venerdì 13 marzo 2009

NON BASTA UN’”ALCINA” PER RICORDARE HÄNDEL, Il Velino 13 marzo

NON BASTA UN’”ALCINA” PER RICORDARE HÄNDEL


Le fortune di Georg F. Händel, di cui ricorrono i 250 anni dalla morte, sono state relativamente scarse. Sia in vita sia da morto. Poche delle sue 40 opere e 30 oratori vennero rappresentati nel nostro Paese quando era in vita; una sola in un teatro commerciale (nonostante che il Settecento fosse uno dei momenti d’oro dei teatri in musica a fini di lucro). Solo il Maggio fiorentino del 1940 (manifestazione deputata alle riscoperte) si ricordò del sassone e mise in scena “Aci e Galetea”, opera pastorale a basso costo in quanto richiede pochi interpreti ed uno scarno organico orchestrale. Mentre a Londra la Händel Society metteva in scena od eseguiva in forma di concerto quasi l’intera opera omnia e negli Anni Settanta nella pur provinciale Washington c’era ogni anno un Händel Festival con tre-quattro titoli di opera – non parliamo della Germania e dell’Europa centrale - , in Italia una vera e propria Händel Renaissance non si ebbe che negli Anni Ottanta- e per di più limitata a pochi titoli (principalmente “Giulio Cesare in Egitto”) e grazie agli sforzi di un numero limitato di Teatri (principalmente La Fenice di Venezia, il Festival di Spoleto e la Sagra Musicale Umbra). Un gruppo di cultori (per lo più britannici) si riuniva ogni estate al Chiostro di Santa Croce a Batignano in Toscana – rappresentazioni importanti ma per poco pubblico ed a carattere semi-dilettantesco. Inoltre, sino a tempi recenti, Händel operistico veniva “adattato”: venuti a mancare i castrati, molti ruoli maschili venivano abbassati di un paio di ottave per affidarli a baritono (oppure consegnati a mezzo-soprani od a soprani lirici), i “da capo” delle arie venivano tagliati, molti passaggi eliminati ed interi personaggi (dalla vocalità troppo ardua) fatti sparire. Si tentava, spesso, di scimmiottare le macchine barocche: ho due esempi di successo (un “Orlando” a La Fenice ed un “Tamerlano” a La Pergola), unitamente a grandiosi fallimenti (quale l’edizione roconianiana, a Bologna e non solo, di “Giulio Cesare”.

Si è tardato a comprendere quanto ribadisce da anni Jűrgen Schlädler, esperto tedesco di teatro in musica. Nelle opere di Händel ciò che conta non è la struttura fiabesca fatta di castelli incantati, di fontane meravigliose, destrieri alati, quanto “il messaggio sotto la cute che il gioco psicologico dei protagonisti trasmette” al pubblico. Era un messaggio sentimentale e sensuale (ma mai erotico, neanche in “Semele” che di eros poteva dare molteplici pretesti) in cui si riconosceva il pubblico della pudibonda Gran Bretagna del Settecento. Una “vita interiore” che attira il pubblico odierno, specialmente quello giovanespecialmente quello giovane, ad un barocco la cui fine era stata decretata più di 200 anni fa. Una prova si ha dal successo strepitoso che da oltre un lustro ha, a Zurigo, “Il Trionfo del Tempo sul Disinganno”, inizialmente concepita come un oratorio a quattro voci per un dopo-cena cardinalizio ma rappresentata come una meravigliosa commedia per giovani adulti di seduzioni e corteggiamenti senza mai scendere nell’erotico. Händel non è Cavalli che nella proibizionista Venezia della Controriforma metteva a nudo quando sesso ci fosse tra le calli ed i campielli. Questa lunga premessa mi pare essenziale perché la messa in scena di “Alcina” alla Scala (sino al 27 marzo) è uno degli eventi di punta (in Italia) nelle celebrazioni per i 250 anni dalla morte di Händel; gli altri sono la prima rappresentazione in Italia di “Partenope” (Ferrara, Modena e Napoli) ed un nuovo allestimento de “Il Trionfo del Tempo sul Disinganno” al Maggio Fiorentino ed allo Sferisterio Festival di Macerata.
“Alcina” del 1735 è opera matura di Händel (nato del 1685) per il Covent Garden, appena costruito. Fa parte della trilogia dei lavori tratti da “L’Orlando Furioso” di Ariosto. “Alcina” è molto differente da “Il trionfo del tempo e del disinganno”. Composta nel 1735 completa la triologia ariosteca di Händel (con le precedenti “Orlando” ed “Ariodante”, tratte anch’esse dall’”Orlando Furioso”). Ha un intreccio complesso di magie, tradimenti, battaglie, cacce, con l’inserimento di balletti. Venne modulata su un cast vocale eccezionale – in primo luogo il castrato Giovanni Carestini per il ruolo del protagonista Ruggiero. Era destinata al Covent Garden, aperto solo tre anni prima ed attrezzato con le più moderne macchine sceniche dell’epoca. Cosa può interessare al pubblico d’oggi oggi un intrigo di imbrogli tra cavalieri, fattucchiere e mori sulla via della prima crociata? Probabilmente l’intreccio (nonostante l’apprezzabile libretto di Antonio Fanzaglia) interessava poco allo stesso Händel, il quale del resto non intendeva scrivere musica d’accompagnamento ad un “colossal” spettacolare. La “vita interiore” dei personaggi era il cuore della sua ispirazione.
La versione scenica di Parigi (come d’altronde quella del 2005 a Monaco) fa piazza pulita di castelli, foreste, montagne e paladini. In Baviera, la vicenda veniva portata dal regista Christof Loy, alla prima metà del Settecento. Robert Carsen la trasferisce ai giorni d’oggi. Priva di orpelli, quindi, tratta di scambi di coppie, d’incerti orientamenti sessuali (una delle protagoniste travestita da uomo per meglio correre alla ricerca del finanza rischia di essere sedotta dalla Fata Morgana), ed anche –perché no? – del successo del bene (inteso come schiettezza e trasparenza) sul male (visto come doppiezza).
Nell’allestimento scaligero – predisposto per la relativamente piccola sala del parigino Palais Ganier (dove è andato in scena nel 1999)- la vicenda si svolge né destrieri alati. Siamo in una villa – francese o britannica – ai giorni nostri (o meglio in un periodo imprecisato della seconda metà del Novencento: seguendo (con molte libertà) il poema di Ariosto, la maga Alcina è una divoratrice insaziabile di maschi di bello aspetto, trasforma in animali, pianti e pietre chi, di volta in volta, seduce. Non lo fa con Ruggiero in quanto sinceramente innamorata. La vicenda si complica perché la moglie di Ruggiero, Brandimante, vestita da uomo arriva in villa per riprendersi lo sposo; il travestimento è così efficace da attirare la Fata Morgana (complice e sodale di Alcina) verso quello che crede essere un bel ragazzo. Gli intrighi non mancano sino allo scioglimento finale: il pentimento di Alcina e la liberazione dei maschi-oggetto in suo potere. L’attualizzazione (regia di Robert Carsen, scene e costumi di Tobias Hoheisel) non è stata gradita da parte del pubblico della prima rappresentazione il 10 marzo. Ha però un significato: priva di orpelli mediovaleggianti, “Alcina” mette in risalto la “vita interiore” dei personaggi. Ci sono aspetti discutibili: Händel – lo ribadisco – non è erotico (come avrebbe potuto esserlo un sassone alla Corte di Re Giorgio e , per di più, compositore di musica sacra!). Quindi, inutile la pletora di nudi maschili ed in particolare la scene di Alcina a letto con tre maschioni senza indumenti: come avrebbero potuto (oltre tutto) fare sesso in una piazza e mezzo?
L’opera viene rappresentata in un’edizione che dovrebbe essere vicina all’originale. In effetti, scorciata di una buona mezz’ora (lo spettacolo dura comunque circa 4 ore) con la eliminazione del balletto e di un personaggio ( e l’intreccio secondario corrispondente). Non sono peccati veniali; basta un raffronto con il disco dell’edizione presentata a Monaco nel 2005 (pure con qualche taglio) per indicare come la resa sia drammaturgica sia musicale siano differenti. I personaggi risultato molto meno “scavati”.
. La direzione musicale è affidata a Giovanni Antonimi, animatore per lustri de “Il Giardino Armonico” ed esperto come pochi nel repertorio di Vivaldi. Trasferisce nel golfo mistico la raffinata eleganza del “prete rosso”, perdendo, quindi, parte del pathos “händeliano”).
I problemi principali sono le voci. Non perché non siano belle od educate ma perché la Scala non è né il Palais Garnier o né il Prinzregententheater di Monaco né la Opernhaus di Zurigo. In breve, è troppo grande e troppo afona per un repertorio in cui il virtuosismo vocale è essenziale – e che è stata concepito per teatri di piccole dimensioni. “La Piccola Scala” sarebbe stata ideale per questo tipo di spettacoli. In Italia, acusticamente parlando dovrebbero essere riservati al “Massimo Bellini” di Catania.
Pur se con qualche difficoltà nelle tonalità alte, Anja Harteros primeggia su tutti senza difficoltà: scolpisce il ritratto di donna focosa, ma innamorata e tradita. Monica Bacelli (il ruolo di Ruggiero era stato concepito per uno dei castrati più noti dell’epoca) ha una voce ben educata ma priva del volume necessario ed fisicamente è minuta accanto alla statuesca Harteros: scenicamente difficile capire come la mangiatrice di uomini abbia perso la testa per un cavaliere quasi “mignon” (specialmente dopo che si sono visti tutti i dettagli dei tre fusti con cui divide il letto- tra una pausa e l’altra del corteggiamento di Ruggiero. Patrice Petibon è una Morgana - soubrette da opéra-comique: la ricordo come magnifica Sophie in un viennese “Rosenkavalier”- decisamente fuori ruolo. Kristina Hammerström una Brandimarte appena efficace. Poco da dire del basso e del tenore i cui ruoli sono stati ridimensionati nella potatura del lavoro (in cui è stato eliminato il personaggio di Oberto, giovanotto respinto da Alcina).
Cosa dire? La Scala per Händel avrebbe potuto fare qualche sforzo in più.

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