Il federalismo fiscale è in direzione d’arrivo. Il testo licenziato dalla Camera è stato apprezzato anche da un Centro studi vicino all’opposizione, il gruppo Astrid presieduto da Franco Bassanini. Nel suo commento (www.astrid-online.it/il-sistema1/indez-htlm), ha documentato come l’articolo 119 contenga un’importante clausola di salvaguardia: Regioni ed enti locali devono avere risorse sufficienti al finanziamento delle loro funzioni, ma sotto forma di tributi propri e di compartecipazione al gettito erariale (integrate dal fondo perequativo del fondo per i territori con minore capacità tributaria). Inoltre, i livelli ed i costi standard saranno congegnati in modo di premiare i soggetti la cui gestione è più efficiente. A questi antidoti al rischio, per così dire, di “sbracamento” delle politiche di bilancio se ne devono aggiungere altri non citati nel lavoro di Astrid.
La giustificazione più cogente è stata proposta, nel lontano 1997, da Yingyi Qian e Barry Weingast nel saggio “Federalism as commitment to preserving market incentives” (“Il federalismo in quanto impegno a mantenere gli incentivi di mercato”) nel “Journal of Economic PerpectiveS”. Il vero federalismo costringe a mantenere gli incentivi di mercato anche a chi ciò non vuole. Come dimostrano le analisi empiriche che hanno meritato il Premio Nobel a Robert Fogel, è stato la molla dello sviluppo degli States del Sud degli Stati Uniti, devastati dalla guerra di secessione della metà dell’Ottocento. Quale che sia il modello specifico, il federalismo deve essere, al tempo stesso, politico, economico e burocratico. Il federalismo politico richiede che le decisione vengano prese a livello locale in gran parte delle materie che toccano la vita dei cittadini; devono ovviamente essere anche controllate con il voto popolare a livello locale. Non è necessario concentrare la funzione decisionale in solo livello; di solito ce ne sono numerosi (ad esempio, nel federalismo Usa, lo Stato dell’Unione, la Contea ed il Municipio). E’ essenziale, però, che ci sia chiarezza su quale livello è responsabile di cosa; senza tale chiarezza, non è possibile esercitare alcun controllo democratico
. Gli effetti della prima legislatura “devoluta” britannica, a cui s’ispira il modello che si sta iniziando ad attuare in Italia è stato condotto da Mahmoud Ezzamel (Cardiff Business School), Noel Hyndham (Queen’s University di Belfast), Irvine Lapsey e Aage Johnsen (ambedue dell’Università d’Edimburgo) e June Pallott (University of Canterbury) e pubblicato alcuni anni fà nella rivista di “Public Money & Management” Si concentra su un tema, a metà strada tra economia e politica: in che misura la “devoluzione” ha aumentato la “democratic accountability” (ossia la responsabilizzazione di politici e burocrati nei confronti degli elettori). La devoluzione ha innescato maggiore “apertura”, “trasparenza”, “consultazioni” e “verifica” specialmente per quanto riguarda finanza e politiche pubbliche; ha anche messo in moto un “information overload”, un “sovraccarico da informazioni”. Di conseguenza, chi fa politica dipende oggi più di ieri da “tecnici, consiglieri parlamentari e consulenti in generale che sappiano filtrare l’informazione”. Decide, però, in base ad analisi più ricche.
Il federalismo fiscale non implica solamente di dividere le fonti di gettito tributario tra centro e periferie (Regioni, Province, Comuni) ma di definire il “nucleo duro” di competenze economiche essenziali da mantenere al centro e di “devolvere” il resto alle periferie. Non si può avere federalismo economico e pretendere “uniformità” di servizi ai cittadini su tutto il territorio nazionale. Tale “uniformità” impedirebbe le scelte delle periferie su priorità e livelli di tassazione; quindi, renderebbe o impossibile o finto il federalismo politico. Lo sottolinea efficacemente Learco Saporito che ha vissuto il processo che sta portando al federalismo fiscale in tre vesti differenti: da componente del Governo, da legislatore e da studioso di diritto. Il suo libro, rigorosamente giuridico, dimostra come dal 2001 (nuovo Titolo V della Costituzione) siamo in mezzo ad un guado: lasciando la sponda napoleonica (ove pensassimo forse adatta al 21simo secolo) ci siamo dati mani e piedi, al federalismo burocratico senza avere definito il federalismo politico e quello fiscale. Non possiamo neanche più permetterci la scappatoia, molto mediterranea, di un federalismo finto. Lo afferma anche il volume della Fondazione ItalianiEuropei, uscito proprio all’inizio di gennaio. Ci auguriamo che Saporito produca una nuova edizione alla luce della nuova normativa
Il federalismo burocratico è quello degli uffici: ci devono essere burocrazie che rispondano ai responsabili del federalismo politico ed economico ed in ultima istanza agli elettori. Purtroppo in Italia, la riforma del 2001 è stata un vero e proprio monumento a quel federalismo burocratico che, come indicato da Hongbin Cai e Daniel Treisman (ambedue della Università della California a Los Angeles, quindi molto distanti dalle nostre beghe) in un saggio di alcuni anni fa corrode istituzioni ed economia se non è nell’ambito di un ben articolato federalismo politico ed economico.
Per saperne di più
G. Amato e M. D’Alema (a cura di) “Il Federalismo”. Italianieuropei
Blume L. , Voigt S. "Federalism and Decentralization - A Critical Survey of Frequently Used Indicators" CESIfo
L. Saporito “Regionalismo, Federalismo e Interesse Nazionale” Jovene Editore
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