La messa in scena di “Alcina” di Georg F. Händel alla Scala (dal 10 al 27 marzo) è evento importante sia perché delle 40 opera e dei 30 oratori del sassone per la scena si tratta di lavoro mai rappresentato in forma scenica nel nostro Paese – ed in effetti praticamente ignoto (nonostante cinque esecuzioni in forma di concerto alla Scala nel 1985) sino ad uno strepitoso allestimento al Printzregentheater di Monaco nel 2005- sia poiché il barocco non è tra i generi preferiti dal maggior teatro d’opera milanese. La produzione viene dall’Opéra di Parigi; la regia è firmata di Robert Carsen; le scene ed i costumi da Tobias Hoheisel ; la direzione musicale da Giovanni Antonimi; il cast (Anja Harteros , Monica Bacelli, Kristina Hammarström, Patricia Petibon, Jeremy Ovenden, Alastair Miles) è in gran misura quello parigino. La messa in scena è, senza dubbio, la celebrazione della Scala per i 250 anni dalla morte di Händel. Tuttavia, più che della ricorrenza, e di altri composizioni händeliane in Italia in questo anno 2009, è importante soffermarsi su un tema già accennato sul “Dom” circa un anno e mezzo fa (in occasione della messa in scena, a Rimini, dell’oratorio profano “Il trionfo del tempo e del disinganno”): come mai Händel, autore di complicate macchine barocche oltre due secoli e mezzo fa, piace tanto al pubblico giovane?
La domanda sorse non tanto in seno alla britannica Händel Society, dove ogni anno si organizza un festival sempre più affollato da pubblico trentenne, o a Washington, dove periodicamente il Kennedy Center esegue, in versione da concerto, opere e oratori del sassone, quanto a Zurigo proprio in occasione della produzione (in scene e costumi moderni) “Il trionfo del tempo e del disinganno”, una scelta fatta per ragioni di budget (solamente 4 personaggi). Concepito come un’allegoria morale nella Roma settecentesca per essere eseguita al termine di banchetti cardinalizi, il lavoro veniva letto come una storia di single e di coppie tale da toccare particolarmente le corde delle giovani generazioni di oggi.
“Alcina” è molto differente da “Il trionfo del tempo e del disinganno”. Composta nel 1735 completa la triologia ariosteca di Händel (con le precedenti “Orlando” ed “Ariodante”, tratte anch’esse dall’”Orlando Furioso”). Ha un intreccio complesso di magie, tradimenti, battaglie, cacce, con l’inserimento di balletti. Venne modulata su un cast vocale eccezionale – in primo luogo il castrato Giovanni Carestini per il ruolo del protagonista Ruggiero. Era destinata al Covent Garden, aperto solo tre anni prima ed attrezzato con le più moderne macchine sceniche dell’epoca. Cosa può interessare ai giovani di oggi un intrigo di imbrogli tra cavalieri, fattucchiere e mori sulla via della prima crociata? Probabilmente l’intreccio (nonostante l’apprezzabile libretto di Antonio Fanzaglia) interessava poco allo stesso Händel, il quale del resto non intendeva scrivere musica d’accompagnamento ad un “colossal” spettacolare. La versione scenica di Parigi (come d’altronde quella del 2005 a Monaco) fa piazza pulita di castelli, foreste, montagne e paladini. In Baviera, la vicenda veniva portata dal regista Christof Loy, alla prima metà del Settecento. Robert Carsen la trasferisce ai giorni d’oggi. Priva di orpelli, quindi, tratta di intrecci e scambi di coppie, d’incerti orientamenti sessuali (una delle protagoniste travestita da uomo per meglio correre alla ricerca del finanza rischia di essere sedotta dalla Fata Morgana), ed anche –perché no? – del successo del bene (inteso come schiettezza e trasparenza) sul male (visto come doppiezza). Jűrgen Schlädler, esperto tedesco di teatro in musica, sostiene che ciò che conta non è la fiabesca struttura ariostesca quanto “il messaggio sotto la cute che il gioco psicologicoi dei protagonisti trasmette” (al pubblico- n.d.r). E’ questa “vita interiore”, sempre secondo Schlädler che attira il pubblico odierno, specialmente quello giovane, ad un barocco la cui fine era stata decretata più di 200 anni fa. Si erano sbagliati.
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