Teatro / All’Opera di Roma una “Iphigenie” senza vele
Roma, 18 mar (Velino) - Il “nuovo allestimento” di “Iphigénie en Aulide” di Christoph Willibad Gluck, in scena a Roma da ieri fino al 29 marzo (rifacimento di quello con regia, scene e costumi di Yannis Kokkos presentato al Teatro degli Arcimboldi circa sette anni fa e andato distrutto a ragione della mancanza di spazio nei magazzini della Scala), è l’evento principale offerto questa primavera da un Teatro dell’Opera dove l’aria si taglia a fette. Dopo dieci anni di risanamento, infatti, incombe il deficit causato dalla riduzione del finanziamento pubblico; si vocifera il commissariamento e spuntano candidati a go-go per le varie cariche della fondazione. Questa edizione di “Iphigénie”, opera che non si eseguiva a Roma dal 1955 quando era stata presentata in italiano e adattata ai gusti musicali dell’epoca, segue in gran misura le modifiche apportata da Richard Wagner quando, giovane direttore musicale del Teatro della capitale della Sassonia, la presentò a Dresda nel 1847 a circa 70 anni dal debutto all’Académie Royale de Musique di Parigi. La direzione musicale è curata da Riccardo Muti, per la seconda volta alla guida dei complessi dell’Opera di Roma. Il cast è giovane e in larga misura proveniente dai paesi dell’Europa centrale e orientale: Krassimira Stoyanova è la protagonista, Ekaterina Gubanova sua madre Clitennestra, Alexey Tikhomirov è Agamennone, Avi Klemberg veste i panni di Achille e Riccardo Zanellato ricopre il ruolo del grande sacerdote Calcante. Numerosi i ruoli secondari.
“Iphigénie en Aulide”, nonostante le sue rare esecuzioni in Italia, ha un ruolo molto importante nella storia del teatro in musica. L’allora sessantenne Gluck vi incorporò per il pubblico parigino, che allora aveva la leadership in Europa e, dunque, nel mondo, le proprie idee d’organizzazione che pochi anni prima (nel 1766-67) aveva presentato a Vienna in “Alceste” il cui testo e la cui partitura erano stati corredati da una prefazione che esprimeva una vera e propria poetica. Con “Alceste”, prima e le due “Iphigénie” poi (a quella “en Aulide” fece seguito, dopo alcuni anni, l’“Iphigénie en Tauride”, anche essa tratta dal mito greco trattato da Euripide) Gluck prese nettamente le distanze sia dall’”opera seria” italiana metastasiana, che a Vienna aveva un partito guidato da Salieri, sia dall’opera italiana pergolesiana, che a Parigi aveva trovato un sostenitore accanito in J. J. Rousseau, sia dalla “tragédie-opéra” francese di cui il maggior esponente era l’ottantenne J. Ph. Rameau. Proponeva una “tragédie mise en musique”, tratta da Racine, in cui una struttura drammatica e musicale tersa non lasciava spazio a inutili abbellimenti (fioriture canore, vocalizzi, balletti unicamente decorativi), in modo da andare all’essenziale scavando nella psicologia dei personaggi. Proprio come nella tragedia greca, e raciniana, a cui si ispira. La musica non era un contrappunto della voce: parole e orchestra si integravano in un sinfonismo continuo e , si direbbe con il lessico d’oggi, in una struttura “verticale”. Queste caratteristiche appassionarono il giovane Wagner.
Presentata il 19 aprile 1774 all’Académie Royale de Musique, ebbe un successo vasto ma controverso. Maria Antonietta, delfina di Francia, scrisse in una lettera entusiasta alla sorella Maria Cristina Joseph: “Ne fui rapita e ormai non si parla d’altro…..Tutte le teste sono in ebollizione. A corte vi sono parteggiamenti, in città la diatriba sembra ancora maggiore”. Questa premessa è essenziale per cogliere lo spirito di “Iphigénie” e valutare lo spettacolo. La trama è nota: la “tragédie mise en musique” è imperniata sul dramma di Agamennone, e non solo, costretto dagli Dei a sacrificare la figlia Ifigenia, fidanzata con Achille, perché i venti siano favorevoli a fare salpare la flotta greca alla volta di Troia. La giovane è disposta al sacrificio e ciò induce Diana ad avere pietà di lei e a portarla con sé in terra lontana. Una “tragedia”, quindi, simile a quella, biblica, di Abramo e Isacco ed in cui le vele delle navi e i venti hanno un forte valore simbolico. Una “tragedia”, poi, in cui al dramma interiore si giustappone un’azione scenica intensa (dai tormenti di Agamennone, ai preparativi delle nozze tra la protagonista ed Achille, al tentativo del giovane di organizzare “i suoi” per impedire il sacrificio della fidanzata ed attaccare il re ed i sacerdoti nel tempio). La lettura di Kokkos, però, non ha né il mare né le vele. La stessa azione è ridotta al minimo, anzi nel travolgente duetto d’amore al termine del primo atto i due giovani neanche si sfiorano. In breve siamo a metà strada tra l’“oratorio” e la “tragédie lyrique” del primo Ottocento. Distanti dalla “tragédie mise en musique”, dove, secondo i precetti dell’abate Casti, le parole vengono prima della musica. Ciò è accentuato da un cast dove solo uno dei protagonisti è francese e la dizione fa generalmente difetto.
Nettamente migliori gli aspetti musicali. Muti regali una “tragédie” tersa e tesa in cui orchestra e voci scavano negli anfratti psicologici dei protagonisti. Ottima la resa orchestrale, tutti di grande livello e con statura da solisti (si pensi all’oboe nell’aria di Clitennestra nel secondo atto). Magnifico il coro da annoverare tra i protagonisti della “tragédie mise en musique”. Ottimi quattro dei cinque protagonisti: Krassimira Stoyanova, giovane soprano lirico purissimo, dal timbro chiarissimo, dalla emissione perfetta e dal controllo saldo nelle arie più impervie e di più lunga durata; Ekaterina Gubanova, mezzosoprano struggente nel secondo atto; Alexey Tikhomirov, baritono agile e morbido con grandi qualità d’interpretazione drammatica; Riccardo Zanellato, un Calcante cesellato. Deludente alla “prima”, invece, il francese Avi Klemberg che pur alcuni mesi fa ha trionfato nello stesso ruolo di Achille, all’Opéra du Rhin: il registro non era abbastanza alto e il volume scarseggiava. Probabile che il problema dipenda dalla maggiore vastità del Teatro di Roma rispetto a quello di Strasburgo.
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