Domani due aprile, si tiene a Londra il secondo appuntamento del G20 dei Capi di Stato e di Governo da quando la crisi finanziaria ed economica internazionale è al centro delle loro preoccupazioni. Da alcuni giorni, gran parte della stampa quotidiana (non solamente le testate a caratura economica e finanziaria) riassumono le bozze dei vari documenti predisposti dai gruppi di lavoro istituiti dalla sessione precedente del consesso – quella tenuta a Washington a metà novembre. Il nostro “orientamento quotidiano” li chioserà quando si saprà quanto i “grandi” avranno recepito dalle proposte presentate (in vario stadio di articolazione) dai gruppi di lavoro.
In questa puntata del “diario”, ci preme mettere l’accento invece su come l’Italia giunge a Londra. E’ importante fare un passo indietro; a quando, nell’autunno 1992 (Governo Amato) e nella primavera 1995 (Governo Dini) i mercati internazionali dimostrarono di non considerare il nostro Paese affidabile; nel 1992 si dovette svalutare ben del 30% , nella primavera del 1995 la lira (da poco svalutata) subì un ulteriore deprezzamento. I due episodi provocarono una serie di riforme di cui la più importante fu quella delle pensioni dell’aprile 1995. Eravamo giudicati come un Paese non in grado di mantenere i propri impegni, con una struttura produttiva familiar-lippuzziana, con servizi finanziari (banche in primo luogo) ancora in via di sviluppo, con una propensione congenita all’inflazione (ed alle svalutazioni competitive per tentare di restare , almeno temporaneamente, a galla con l’export- da sempre elemento trainante). Nel “sottostante” politico, c’erano governi di breve durata, caratterialmente rissosi, strutturalmente instabili in quanto composti da coalizioni spesso raccogliticce, dominati da una miriade di corporazioni in grado di bloccare qualsiasi processo decisionale.
Non che i nodi strutturali dell’Italia siano stati risolti, ma oggi il Paese si presenta al G20 come uno dei pochi che sta meglio resistendo alla crisi e dalla cui politica economica si possono trarre lezioni utili anche per gli altri soci del club. In un’Italia intrisa di quella “malinconia mediterranea” – che Giovanni Spadolini chiavama, più eloquentemente, “piagnistei”, pochi si soffermano su questi punti di forza.
Esaminiamo alcuni dati estrapolandoli sia da uno studio, ancora inedito di Marco Fortis della Fondazione Edison (“The World Financial Crisis and Italy”) sia dalle elaborazione dei 20 principali istituti econometrici internazionali (tutti privati, nessuno italiano) – statistiche, quindi, che non possono essere tacciate di essere “di parte”. Che non si siano risolti tutti i problemi di fondo dell’economia italiana è detto , chiaro e forte, dal “Fragility Index” della Royal Bank of Scotland (un istituto che di fragilità se ne dovrebbe intendere): nell’area dell’euro, il nostro settore dei servizi finanziari è più fragile di quelli di Francia, Germania e Finlandia, ma molto più forte di quelli d’Irlanda, Portogallo, Spagna, Paesi Bassi, Austria, Belgio e Grecia e molto più solido di quelli di Gran Bretagna e Stati Uniti.
Nonostante la relativa fragilità dei servizi finanziari (un freno all’espansione ed all’ammodernamento delle nostre imprese), nel manifatturiero siamo, secondo l’Eurostat, i quarti al mondo (dopo Cina, Germania e Giappone) in termini di export di metalmeccanica, attrezzature per i trasporti, chimica ed altre merci industriali. Restiamo anche a tenere abbastanza bene in campi (tessili, mobili, ecc.) dove la concorrenza da Paesi a bassi salari ed a bassa tutela sociale è molto agguerrita. Ciò ci distingue rispetto a molti Paesi , soprattutto europei (Gran Bretagna innanzitutto) che negli Anni 80 e 90 hanno seguito una strategia di de-industrializzazione a favore dell’espansione dei servizi finanziari e commerciali. In questi mesi, sull’onda della crisi, una squadra di economisti inglesi sta studiando come i nostri “distretti industriali” (un’invenzione di Alfred Marshall, abbandonata nel Paese d’origine) stanno adattando i loro comportamenti alle esigenze derivanti dalla crisi.
Quella che è stata a lungo ritenuta una determinante di debolezza, appare ora come un elemento di forza: abbiamo un’imprenditoria diffusa (515 imprese nel manifatturiero , 270 nell’alberghiero e nella ristorazione) – il doppio, sempre secondo Eurostat, rispetto al n. 2 in Europa (la Francia) , il quadruplo rispetto al Regno Unito. Ciò ci dà una forte dose di flessibilità: ad un impresa che muore sotto i colpi della crisi ne corrisponde un’altra che nasce. Le nostre “piccole” casse di risparmio, banche popolari e banche di credito cooperativo si stanno mostrando particolarmente efficaci nel superare, a livello locale, la “credit crunch”.
Dagli indicatori micro-economici passiamo a quelli macro-economici. La crisi è indubbiamente dura: il “consensus” prevede una contrazione del 2,9% del pil nell’anno in corso (ancora peggiori le stime di Confindustria). Giunge , però, in un Paese maturo, a popolazione anziana che nonostante questi vincoli ha avuto una crescita complessiva del pil del 20% (un quinto) negli ultimi tre lustri, in cui l’83% delle famiglie abitano in una casa di loro proprietà, il cui tasso di risparmio è relativamente elevato (il 16% circa del reddito disponibile, in contrazione rispetto al 20% degli Anni 80, ma tra i più alti al mondo in una società a struttura demografica come la nostra) ed il cui tasso di disoccupazione (pur se ora sfiora il 7% della forza lavoro) è inferiore all’8,2% della media dell’area dell’euro.
Da questi dati, emerge una conclusione: non solo al G20 possiamo parlare a testa alta ma fornire indicazioni sulla base della versione italiana dell’economia sociale di mercato – che ha saputo coniugare flessibilità con attenzione ad esigenze socialmente strategiche. C’è ancora molto da fare. Ed il nostro “orientamento quotidiano” non mancherà di pungolare nella direzione che riteniamo appropriata. A Londra, però, all’”high tea”, abbiamo elementi per farci ascoltare.
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