedurale era l’utilizzazione del mercato internazionale come riferimento di politica economica “positiva” per la derivazione dei “prezzi ombra” e di “parametri nazionali” per tenere conto degli aspetti di politica economica “normativi” (gli obiettivi della collettività). Si sviluppò un dibattito sull’analisi dei costi e dei benefici “sociali” (come venne chiamata), discusso ampiamente nella premessa di un libro recente scritto a quattro mani con P.L. Scandizzo (Pennisi, P.L. Scandizzo, 2003). In questa sede, quindi, è importante ricordare alcuni punti salienti:

• In alcune loro versioni operative (Bussery, 1973; Hansen, 1978; Sudgen, Williams, 1978), i manuali proponevano importanti scorciatoie operative tali da rendere l’analisi economica di politiche e di investimenti pubblici alla portata anche di chi non aveva solide basi teoriche e metodologiche.

• Ciò aveva vantaggi importanti in materia di diffusione delle tecniche e della loro capacità di diventare strumento essenziale di dialogo (e quindi di consultazione) con gli altri professionisti (ingegneri, agronomi, sociologici, ecc.) impegnati nell’allestimento del progetto, oltre che veicolo per colloquiare con l’organo politico e ricavarne preferenze (Pennisi, 1991). Inoltre, le tecniche basate sui manuali davano un’impressione di “neutralità”, nel senso di minor coinvolgimento della mano politica, nelle discussioni sul merito dei singoli interventi.

• A questi due importanti vantaggi corrispondevano, però, due importanti svantaggi. Da un lato, l’”arroganza del valutatore” costretto a ricavare obiettivi di politica economica (la funzione di benessere sociale) da informazioni parziali, limitate e contradditorie. Da un altro, l’enfasi sui lati più strettamente meccanici delle tecniche con comprensione spesso limitata degli aspetti metodologici (ed etici) ad essi sottostanti.

I manuali Ocse ed Unido innescarono un periodo di grande vivacità intellettuale e di sperimentazione in materia di valutazione economica dell’investimento pubblico e delle politiche pubbliche. La Banca Mondiale ne ebbe implicitamente la leadership – anche a ragione di un vasto programma sperimentale da essa lanciato – ma le altre organizzazioni internazionali e molte pubbliche amministrazioni nazionali (non solo di Paesi in via di sviluppo ma anche di Paesi industrializzati ad alto reddito pro-capite) parteciparono attivamente al confronto . A ragione della potenziale “arroganza del valutatore”, furono definiti in modo più chiaro i compiti dei valutatori-consulenti e dei committenti; le principali organizzazioni internazionali e amministrazioni nazionali emisero direttive od anche regole in materia. Esse comportavano tutele nei confronti della professionalità del valutatore e specificavano il ruolo d’indirizzo degli organi politici nella definizioni di vincoli e di pesi (Ray, 1984).

La metodica aveva il pregio d’adattarsi a qualsiasi tipo d’intervento- grande, piccolo, nazionale, internazionale, locale- nei settori più svariati. Nelle mie competenze specifiche in Banca Mondiale – dove ho lavorato principalmente su progetti in Estremo Oriente ed in Africa orientale ed australe - sono stato, tra l’altro, coinvolto in due operazioni i cui aspetti possono interessare per la loro rilevanza a dibattiti in corso in Italia: l’analisi economica (con la metodologia costi benefici) di un programma per la ricerca e la tecnologia nella Repubblica di Corea ed un’analisi costi efficacia della riorganizzazione della scuola secondaria a Maurizio. La prima , in gran misura, era stata condotta da un consorzio di università coreane, per impulso del locale Ministero della Programmazione Economica; noi della Banca dovemmo solo ritoccarne alcuni punti dopo un’attenta discussione con le autorità e gli esperti della Corea. La seconda è stata fatta interamente dallo staff della Banca seguendo una tecnica molto semplificata; a Maurizio non ebbe alcuna eco, tanto che dopo pochi mesi vennero assunte decisioni politiche diametricalmente contrastanti con i risultati dell’analisi. Chiara indicazione della modesta utilità della valutazione senza il diretto interesse e coinvolgimento dei committenti



Gli Anni Ottanta

Sotto il profilo della mia esperienza personale (e delle lezioni da trarrne) si possono distinguere due punti salienti: a) il tentativo d’ introduzione su vasta scala dell’analisi costi benefici (ed in misura più limitata dell’analisi degli impatti) in Italia per il tramite del Fondo investimenti ed occupazione (Fio) e b) la prosecuzione, alla Fao al cui Centro di Investimenti ho lavorato alcuni anni, della sperimentazione dell’analisi dei costi e dei benefici “sociali” a cui ho accennato nell’ultima parte del paragrafo precedente.

Del primo ho trattato ampiamente in un libro di 20 anni fa (Pennisi, Peterlini 1987), il cui punto centrale era come abbia fallito il meccanismo centralizzato d’allocazione della spesa per gli investimenti Fio non l’introduzione di metodologie, tecniche e procedure di valutazione – accolte anzi dalle pubbliche amministrazioni, specialmente da quelle delle Regioni - con un entusiasmo superiore alle aspettative. L’introduzione su vasta scala d’analisi economiche, segnatamente d’analisi costi- benefici, per la valutazione dei progetti a concorrere sul Fio sviluppò anche un’ampia letteratura e manualistica italiana e l’organizzazione di corsi di formazione da parte di istituti pubblici e privati, nonché un maggior ruolo dato a queste tematiche nei corsi di laurea universitari.

Inoltre, la metodica portò alla nascita ed alla diffusione di numerose piccole e medie imprese nel campo dei servizi d’analisi economica specializzate nella valutazione di investimenti pubblici. Senza dubbio, ciò contribuì a fare conoscere le tecniche e le procedure di valutazione. Tuttavia, da un lato, la conoscenza restò limitata agli aspetti procedurali, in particolare a quelli più superficiali senza che si entrasse in quelli metodologici (ove non teorici) sottostanti. Dall’altro, si svilupparono prassi non corrette che ancora in gran misura pervadono la professione quali :

1. Il trattamento dei contributi per oneri sociali ed in certi casi anche delle imposte dirette sul reddito come “trasferimenti”. Ciò riduce la stima ed il computo dei costi “economici”, specialmente per progetti ad alta intensità di occupazione, e di conseguenza gonfia gli indicatori sintetici di convenienza economica. E’, però, un errore di logica economica poiché contributi per oneri sociali e imposte dirette non sono trasferimenti nell’ambito della società ma costi, per i quali si riceve un corrispettivo, un beneficio, o immediato o differito nel tempo.

2. Il proliferare di conteggi multipli per ampliare le stime benefici economici , sommando spesso le stesse esternalità (computate a volte seguendo metodi di stima differenti) oppure considerando esternalità tecnologiche (ossia esterne al mercato) quelle che sono, invece, esternalità pecuniarie (esterne alla politica od al progetto ma non al mercato).

3. Un’utilizzazione sfrenata di moltiplicatori tanto del consumo quanto dell’investimento, talvolta sommati tra loro e ad interdipendenze- spesso computate per ciascun anno del progetto non soltanto per il lasso di tempo in cui verosimilmente dette interdipendenze gradualmente esauriscono.

Queste, ed altre “cattive prassi”, non nacquero necessariamente unicamente per compiacere i committenti, ma anche dalla scarsa attenzione al sottostante dell’analisi medesima ed alle possibilità offerte ai valutatori, tanto in buona quanto in cattiva fede, di manipolare le procedure. Che errori di questa natura fossero attuati nella convinzione di seguire tecniche appropriate si constata nell’analisi del singolo progetto d’investimento pubblico che probabilmente suscitò maggior interesse, pure sui media ed in Parlamento, nell’Italia degli Anni Ottanta: la riconversione della centrale elettrica di Montalto di Castro da termonucleare a policombustibile (Pennisi, 1988 a). Nonostante economisti di rango (quali Mario Draghi e Luigi Spaventa) facessero parte dell’apposita commissione istituita al Ministero dell’Industria con il compito di predisporre un’analisi costi-benefici da presentare in Parlamento, la relazione conteneva non solamente numerosi errori di imputazioni di voci contabili ma esponeva un’analisi costi-ricavi dal punto di vista dell’ente pubblico produttore (l’Enel) e delle eventuali sovvenzione dell’erario all’ente medesimo (Ministero dell’Industria, 1988). Non era, quindi, un’analisi economica sotto il profilo della convenienza alla collettività e neppure un’analisi finanziaria (della convenienza, quindi, sia all’ente produttore sia agli altri soggetti coinvolti – consumatori quali imprese e famiglie). Pareva basata sull’assunto, quanto mai discutibile, che la convenienza all’Enel coincidesse con quella a tutti i differenti soggetti e strati della società.

Interessante notare che il dibattito sulla riconversione della centrale di Montalto di Castro non sfiorò questi temi che in un paio di articoli ma si concentrò sulle tecniche di valutazione del rischio e sui costi aggiuntivi per minimizzare infortuni e loro eventuale portata. Fu, quindi, un dibattito essenzialmente tecnologico più che finanziario od economico. Interessante anche sottolineare che non ci fu quasi nessun dibattito economico e finanziario su un’altra iniziativa di intervento pubblico centrale all’Italia degli Anni Ottanta: l’alta velocità ferroviaria. Pur se, proprio su questi argomenti, si disponeva degli studi effettuati in Francia per la “grande vitesse” e per l’Eurotunnel e di quelli effettuati in Gran Bretagna per il Terzo Aeroporto di Londra. Tanto i committenti quanto la professione, dunque, sembravano distanti dal progresso della disciplina a livello internazionale.

Ciò nonostante, gli Anni Ottanta sono stati, in Italia, un periodo di svolta importante , anche e soprattutto grazie alla manualistica (Ministero del Bilancio, 1985; Nuti, 1987; Fanciullacci, Guelfi, Pennisi, 1991; Florio, 1991; Parmentola, 1991). In particolare, il manuale pubblicato dal Poligrafico dello Stato per conto del Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica ha avuto varie edizioni ed un impatto significativo sulla pubblica amministrazione dello Stato e sulle Regioni. Tra l’altro, il manuale del Ministero del Bilancio metteva in guardia nei confronti di calcoli generalizzati di “prezzi ombra” basati su prezzi alla frontiera per Paesi industrializzati ad economia aperta come l’Italia; sconsigliava, inoltre, l’impiego di ponderazioni distributive variabili per la presa in conto di beni e servizi meritori o d’obiettivi di distribuzione del reddito in Paesi come l’Italia in cui la mano fiscale era da considerarsi relativamente ben funzionante a fine redistributivi. Ciò ha contribuito a contenere manipolazioni da parte dei consulenti-valutatori del genere di quelle indicate in precedenza. Non ebbero, però, implicazioni sulla gestione della politica economica in generale , allora rivolta a contenere l’inflazione ed a mantenere un saggio sostenuto di crescita (Acquaviva, 2005, Amato 1990) e meno attenta alla qualità della spesa di quanto sarebbe stato desiderabile

Veniamo all’altro filone: l’approfondimento della sperimentazione dell’analisi costi- benefici “sociale”. Tale sperimentazione non è stata confinata alla Banca Mondiale dove un centinaio di progetti sono stati valutati utilizzando le ponderazioni variabili dei manuali Ocse ed Unido e delle guide pratiche da essi derivanti Tuttavia, la sua diffusione al di fuori della Banca Mondiale e di centri di ricerca collegati ad università è stata piuttosto limitata. Quando nel 1986-89 lavorai al Centro di Investimenti della Fao constatai che per quanto suggerita nei manuali operativi interni non era affatto applicata, nonostante una delle finalità del Centro fosse quello di individuare e preparare progetti di sviluppo rurale per l’International Fund for Agricultural Development (Ifad), un fondo multilaterale specificatamente concepito per fornire assistenza finanziaria agli agricoltori ai livelli più bassi dei redditi, dei consumi e della tecnologia. L’analisi dei costi e dei benefici “sociali” calzava molto bene piani e progetti di tale natura poiché avrebbe consentito di allestire progetti che, pur avendo un forte contenuto produttivo (quale risultante dall’analisi finanziaria), avrebbero tenuto conto dell’elevata utilità marginale sociale di benefici afferenti alla fasce più basse della scala dei redditi e dei consumi.

Come in qualsiasi burocrazia c’erano ostacoli ad uscire dal percorso predeterminato, nonostante fossero passati circa tre lustri dalla pubblicazione delle versioni iniziali dei manuali Ocse ed Unido e la sperimentazione della Banca Mondiale, e di altri, fosse già molto avanzata. Al Centro d’Investimenti della Fao non avevo compiti manageriali, quali quelli avuti in Banca Mondiale ed al Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica. Di conseguenza, ebbi l’opportunità di sperimentare in prima persona, con un collega, l’applicazione dell’analisi dei costi e dei benefici “sociali” (FAO, 1988; una sintesi è in Pennisi, Scandizzo 2003) su un programma di intensificazione agricola nel Nord-Est della Costa d’Avorio mirato ai giovani agricoltori di un’area particolarmente povera. In sintesi, l’analisi “sociale” è stata effettuata ad integrazione di un’analisi finanziaria tradizionale su un campione di modelli di aziende e di un’analisi economica anch’esse tradizionale (a “prezzi ombra” e con pertinente analisi di reattività per individuare i punti di rischio e le misure per contenerlo). Le ponderazioni distributive sono state introdotte tramite scenari alternativi che presupponevano differenti valutazioni, nella funzione di benessere sociale, dell’utilità marginale sociale dell’incremento del reddito dei beneficiari dello schema d’intensificazione agricola. Oltre a interessanti risultati puntuali , l’esercizio dimostrò come lo strumento avesse grandi capacità e grandissime potenzialità e come l’analisi potesse essere effettuata a costi contenuti (due settimane di lavoro aggiuntivo da parte di due persone).

L’esercizio fu accolto con grande interesse tanto alla Fao quanto all’Ifad. Vennero anche organizzati seminari interni non solo per sensibilizzare ma pure per illustrare le scorciatoie operative impiegate e se possibile individuarne altre, anche a ragione della frequenza di progetti e programmi d’intensificazione agricola in aree molto povere nelle attività tanto della Fao quanto dell’Ifad. Applicai ancora una volta, con collega, il metodo, le tecniche e le procedure nella valutazione ex-post di un progetto di sviluppo rurale nella poverissima provincia di Enga a Papua-New Guinea. In ambedue i casi il collega con cui avevo lavorato era un agronomo. Di nuovo, notevole interesse, discussioni interne, seminari. Lo introdussi in una guida metodologica per la valutazione della formazione professionale commissionatami dall’Organizazione Internazionale del Lavoro (Pennisi, 1991). Tuttavia, a quel che so, il metodo, le tecniche e le procedure dell’analisi dei costi - benefici “sociali” non vennero più replicate né dalla Fao né dall’Ifad: le analisi del progetto d’intensificazione agricola in Costa d’Avorio e di sviluppo rurale in Papua-New Guinea restarono due casi isolati e la guida per la valutazione della formazione un mero strumento didattico. Rimasero allo stadio di meri esercizi intellettuali gli stessi sforzi per definire una tecnica che consentisse di tener conto dei benefici alla generazione successiva a quella che ha concepito e finanziato il progetto, molto importanti per le grandi infrastrutture o per investimenti con forti ricadute ambientali (Pennisi, 1989). Segno non tanto della sterilità degli strumenti quanto del cambiamento del contesto.

Con la crisi del debito estero scoppiata alla metà degli Anni Ottanta ma destinata a colorare il clima internazionale per circa un decennio (Pennisi, Scanni, 1991) l’attenzione delle maggiori organizzazioni internazionali si spostò dall’allestimento e finanziamento di progetti a quello di politiche di riassetto strutturale – ossia di politiche dirette a riorientare la struttura di produzione interna verso la struttura di produzione internazionale- ed ai grandi trasferimenti di risorse necessari a sostenere tali politiche di riassetto strutturale. Ciò comportò pure una profonda riorganizzazione della Banca Mondiale, per decenni all’avanguardia nella valutazione di progetti. Uno dei risultati di tale riorganizzazione, attuata nel 1987-91, fu la riduzione di funzioni dei vari settori dell’istituzione incaricati della valutazione di progetti. Ciò comportò non soltanto la fine della sperimentazione dell’analisi dei costi e dei benefici “sociali” ma soprattutto un esodo (incentivato) d’esperti delle varie professionali inerenti all’identificazione , preparazione, valutazione di progetti in tutti i loro aspetti ed in tutte le loro fasi. Le attività d’analisi di progetti (soprattutto di quelle innovative) sono state ristrette ad alcuni settori quali il capitale umano, lo sviluppo sostenibile e l’ambiente. Veniva, quindi, a mancare quello che nei trenta anni precedenti era stato il motore della valutazione a livello internazionale.

Gli Anni Novanta

Negli Anni Novanta, da un lato, tanto nelle organizzazioni internazionali quanto nel mondo accademico e nella professione in generale, il ruolo dell’analisi e della valutazione economica perse peso per le ragioni delineate al termine del paragrafo precedente. Da un altro, i miei interessi professionali si orientarono verso differenti temi, anche a ragione dei risultati modesti ottenuti con il Fondo per il rientro dalla disoccupazione (Frd) . Ciò non significa che negli Anni Novanta, si arrestò l’attività di valutazione in generale e quella dell’investimento pubblico in particolare; al contrario essa aumentò considerevolmente soprattutto in Europa a ragione dell’importanza sempre maggiore dell’allestimento di programmi per i fondi strutturali europei. In estrema sintesi, e quasi estremizzando per meglio formulare il punto essenziale, si può dire che la leadership passò dalla Banca Mondiale, dall’Ocse, dall’Unido e dalle Banche regionali di sviluppo (come quella Interamericana, quella Asiatica e quella Africana) alla Commissione Europea, a ragione dei vasti programmi finanziati a concorrere su detti fondi, nonché del fatto che il F.e.s. utilizzava sostanzialmente una metodica e procedure identiche a quelle dei fondi strutturali.

Come ho indicato in un lavoro condotto con P.L. Scandizzo (Pennisi, Scandizzo, 2006), alla base della cesura quasi rispetto agli sviluppi negli Anni Settanta ed Ottanta, non c’era solamente il cambiamento di contesto internazionale, ma anche una insoddisfazione generale nei confronti dell’analisi costi- benefici “sociali” : il metodo comportava un costo elevatissimo in termini di informazioni; le scorciatoie operative che venivano, per necessità e praticità, adottate ne inficiavano gli assunti teorici di base (Boeri, 1990; Pennisi, 1988 b). In particolare era virtualmente impossibile ricavare dai documenti di politica economica quella funzione di benessere sociale che avrebbe dovuto essere alla base della derivazione dell’intero sistema di “prezzi ombra” e di pesi distributivi sia interpersonali sia intertemporali. In aggiunta, rassegne di valutazioni ex-post di progetti effettivamente realizzati condotte dalla stessa Banca Mondiale nel suo vasto portafoglio esibivano un crescente numero d’investimenti pubblici, pur valutati positivamente ex-ante, con esiti finanziari ed economici insoddisfacenti . Inoltre, il carattere dicotomico dell’analisi dei costi - benefici “sociali” si addiceva male al problema considerato centrale da molti Paesi: la definizione di priorità relative tra progetti d’investimento, specialmente in presenza di elevati costi accantonati (Rivlin, 1991), ossia a spese effettuate in decenni, od anche secoli, precedenti.

La centralità assunta dalla Commissione Europea, la cui manualistica fu pubblicata alla fine del decennio (European Commission, 1999) comportò un cambiamento di enfasi molto profondo: l’accento non era più sulla valutazione economica del singolo progetto nei suoi costi e benefici “sociali” ma sull’organizzazione di programmi, e pertinente valutazione. Da un canto, ciò comportava un nesso molto forte al “metodo degli effetti”; da un altro, ciò implicava il ricorso a metodi non economici ma manageriali-organizzativi (quali “il quadro logico”, “l’albero dei problemi” e “l’albero delle soluzioni”, l’analisi SWOT, l’analisi “multicriteri”, la riscoperta di strumenti (come il Pert ed il Ccm) che risalivano alle discipline organizzazione degli Anni Cinquanta, l’impiego di vere e proprie batterie d’indicatori). Nella manualista della Commissione Europea (European Commission, 1999), l’analisi costi-benefici era richiesta unicamente per i singoli progetti di maggiori dimensioni; erano dedicate all’argomento poche pagine, una dozzina su circa 600. Alcuni assunti di base ed alcune tecniche iniziate dalla Commissione Europea, sono stati mutuati dalla Banca Mondiale- ad esempio la Country Development Partnership. Quindi, dalle Banche regionali di sviluppo.

Ciò implicò anche un cambiamento nella professione: gli economisti e gli analisti finanziari (che avevano avuto un ruolo centrale) e gli stessi specialisti tecnici (ingegneri, agronomi) cedettero il passo inevitabilmente a professionisti provenienti da altre discipline, sia socio-organizzative sia politologiche. Per molti aspetti, ciò significò un arricchimento della valutazione perché aspetti istituzionali, critici per il successo od il fallimento di un progetto o di un piano, spesso non erano stati tenuti in adeguato conto nelle metodologie e, soprattutto, nella prassi quando era applicata l’analisi costi- benefici “sociali”: l’accento veniva posto sulle derivazioni dei “prezzi ombra” e sulle ponderazioni distributive piuttosto che sulle dimensioni socio-istituzionali per realizzare il progetto ed assicurarne funzionamento e sostenibilità.

I tentativi di dare coerenza, tramite, ad esempio, una “struttura di programma” costruita sugli indicatori di convenienza dell’analisi costi benefici (Centro Studi e Piani Economici, 1987; Pennisi, 1991), al nesso tra valutazione dei singoli progetti e l’allestimento di programmi non hanno avuto esiti positivi di rilievo. Essenzialmente le due discipline, e relative professioni, restarono distinte. In aggiunta, mentre sarebbe stato logico costruire programmi su una platea di progetti singolarmente valutati positivamente, la prassi della Commissione Europea (e non solo) era, ed è, quella di definire programmi nel cui quadro individuare, preparare e valutare progetti.

Su un sentiero, però, si fece strada: l’approntamento di matrici di contabilità sociale e di modellistica d’equilibrio economico per quantizzare impatti di programmi. Le origini e le basi teoriche dello stesso “metodo degli effetti” risalgono ai primi tabeaux économiques dei fisiocratici ; rappresentazioni delle interdipendenze settoriali ed istituzionali di un’economia. Mentre negli Anni Settanta ed Ottanta erano campo di studio di una piccola confraternita internazionale (King, 1982) ed erano state impiegate, a scopo sperimentale, principalmente per l’analisi di programmi regionali (quali il “Triangolo di Jenka” in Malesia) oppure per progetti non marginali (quali il Terzo Aeroporto di Londra e l’Eurotunnel) , negli Anni Novanta diventarono pure in Italia di più vasta applicazione sia per l’esame di politiche pubbliche come quelle tributarie (Fossati, 1991) sia per la preparazione di programmi di sviluppo regionale (quali quelli della Toscana e della Regione Siciliana). Alla metà degli Anni Novanta, l’Istat approntò una matrice di contabilità sociale (ossia una rappresentazione dei nessi tra settori ed istituzioni nell’economia italiana) rilevata ed aggiornata alla data della pubblicazione. Pur se le matrici di contabilità sociale e la modellistica d’equilibrio economico restavano un campo specialistico, per iniziati, e non avevano un’immediatezza ed un’eloquenza nel dialogo tra valutatori tecnici e politici pari a quello dell’analisi costi-benefici, lo strumento rappresentava un nesso economico forte tra l’analisi degli impatti di gruppi di progetti o di un intero programma di investimenti, da un lato, e l’analisi dei singoli progetti, dall’altro. Coniugare le due analisi (ambedue di stampo strettamente e rigorosamente economico) rendeva possibile la definizione del legame tra valutazione di piani e di programmi e la valutazione di progetti senza dover ricorrere ad una strumentazione a carattere manageriale-organizzativo. Nonostante le affinità di questo approccio con il “metodo degli effetti”, non soltanto esso non permeò la Commissione Europea ed i suoi metodi, le sue tecniche e le sue procedure (e la Commissione Europea era il “principal player” nel campo) ma soprattutto aveva ed ha asperità tecniche da richiedere una formazione economica specializzata.

Una conseguenza per la professione fu che negli Anni Novanta la crescente attenzione alla valutazione– che in Italia portò alla creazione dell’Associazione Italiana di Valutazione (Aiv)- riguardò principalmente coloro appartenenti a discipline manageriali, organizzazione, sociologiche e gli economisti di scuola istituzionale e neo-istituzionale. Sono anche le categorie meglio attrezzate al dialogo con il committente, specialmente se e quando il committente è l’organo politico.

Un commento conclusivo sul periodo. Nella seconda metà degli Anni Novanta, il mio lavoro a tempo pieno era quello di docente stabile alla Scuola superiore della pubblica amministrazione. Almeno una dozzina di corsi sono stati organizzati ogni anno sulla valutazione di piani e progetti in cui si poneva l’accento sull’analisi dei costi e dei benefici “sociali”. Nei corsi di preparazione alla dirigenza, inoltre, si dedicavano anche due giornate alla valutazione degli impatti utilizzando matrici di contabilità sociale e modelli d’equilibrio economico, nonché utilizzando casi di studio concreti quali quelli ricavati da programmi di sviluppo regionali. I corsi di valutazione di progetti, la cui partecipazione era, ed è, assolutamente volontaria e richiede notevole impegno hanno sempre avuto moltissime adesioni. I vincitori di concorso per la dirigenza pubblica, per se in gran misura di formazione giuridica, hanno, in via generale, mostrato di sapere cogliere l’essenza dell’analisi degli impatti. Ciò indica come è fertile all’analisi economica (anche avanzata) un terreno, quello della pubblica amministrazione italiana, normalmente ritenuto piuttosto refrattario a materie indubbiamente ostiche per coloro che non hanno una preparazione economica di base.

Ciò indica anche qualcosa di più pregnante. L’obiettivo dei corsi in questione , specialmente di quelli per la dirigenza, non era tanto la formazione di valutari quanto la preparazione a indirizzare, a controllare ed a verificare i valutatori-consulenti , provenienti in gran misura della società di servizi economici a cui si è fatto riferimento nel paragrafo precedenze. L’intenzione era di addestrare dirigenti e funzionari con la preparazione di base più varia e più variegata a fare gli “acchiappafurbi”, ossia ad individuare quando e come i dati e le analisi venissero manipolati dall’”arroganza” del valutatore o a ragione della scarsa preparazione di quest’ultimo oppure in quanto il valutatore intendeva essere più realista del re e massaggiare l’analisi al fine compiacere l’organo politico più di quanto fosse disposta a fare la pubblica amministrazione.

Si è riusciti in questo intento? Si può dare una risposta soltanto impressionistica in base di conversazioni con chi , seguiti i corsi, ha partecipato a “follow up” ed è rimasto in contatto con docenti della Sspa. La mia impressione soggettiva è che in alcuni settori (beni culturali, salute, agricoltura, istruzione) l’impatto sia stato utile ed esteso, ma meno vasto e meno profondo in comparti (lavori pubblici, trasporti con una tradizione secolare di amministrazione di spesa pubblica per investimenti).

La valutazione economica nel primo scorcio del XXI secolo

A cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, tuttavia, si stava verificando una rivoluzione silenziosa in materia di valutazione economica di piani e progetti di investimenti pubblici (nonché di politiche pubbliche). Era una rivoluzione, in primo luogo, in materia di teoria e di metodologia, e destinata, perciò, a restare a lungo confinata in ambito accademico: l’applicazione della teoria delle “opzioni reali” all’analisi di investimenti (inizialmente investimenti privati) in condizioni di incertezza (Dixit, Pindyck, 1994). Ancora una volta il metodo, le tecniche e le procedure avevano un appiglio teorico forte: le “opzioni reali” (dato che sono “titoli” rappresentano il nesso tra stime robuste e stime deboli). Ciò riguardava, innanzitutto, investimenti irreversibili ed investimenti a lunga gestazione ed, in misura crescente, investimenti in un quadro economico caratterizzato da un alto grado di incertezza in materia, ad esempio, di costi, di tassi d’interesse, di esigenze di flessibilità (di poter un domani espandere o contrarre l’investimento- oppure la politica). La metodologia ha avuto sviluppi di rilievo anche in Italia (Pennisi, Scandizzo, 2003; Pennisi, 2005; Pennisi, 2006). Non mancano applicazioni concrete di cui sono stati pubblicati il metodo, le tecniche ed i risultati: ad esempio, in Bezzi, 2006 ed in Smit, 2003 il metodo è applicato, a fini decisionali non sperimentali, ad operazioni che contengono un’elevata componente di investimenti di tipo progettuale ma che racchiudono, al tempo stesso, un programma ed una politica – in materia di telecomunicazioni ed alta tecnologia, la prima, ed in materia di trasporto aereo, la seconda.

Il metodo sta facendo progressi a ragione di un vasto programma di ricerca finanziato dalla Banca Mondiale in varie regioni dei Paesi in via di sviluppo e di recente industrializzazione. Nel Nord Europa un ampio studio di fattibilità ha utilizzato il metodo per la riprogrammazione degli aeroporti. In Italia di un programma, più modesto, coordinato dalla Sspa e sostenuto dai Ministeri dell’Economia e delle Finanze e delle Comunicazioni nella XIV Legislatura ma sospeso nella XV , ha riguardato le telecomunicazioni, il turismo ed i trasporti. Il metodo sta entrando gradualmente, pur se lentamente, nella prassi della professione.

E’ utile mettere in risalto non tanto i lati metodologici o tecnici ma due aspetti rilevanti alla valutazione: a) in che misura il metodo della valutazione dei costi e dei benefici “sociali” con “opzioni reali” risolva alcuni nodi di fondo dell’analisi costi benefici medesima; e b) in che modo il metodo delle “opzioni reali” integri l’analisi economica con le altre discipline – organizzative, sociologiche, manageriali che hanno prevalso sull’analisi economica negli Anni Novanta e che ancora adesso hanno un ruolo centrale nella valutazione di politiche, di programmi e di progetti.

In primo luogo, la definizione del metodo dell’analisi dei costi e dei benefici con “opzioni reali” ha riportato ad una rivisitazione analitica e dettagliata della metodologia, delle tecniche e delle procedure quali sviluppate nella manualistica degli Anni Settanta. Ne ha riconfermato la sostanziale validità e ne ha risolto alcuni punti tecnici e specialistici. Ha, quel che più conta, affrontato il nodo centrale, per la professione, e dato una risposta: come fare sì che la specificazione degli obiettivi di politica economica non venga, in mancanza di informazioni dettagliate, manipolata od artefatta dalla “arroganza” del valutatore. Il percorso possibile è quello di ipotizzare come obiettivo fondamentale della politica economica il miglioramento dei tenori di vita (ossia l’aumento del consumo, da assumere come “numerario”, unità di misura ai fini della valutazione economica) e, se si vuole, dalla loro distribuzione (con ponderazioni distributive come nella manualistica degli Anni Settanta) integrandolo, però, con la sommatoria algebrica delle “opzioni reali” (negative e positive, di tipo “call” e di tipo “put”) che l’operazione rende possibili ai soggetti interessati (in gergo gli “stakeholder”). Ciò consente un nesso forte tra gli aspetti macro-economici e distributivi e quelli micro-economici relativi all’operazione specifica. Il valutatore, dunque, non deve fare più ricorso alla propria capacità d’immaginazione per ricavare, in maniera “arrogante”, la funzione di benessere sociale alla cui luce derivare i “prezzi ombra” e valutare il progetto ma deve esaminare, anche con la strumentazione organizzativa e sociologica, le opportunità, ovvero le “opzioni reali” – nel senso di facoltà non di obbligo, ma in ogni caso “titoli”, cioè diritti- - che l’operazione rende possibile agli “stakeholder”. L’insieme di dette opportunità e l’aumento del tenore di vita, e, si vuole, della loro distribuzione per e tra gli “stakeholder” rappresentano il cardine della valutazione economica. E’ una valutazione più costosa, in termini di tempo e di risorse professionali, dell’analisi costi- benefici tradizionale. Tuttavia, è molto più informativa e consente al decisore non solo la scelta tra accettazione e rigetto del progetto ma anche varie “opzioni”- di differimento, di espansione, di abbandono (o di uscita), di sospensione, di contrazione. Sono le scelte con cui spesso si confronta il decisore pubblico; le domande a cui cerca risposte dalla valutazione e che a ragione del carattere dicotomico dell’analisi costi benefici spesso non ha potuto ottenere, perdendo, quindi, fiducia nel metodo, nella tecnica ed anche nelle procedure.

In secondo luogo, l’analisi con “opzioni reali” non può essere condotta soltanto o principalmente da economisti e da esperti tecnici ma richiede l’apporto di specialisti di management e di organizzazione aziendale , di professionisti di discipline socio-organizzative, di politologi. Non solo ma si integra con gli altri strumenti di analisi approntati dalla professione. Ad esempio, la tecnica SWOT, il “quadro logico”, “l’albero dei problemi e delle soluzioni” diventano utili strumenti per individuare la platea di progetti possibili per affrontare un nodo territoriale o settoriale. Con l’analisi multicriteri si può quindi giungere a ridurre il campo entro cui individuare il progetto (e le sue alternative tecniche) da sottoporre ad analisi dei costi e dei benefici “sociali” con “opzioni reali” al fine non solamente di sottoporlo ad un test di accettazione o rigetto ma di esaminare le opportunità che apre, o chiude, per gli “stakeholder” e le implicazioni delle principali “opzioni” sulla sua scansione temporale, sulle sue dimensioni, sulla flessibilità da prevedere nelle sue componenti. Ove possibile, la valutazione dovrebbe essere integrata da stime degli impatti seguendo le varie metodiche (più o meno raffinate) del “metodo degli effetti”.
Una recente analisi comparata della Banca Mondiale (Ravallion, 2008), pur senza fare riferimento esplicito alla metodologia dell’analisi con “opzioni reali”, pone l’accento su due aspetti che proprio con tale metodologia possono essere risolti: una maggiore attenzione alle questioni che rilevano per i policy maker ed un approccio più vasto (di quelli tradizionali) ai fini tanto della validità interna quanto della validità esterna della valutazione. Lo studio mette in risalto anche la necessità che maggiori risorse siano destinate alla “ricerca valutativa” per giungere alle finalità volute di effettivo efficiente ed efficace supporto alle scelte. La strada è ancora lunga (Pennisi, Scandizzo 2006; Arlsoon, 2007), specialmente in un campo in cui la disciplina economica è meno ferrata di altre (ad esempio, quelle relative alle strategie aziendali e militari): la definizione del perimetro degli “stakeholder”, l’individuazione di tecniche e procedure per delineare, a costi contenuti, scenari controfattuali. E’ un tassello non solo essenziale per analisi “con opzioni reali” ma per la credibilità dei valutatori tanto interna (nell’ambito delle organizzazioni in cui operano) quanto esterna (rispetto ai committenti ed alle altre professioni).

Alcune considerazioni

Le considerazioni riassuntive della mia esperienza nel campo della valutazione applicata a politiche, programmi e progetti, possono essere riassunte nel modo seguente:

• In primo luogo, i committenti (spesso organi politici oppure d’alta amministrazione) devono sapere, con chiarezza, cosa intendono fare valutare e, se possibile, quale approccio seguire. Raramente avranno contezza dei metodi, delle tecniche e delle procedure specifiche. Non è necessario ma indispensabile che questi aspetti siano chiariti pienamente sin dall’inizio del processo di valutazione. Può essere utile tenere seminari tra committenti, i loro dirigenti e funzionari ed i valutatori al fine che siano palesi a tutte le parti coinvolte il metodo, le tecniche e le procedure di valutazione. Idealmente tale metodo, tali tecniche e tali procedure dovrebbero essere non solo trasparenti ma anche e soprattutto condivisi.

• In secondo luogo, i dirigenti ed i funzionari del committente hanno un ruolo cruciale, spesso sottostimato da valutatori che si ritengono più professionali dei loro dante cause: sono i guardiani , ove non del metodo e della tecnica, della procedura (Simon, 1967) che è per molti aspetti più importante della qualità della singola valutazione . Devono essere gli “acchiappa-furbi” che ponendo domande appropriate e scavando nei documenti dei valutatori ne scoprono eventuali manipolazioni.

• In terzo luogo, i valutatori medesimi operano in un campo interdisciplinare in rapida evoluzione, specialmente se come auspicabile dalla valutazione dei programmi e dei progetti si passa all’ambito più complesso della valutazione della regolazione (Hahn, Tetlock, 2008). Il mio professore d’economia internazionale a Johns Hopkins terminava ogni lezione raccomandandoci umiltà e ricordandoci di non farci mai illusioni. E’ un insegnamento ancora valido a più di 40 anni dall’epoca in cui mi è stato impartito.



Riferimenti

Acquaviva G. (a cura di) (2005) “La politica economica italiana negli anni ottanta” Venezia, Marsilio

Amato G. (1990) “Due anni al Tesoro” Bologna, Il Mulino

Andreis M. (1967) “L’Africa e la Comunità economica europea” Torino, Enaudi

Arlsoon I. (2007) "Investment and Uncertainty: A Theory-Based Empirical Approach" Oxford Bulletin of Economics and Statistics, Vol. 69, Issue 5, pp. 603-617, October 2007


Bidier M-, Michailoff S. (1980) “Guide pratique d’analyse de projets” Parigi, Economica

Bezzi C.: & Alia (2006) “Valutazione in azione: lezioni apprese da casi concreti” Milano, F.Angeli


Boeri T. (1990) “Beyond the Rule of the Thumb . Methods for Evaluating Public Investiment Projects” Oxford, Westview Press

Bussery A. (1973) “Methods of Project Appraisal in Developing Countries”, Parigi OECD

Bussery A., Chartois B. (1975-82) “Analyse et évaluation des projets d’investissement” Washington D.C. Economic Development Institute

Centro Studi e Piani Economici (1987) “Una metodologia di valutazione dei programmi FAI” Roma

Chervel M. (1995) “L’évaluation économique des projets” Parigi, Publisud

Dasgupta P, Marglin S, Sen A. (1972) “Guidelines of project evaluation” Vienna, Unido

Drèze J, Stern N. “Cost Benefit Analisis”, “Handbook of Public Economics” Amsterdam, Elsevier 1987.

Dixit A.K., Pindyck R.S. “Investment under Uncertainty” Princeton, Princeton University Press

European Commission (1999) “Evaluating Socio-Economic Programmes- MEANS Collection” Luxemburg, Office for Official Publications of the European Communities

Fanciullacci D., Guelfi C. Pennisi G (1991) “Valutare lo sviluppo” Milano, F. Angeli

Fao (1988) “Rapport du programme de coopération Fao-Fida Centre d’Investissement- République de Côte d’Ivoire- Rapport de mission d’identifcation générale Roma

Florio M. (1991) “La valutazione economica dell’investimento pubblico “ Bologna, Il Mulino

Fossati A. (1991) “Equilibrio generale e simulazioni. Aspetti teorici ed applicazioni al caso Italia: Iva, Irpef, oneri sociali” Milano, F. Angeli.

Hahn R.W. , Tetlock P. C. (2008) “ Has Economic Analysis Improved Regulatory Decisions?“, The Journal of Economic Perspectives Wnter

Hansen J. (1978) “A Guide to Practical Project Appraisal” Vienna, Unido

King B (1982) “Wha is a Sam? A Layman’s Guide to Social Accounting Matrixes” Washingt D.C. The World Bank.

Little I.M.D., Mirrlees J (1974) “Project appraisal and planning for developing countries” Londra Heinemann

Marrama (1958) “Saggio sullo sviluppo economico dei Paesi arretrati” , Torino, Einaudi

Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica (1985) “Tecniche di valutazione degli investimenti pubblici” Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato.

Ministero dell’Industria (1988) “Relazione della Commissione Ministeriale sulla possibilità tecnica e sulla convenienza economica della conversione della centrale nucleare di Montalto di Castro” Roma

Moussa P. (1960) “L’économie de la zone franc” Parigi, Presse Universitarie de France

Myrdal G. (1962) “Teoria economica e Paesi sottosviluppati” Milano, Feltrinelli

Nuti F. (1987) “L’analisi costi benefici” Bologna, Il Mulino

Parmentola N. (1991) “Programmazione e valutazione dei progetti pubblici” Bologna, Il Mulino

Pennisi G. (1966) “L’associazione Cee-Sama: un esame critico” Como, Cairoli

Pennisi G. (1967)“L’Europa e il Sud del mondo” Bologna, Il Mulino 1967

Pennisi G. (1969) “L’argomento dell’industria nascente: un tentativo di riformulazione”, Rivista di Politica Economica Giugno

Pennisi G. (1987) “Strutturalismo economico”, MondOperaio gennaio.

Pennisi G. (1988 a) “I conti di Montalto”, MonOperaio maggio

Pennisi G. (1988 b) “Cost Benefit Analysis: Credibility and Feasibility- A Comment” Economia delle Scelte Pubbliche n. 2

Pennisi G. (1989) “Economic Appraisal of Enviroment-Related Projects. Many Certainties and a Few Uncertainties” Economia delle Scelte Pubbliche N.1 / 2

Pennisi G. (1991) “Economic Planning fo Vocational Training in a Decentralized Setting” Torino, ILO

Pennisi G. , Peterlini E. (1987) “Spesa pubblica e bisogno di inefficienza” Bologna, Il Mulino

Pennisi G., Scanni G. (1991) “Debito, crisi e sviluppo” Venezia, Marsilio

Pennisi G. (a cura di) (2005) “Le nuove frontiere dell’analisi costi benefici” Rassegna Italiana di Valutazione” n. 32

Pennisi G.(2006) “Analyse économique de la formation en gestion publique- Approche basé sur les options réelle”, Revue Internationale des Sciences Administratives- Octobre

Pennisi G., Scandizzo P.L (2003) “Valutare l’incertezza- L’analisi costi benefici nel XXI secolo” Torino, Giappichelli

Pennisi G., Scandizzo P.L. (2006) “Economic Evaluation in an Age of Uncertainty”, Evaluation , January 2006.

Perroux F. (1962) “L’économie des jeunes Nations”. Parigi, Presse Universitaire de France

Petriccione A., Piccioni L. (1976) “La programmazione matematica nella progettazione di grandi sistemi di opere: il caso del sistema idrico della Basilicata£ Milano, F. Angeli.

Pouliquen L. (1975) “Risk analysis in project appraisal” Washington D.C., the World Bank

Prebish R. (1951) “Theoretical and practical problems of growth” New York, United Nations

Ray A. (1984) “Cost Benefit Analysis- Issues and Methologies” Baltimora, Johns Hopkins University Press

Ravallion M. (2008) "Evaluation in the Practice of Development" World Bank Policy Research Working Paper No. 4547

Riviln A. (1991) “Distingished Lecture on Economics in Government: Strenghtening the Economy by Rithinking the Role of Federal and State Governments”, Journal of Economic Perspective, Spring

Simon I (1967) “Il comportamento amministrativo” Il Mulino, Bologna

Smit H.T.J (2003) “Infrastructure Investment as a Real Options Game: The Case of European Airport Expansion” Financial Management, Winter

Solustri A. (2002) “Cronache di Italconsult S.p.a.: Cinquant’anni d’ingegno e di ingegneria” Roma, Palombi Editore.

Sudgen H, William A. (1978) “The Principles of Practical Cost Benefit Analysis” Londra, Oxford University Press

Thias H, Carnoy M: (1972) “Cost Benefit Analysis in Education: a Case Study of Kenya” Baltimore, Johns Hopkins University Press