giovedì 5 marzo 2009

ECCO PERCHE’ E’ TEMPO DI RIFORME in FFWebmagazine del 5 marzo

In questi giorni, mentre infuria la crisi finanziaria (che, secondo gli esperti, non è ancora giunta al proprio punto di svolta inferiore – ossia al momento in cui , toccato il fondo, si ricomincerà a risalire la china), il Governo ha iniziato una serie di importanti riforme che spaziano dalla pubblica amministrazione alla revisione degli ammortizzatori sociali, dalle modifiche dalla finanza di progetto per la realizzazione delle infrastrutture all’adeguamento alla normativa europea dell’età per le pensioni di vecchiaia per i lavoratori di genere femminile. Non è questa la sede per entrare nel merito di ciascuna riforma – anche in quanto sono in differenti stadi di formulazione e realizzazione (da provvedimenti già approvati dal Legislativo a proposte iniziali ancora in prima fase di considerazione da parte degli stessi uffici tecnici dell’Esecutivo). Ciò che va, però, posto è se in un contesto come l’attuale si è nelle condizioni di fare riforme.
Un testo di culto della sinistra riformista – “Come fare passare le riforme” di Albert Hirschmann (scritto negli Anni 60 ma pubblicato in italiano da Il Mulino soltanto nel 1990)- sostiene che le riforme necessitano anni di vacche grasse in quanto i riformatori devono disporre di risorse con cui compensare le categorie danneggiate (anche quando il danno altro non è che una perdita di privilegi). Una tesi in parte analoga viene sostenuta nel saggio “Come riformare i riformatori- Cosmopolitismo e responsabilità internazionale” di Marco Patriarca, appena pubblicato dall’editore Guida.
In Italia, inoltre, la bassa crescita economica a e le severe restrizioni finanziarie sono state addotte (dai Governi dell’epoca, variegate coalizioni di centro – sinistra od anche di sinistra- centro) dalla primavera 1996 a quella 2001 e dalla primavera 2006 a quella-2008 come ragioni per posporre riforme o fare marcia indietro su alcune di quelle varate in precedenza (il caso più chiaro è la previdenza). Con la crisi finanziaria che s’inasprisce e la stagnazione che diventa recessione siamo in una situazione analoga?
Nel lontano 1991, in un libro a quattro mani con Giuseppe Scanni “Debito, crisi, sviluppo”, Marsilio) venne dimostrato che in numerosi Paesi la crisi del debito estero dell’ultima fase degli Anni 80 sia stata stata la molla per riforme, spesso coraggiose , quasi sempre predisposte da anni; documentammo anche che tali riforme avevano successo se erano “socialmente compatibili”. A conclusioni analoghe giungono Alberto Alesina, Silvia Ardagna e Francesco Trebbi in un saggio pubblicato alcuni anni fa (il Nber working paper No. 12049) ma probabilmente letto unicamente nel mondo accademico. Ha avuto invece una notevole eco un libro di Paul Pierson (Dismantling the Welfare State? Reagan, Thatcher and the Years of Retrenchment”, Cambridge University Press); anche se pubblicato nel 1994, ha avuto un paio di ristampe (ma non è mai stato tradotto in italiano). Esamina il gradualismo astuto con cui Ronal Reagan e Margaret Thatcher hanno riformato lo stato sociale; ad esempio, in Gran Bretagna sono state utilizzate 14 leggine (spesso tramite emendamenti oscuri preparati da legulei barracuda- esperti) per smantellare le rigidità, spesso senza che neanche i sindacati ed i media se ne accorgessero.
Tra il settembre 1992 ed il marzo 1993, a fronte di una crisi tale da comportare il deprezzamento del 30% della lira, il Governo Amato attuò un programma di riforme drastiche (previdenza, mercato del lavoro, pubblico impiego). Analogamente, nella primavera 1995, quando la lira traballava e si temeva per l’ingresso dell’Italia nell’euro, il Governo Dini riuscì a fare salpare la riforma della previdenza in cantiere sin dal 1978 (“Commissione Castellino). Ancora, le riforme del mercato del lavoro, degli incentivi industriali, del bilancio dello stato e l’inizio di quelle della scuola ed università sono state varate (dal Governo e dalla maggioranza parlamentare di centro destra) negli “anni difficili” che hanno fatto seguito all’11 settembre 2001.
Come spiegare le differenze tra la tesi di Hirschmann (che ha senza dubbio un forte fascino intuitivo) e gli esempi che si sono citati? E soprattutto quali insegnamenti si posso trarre per definire i criteri delle riforme “da fare passare” in momenti di crisi e di quelle da mettere in cantiere (ed in atto) in “anni di vacche grasse”?
Un insegnamento utile viene da alcuni recenti sviluppi della teoria economica, in particolare dal “dismal theorem” (“Il teorema della tristezza”) formulato non molto tempo fa da Martin Weitzam e di recente chiarito da William Nordhaus (Cowles Foundation Discussion Paper n. 1686). Secondo tale teorema (non è il caso di presentarne in questa sede la formulazione formale-matematica” ), in una fase d’incertezza come l’attuale la teoria economica convenzionale non può essere applicata; per le decisioni di individui, famiglie ed imprese prevalgono (su tutti gli altri) gli orpelli che danno certezze. Ciò implica che riforme a lungo dibattute possono , se realizzate, ridurre incertezza. Il secondo punto è che le riforme che coniugano efficienza con equità sono quelle che meglio possono essere attuate in una fase di crisi.
Quindi, è appropriato che Governo e Parlamento diventino motore delle riforme, specialmente di quelle “socialmente compatibili”. Ad esempio, tornare allo spirito iniziale del riassetto della previdenza (senza rimettere in ballo l’intero sistema), utilizzando eventuali risparmi per ammortizzatori sociali per i più deboli. Oppure, attuare a pieno la modernizzazione della Pa per renderla più efficiente e più efficace. Oppure ancora, riesaminare, una volta per tutte, contabilità speciali e fuori bilancio (spesso fonte di privilegi corporativi) e, se del caso, chiuderle. Oppure ancora, rompere con il “contratto unico” le barriere tra i precari e gli altri. Interessante notare che, proprio in questi giorni, negli Usa un gruppo di economisti della George Mason University hanno formulato idee riformatrici analoghe in polemica con il piano proposto dell’Amministrazione Obama. Il secondo rischia di creare incertezza aggiuntiva (oltre che un’ondata d’inflazione) mentre riforme mirate a rafforzare incentivi a famiglie, imprese e pubbliche amministrazioni “potrebbe aiutare a risolvere i nodi dell’economia molto più di quanto oggi si delinea a Washington”

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