All’inizio del terzo millennio le infrastrutture ed il loro potenziamento sono, ancora una volta, al centro del dibattito europeo. Lo erano già state circa dieci anni fa quando l’Unione Europea (Ue), allora ancora chiamata Comunità Europee (al plurale, al fine di distinguere le differenti Comunità che ancora albergavano nell’area di quella che stava diventando l’Ue), si accingeva a dare vita all’euro. Dalla fine degli Anni Ottanta, nei Paesi Ocse in generale e soprattutto in Europa, l’andamento economico sfiorava la stagnazione; il costo dell’unificazione tedesca, e del supporto ai Paesi in transizione dal piano al mercato nell’Europa centrale ed orientale, minacciava di farla scivolare in recessione; i tassi di disoccupazione erano elevati ed in aumento. Un’Europa senza crescita sarebbe stato il contesto meno proficuo per il complicato percorso delineato a Maastricht per sostituire le monete nazionali con l’euro e dare corpo all’unione monetaria. In questo contesto, la Commissione presieduta da Jacques Delors presentò un “libro bianco” su “crescita, competitività ed occupazione” che poneva l’accento tra l’altro su un vasta programma di reti transeuropee (in gergo giornalistico, Trans European Network, o, in sigla, Ten). L’enfasi era sul breve e medio periodo: la spesa per infrastrutture veniva giustificata principalmente in quanto leva per utilizzare capacità produttività solo parzialmente impiegata, piuttosto che per accrescere lo stock di capitale e, quindi, la produttività e la competitività generale del sistema. Lo sono di nuovo adesso in una fase in cui l’Ue, in generale, e l’area dell’euro in particolare attraversano una grave crisi finanziaria ed economica, sono alle prese con un crollo di fiducia di individui, famiglie ed imprese e si confrontano con quelle che John Maynard Keynes chiamava “the dark faces of uncertainties”- i “volti neri dell’incertezza”. L’ultima tornata di previsioni , diramata dai 20 maggiori centri internazionali di ricerca econometrica (tutti privati, nessuno italiano) stimavano una contrazione del pil dello 0,8% nel 2009 e dell’0,7% nel 2010, suggerendo che non ci saranno segni sostanziali di ripresa prima dell’anno prossimo o del successivo.
L’Italia ed alcuni Stati dell’Ue – invero pochi, principalmente la Francia- puntano sulle infrastrutture e specialmente con il rilancio del programma Ue più che sulla dilatazione della spesa pubblica per superare proprio “the dark faces of uncertainties” alla base della crisi. Il programma sembrava fosse rimasto sulla carta; in effetti, la laboriosa attività di progettazione, soprattutto tecnico-ingegneristica (ma pure di analisi economica), è proseguita nel corso degli ultimi dieci anni. A riguardo è importante sottolineare come le decisioni varate dal Consiglio dei Ministri del 6 marzo riguardino, oltre all’avvio del Ponte sullo Stretto di Messina, due “corridoi”, il n. 5 ed il n.8, nonché il “corridoio” n. 10 che sono stati ritardati per lustri da pressioni localistiche a cui i Governi di centro-sinistra non sono stati in grado di dare una risposta adeguata.
Occorre riflettere su alcuni punti del programma. In primo luogo, nei Paesi industriali a reddito medio-alto ed elevato, le infrastrutture del secolo che sta iniziando hanno caratteristiche molto differenti da quelle delle infrastrutture realizzate nel 19simo e nel 20simo secolo. Lo sottolineava già circa 20 anni fa, Alice Rivlin a lungo alla guida del Congressional Budget Office degli Stati Uniti : la spesa pubblica in conto capitale, e la spesa privata ad essa associata, riguardano sempre meno la realizzazione di nuove infrastrutture (aprire strade o ferrovie, costruire centrali elettriche) con forti esternalità ed interdipendenze per le attività produttive (e , quindi, con rientri poco differiti nel tempo) e sempre più la manutenzione straordinaria e l’ammodernamento del parco di infrastrutture esistenti, oppure il collegamento e l’innalzamento degli standard per “spezzoni” o tratti di infrastrutture costruite in un arco di diversi decenni e secondo standard tecnici ed economici molto differenti, oppure ancora investimenti per la qualità della vita (ripristino ambientale, sanità, risorse umane).
Le Reti Transeuropee costituiscono un grande schema di ammodernamento e di miglioramento di infrastrutture in gran parte esistenti in quanto attuate nel corso degli ultimi due secoli, se non anche prima. Tale grande schema non solo attiva occupazione ed indotto nella “fase di cantiere” ed aumenta la produttività del capitale in generale una volta “a regime” ma è un grimaldello per rimuovere la “dark faces of uncetainties”- dare agli italiani speranza che si sta operando per un Paese più moderno e più giusto e, quindi, con maggiori e più salde certezze.
Si tratta di investimenti tradizionali in calcestruzzo e mattoni od innovativi? L’interrogativo sollevato da alcuni con una punta di polemica è meno sostanziale di quanto non paia ad una lettura affrettata. In effetti, in questa prima fase di XXI secolo, da un lato le autostrade dell’informazione, per fare un esempio, e le autostrade in asfalto sono sempre più complementari (si pensi ai telepass ed ai sistemi di pilotaggio satellitare). Da un altro, le infrastrutture, anche più tradizionali, dell’Europa del XXI secolo saranno sempre di più una combinazione di “old” e “new economy” ; ciò avviene, negli Usa, già in un comparto che pure oltreatlantico rappresenta per molti aspetti il “vecchio” del “vecchio” (nell’infrastrutturale): il trasporto merci tramite camion, anche nel ramo dove predominano i cosiddetti “padroncini” . Ciò significa nuove sfide nell’allestire e nel valutare i programmi di infrastrutture.
Sino ad un paio di secoli fa, l’intervento pubblico per le infrastrutture riguardava principalmente quelle con finalità militari (le vie consolari romane) o di ordine pubblico (gli sventramenti di Parigi e di Madrid nel 19simo secolo) oppure la ricostruzione di centri urbani dopo calamità naturali come i terremoti (quali quelle di Lisbona o di Catania nel XVII secolo). Gli obiettivi erano chiari e semplici; e tali erano anche i pertinenti criteri di valutazione, nonché le sedi delle decisioni su cosa finanziare e cosa non finanziare. Gran parte del parco infrastrutturale veniva, tuttavia, concepito e realizzato da privati che facevano ricorso a quelle che oggi si chiamano tecniche di finanza di progetto (pagamento di pedaggi, finanziamento su prestiti obbligazionari o tramite ricorso al credito bancario). A partire del XX secolo, con la crescente consapevolezza di esternalità ed interdipendenze delle infrastrutture, nonché dei vincoli tecnico-finanziari alla loro realizzazione da parte di privati, l’intervento dello Stato in materia di quelle che venivano chiamate “opere pubbliche” si è fatto sempre più diffuso ed incisivo. Si è verificata una progressiva discrasia, però, tra meccanismi decisionali (spesso altamente centralizzati), da un lato, e metodi e tecniche di analisi che richiedendo una vastissima gamma di informazioni tecniche, economiche, finanziarie, istituzionali, domandano, invece, livelli decisionali molto vicini a coloro che concepiscono e realizzano i progetti (i soli in grado di possedere le informazioni necessarie e di padroneggiarle. In Italia sino a tempi recenti il meccanismo di decisione e di allocazione delle risorse per infrastrutture è rimasto molto accentrato; anzi, nella prima esperienza di introduzione sistematica di tecniche di analisi basate sul calcolo economico, quello che più fatto difetto è stato il meccanismo centrale di allocazione .
I tre livelli di decisione ora afferenti alle rete transeuropee (comunitario, statale, regionale/locale) rendono ancora più difficile la specificazione di un set unico od univoco di obiettivi e, quindi, la definizione di parametri per l’allestimento e la valutazione dei progetti di infrastruttura.
In un libro di alcuni anni fa (Giuseppe Pennisi e P.L. Scandizzo “Valutare l’Incertezza- L’analisi costi benefici nel XXI secolo) su è proposto come uscire da questo ingorgo, prendendo l’avvio dalla constatazione che nel fare analisi economica occorre sì applicare i metodi, le tecniche e le procedure progressivamente affinate nel passato ma soprattutto guardare alla revisione metodologica in atto, soprattutto quando si è alle prese con “grandi reti”.
Il concetto di progetto di intervento pubblico in generale e nelle infrastrutture in particolare e, quindi, di metodologia di valutazione, ha subito un’evoluzione significativa. Negli Anni Trenta, è stato, per lo più legato, all’idea di formazione di capitale fisico. Dall’inizio degli Anni Settanta, grazie all’apporto della manualistica Unido, Ocse e Banca Mondiale ricordata in precedenza, si afferma un nuovo concetto di progetto quale strumento di politica economica (che può comprendere anche la formazione di capitale fisico, ma non deve necessariamente includerla), da valutarsi alla luce di una funzione di benessere sociale (ossia degli obiettivi della società quali definiti nei documenti programmatici di governo od ipotizzati dal “valutatore”). Si sta ora sviluppando un concetto ancor più nuovo: l’intervento ed il progetto pubblico vengono visti come “opportunità” di politica economica poiché l’intervento pubblico può creare o distruggere opportunità (in gergo, “opzioni reali”), ossia alternative (cugine, sotto molti aspetti, delle “opzioni” finanziarie di chi opera sui mercati dei titoli derivati).
In un contesto economico sempre più caratterizzato dall’incertezza, ciò consente di tenere conto degli aspetti dinamici dell’incertezza medesima. Ciò rende possibile ricavare una funzione di obiettivi “oggettiva” dalle “opzioni” (di “creazione” e di “distruzione” di opportunità) che l’intervento comporta per gli interessati (in gergo, gli stakeholder) , invece di lasciarla alla visione “soggettiva” del “valutatore” . La metodologia è particolarmente adatta al supporto di decisioni in un quadro istituzionale fortemente marcato da devoluzione. In parallelo con la pubblicazione del volume citato, la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione (Sspa) ha cominciato, con la Banca Mondiale, il Ministero dell’Economia e Finanze (Mef) e l’Università di Roma Tor Vergata, una vasta sperimentazione su progetti concreti; vi stanno aderendo altri Ministeri ed alcune Regioni. Sono stati iniziati contatti con la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo e con il Banco Interamericano per lo Sviluppo. Il programma, interrotto dal Governo Prodi ed ancora non ripreso dalla Sspa, ha portato a risultati importanti quali, per restare unicamente agli esempi italiani, la valutazione della transizione da televisione analogica a televisione digitale terrestre (i cui esiti sono stati pubblicati nel volume Bezzi e altri “Valutazione in Azione”, F. Angeli 2006) e l’analisi di grandi progetti d’investimento nel Mezzogiorno quali il “passante” della Basilicata e la valorizzazione del polo turistico di Erice in Sicilia. Era stato iniziato, con il supporto del Dipartimento della Funzione Pubblica, anche un programma di formazione nelle metodiche di analisi per dirigenti e funzionari nel Mezzogiorno; interrotto ai tempi del Governo Prodi, la sua continuazione è adesso all’attenzione del Ministro per la Funzione Pubblica e l’Innovazione.
Cosa implica tutto ciò per la politica economica del rilancio? In primo luogo, c’è un aspetto importante di politica e di democrazia: si pone fine alla figura spuria del “valutatore” (a volte sociologici privi di dimestichezza con tecniche quantitative di analisi) ed alla “arroganza”, spesso opaca, di obiettivi progettuali definiti dal “valutatore” medesimo: gli obiettivi vengono, invece, ricavati dalle “opzioni” (analizzate in modo quantitativo, quindi trasparente) per le principali categorie di “stakeholder”. In secondo luogo, c’è un altro aspetto politico: la valutazione con “opzioni reali” diventa strumento di devoluzione poiché può essere effettuata solamente in una struttura di governo altamente decentrata, non in una in cui un “valutatore” (“apolitique, apatride et irresponsabile”, avrebbe detto Charles De Gaulle) siede in un ufficio burocratico. In terzo luogo – ed questo l’aspetto più rilevante sotto il profilo dell’analisi economica- , il metodo consente di tenere conto, in maniera rigorosa e trasparente, di dimensioni che spesso sfuggono all’analisi quando si è alle prese con interventi di lunga gestazione. Lo si è visto a proposito dell’analisi economica della “rete” Torino-Lione, elemento essenziale del “corridoio” n.5; se valutata con le procedure un po’ ammuffite dei servizi della Commissione Europea, esponeva indicatori di convenienza economica insoddisfacenti; gli indicatori diventavano invece molto elevati se analizzata con il metodo che tiene conto delle “opzioni” che grazie alle rete si aprono per le maggiori categorie di “stakeholder”. Anche questo elemento contribuisce ad allontanare “the dark faces of uncertainty”.
Giuseppe Pennisi , professore emerito alla Scuola superiore della pubblica amministrazione, insegna economia internazionale e politica economica internazionale all’Università Europea di Roma ed all’Università di Malta.
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