giovedì 29 dicembre 2011

COME ATTIRARE LE RISORSE VERSO IL NOSTRO PAESE in Il Riformista 30 dicembre

I LIBRI DEI MINISTRI- CORRADO PASSERA
COME ATTIRARE LE RISORSE VERSO IL NOSTRO PAESE
Giuseppe Pennisi
Il Ministro per lo Sviluppo Economico e le Infrastrutture, Corrado Passera, sarà uno dei protagonisti della “fase due” del Governo Monti- quella diretta alla crescita- dato che gran parte delle tematiche ad essa afferenti passano per la sua scrivania: dalle liberalizzazioni al rilancio delle infrastrutture (elemento chiave in un Paese dove i costi delle inefficienze della logistica sono stimati in 40 miliardi di euro l’anno).
A tal fine, uno dei tasselli essenziali è come attirare verso l’Italia le risorse di fondi sovrani del resto del mondo. Alcune indicazioni si traggono da un lavoro di Adam D. Dixon (Università di Bristol) e Ashby H.B. Monk “The Design and Governance of Sovreign Wealth Funds: Principles & Practices for Resource Revenue Management”. E’ un utile vademecum per orientarsi sulle regole e sulle prassi di principali fondi sovrani con particolare accento a quelli messi in funzione da Paesi in via di sviluppo con una forte dotazione di materie prime e prodotti di base; anche se numerosi di questi fondi stanno diversificando il loro portafoglio verso investimenti nel manifatturiero, le infrastrutture continuano ad essere il campo che privilegiano.
Ci sono differenziazione profonde tra fondi asiatici ed europei. Un’analisi di quelli asiatici è stata pubblicata da Edwin Truman – il Working Paper n.11-12 del Peterson Institute for International Economics . Preoccupazioni sulla trasparenza delle operazioni di alcuni fondi sovrani sono state sollevate sia nei Paesi di origine sia in quelli in cui investono. In seguito ad uno studio Ocse che ha sollevato il rischio di nuovi protezionismi , i fondi asiatici (che per le dimensioni e la varietà delle loro attività sono tra i più importanti a livello internazionale) hanno fatto uno sforzo concreto per raggiungere i più elevati standard di trasparenza e di rigore nell’applicazione di metodi e tecniche di valutazione di alta qualità. Lo conferma uno studio di Woochan Kim del Korean Development Institute (KDI School of Public Policy and Management Paper No. 6) in cui tratta in dettaglio dell’evoluzione del fondo sovrano coreano, creato nel 2005 e la cui missione ha avuto un’evoluzione significativa nel corso degli anni. Il documento dimostra, tuttavia, che lo stesso fondo coreano è autonomo più sulla carta che nei fatti in quanto in molti casi opera in modo da favorire burocrati e politici.
Passando ai fondi sovrani di Paesi occidentali, interessante il confronto tra quello norvegese e quello neozelandese pubblicato da Benjamin J. Richardson della Università della British Columbia in uno degli ultimi fascicoli del “Nordic Journal of Commercial Law” . I due fondi si sono dati la missione di essere, al tempo stesso, prosperi e “virtuosi” (nel senso di dare attenzione alla responsabilità sociale aziendale).
Tra le aspettative “etiche” e quelle più strettamente finanziarie sorgono inevitabilmente tensioni specialmente nella scelta di quali Paesi e quali settori scegliere per operare. Per anni i due fondi hanno tenuto in grande conto le classifiche di Transparency International (in cui l’Italia non brilla affatto). Ora l’attenzione è rivolta ad investimenti con rendimenti a lungo termine. Nessuno dei due fondi, tuttavia, si è data la missione di cercare di migliorare la “corporate governance” delle imprese in cui investono.

LA DOMANDA CHE NESSUNO HA FATTO A MONTI in Il Velino 30 dicembre

LA DOMANDA CHE NESSUNO HA FATTO A MONTI
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Roma - La conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio Mario Monti è stata una delle più estese di quelle tenute, in occasioni analoghe, negli ultimi tempi anche perché Monti ha dato risposte ampie e dettagliate a tutte le domande (o quasi) rivoltegli dai giornalisti. Si è spaziato in un vasto raggio guardando sia al passato prossimo – la manovra “Salva Italia” appena varata – sia al prossimo futuro – le misure “Cresci Italia” in preparazione in questi giorni. Non ci si è limitati alla politica economica ma si sono toccate anche la politica estera, l’interazione tra governo “tecnico” e forze politiche, la possibile durata dell’Esecutivo.

C’è una domanda che nessun giornalista italiano in sala ha fatto ma che è stata indirettamente posta dal corrisponde di Der Spiegel, rappresentata dell’Associazione della Stampa Estera e, per questa ragione, al tavolo della presidenza. La domanda riguardava apparentemente la competitività dell’economia italiana rispetto a quella del resto dell’”eurozona” in generale e della Repubblica Federale in particolare. Monti ha risposto sostenendo che le misure in cantiere hanno l’obiettivo di potenziare la competitività italiana; è anche entrato in aspetti tecnico-economici parlando di competitività “multifattoriale”, un termine che forse una dozzina di coloro presenti in sala hanno compreso a pieno.

In effetti, Monti è, innanzitutto, un professore di economia e politica monetaria ed ha ben compreso ciò che il giornalista di Der Spiegel ha sottointeso: può l’Italia competere nell’arena europea ed internazionale con la “parità centrale” con cui è entrata negli accordi europei dei cambi (colloquialmente chiamati lo Sme) a partire del gennaio 1990 e con cui, dopo la svalutazione del settembre 1992, è ri-entrata nel 1997 per potere fare parte del gruppo di testa dell’unione monetaria? Non è un caso fortuito che la crescita dell’economia italiana sia passata dal 2,5-2 per cento l’anno degli Anni Ottanta ad un tasso rasoterra sempre in bilico verso la recessione dall’inizio degli Anni Novanta. Per decenni, all’Università Bocconi, Monti ha insegnato che il cambio è il “prezzo dei prezzi” e, di conseguenza, se si commette un errore nel fissarlo in un regime di cambi fissi il primo effetto è un rallentamento della crescita. L’errore è stato commesso a fine 1989 quando Tesoro e Banca d’Italia decisero di abolire le ultime barriere valutarie ed in parallelo entrare della “fascia stretta” dello Sme. Teoria economica, e saggezza contadina, avrebbero voluto una pausa di qualche settimana o mese per vedere come la lira si sarebbe assestata dopo l’abolizione delle barriere valutarie; solo allora si sarebbe potuti entrare con una “parità centrale” corrispondente al potere d’acquisto e alla scarsità di valuta.

Una volta commesso l’errore si sarebbe potuto curarlo soltanto con tassi di aumento della produttività e della competitività ben superiori a quelli dei nostri concorrenti (ed in particolar modo della Germania). Non solamente ciò non è avvenuto ma ci si è inebriati pensando che l’ingresso dell’euro ci avrebbe dato delle difese automatiche o semi-automatiche. Inoltre, mentre la Germania realizzava riforme profonde (mercato del lavoro, previdenza, dimensioni d’impresa), abbiamo pensato che la moneta unica fosse il toccasana di tutti i nostri problemi. I quali, invece, si sono aggravati: ad esempio, posto a 100 l’indice dei prezzi alla produzione in Germania ed in Italia nel 1999, oltre Reno è ora 80 e nel Belpaese 160.

L’Italia non è certo nella posizione di chiedere una revisione delle parità nell’euronegoziato in corso per l’accordo sull’”unione fiscale”. Ma il problema non si può eludere: se non vogliamo autocondannarci ad una recessione permanente, o si opera sul “prezzo dei prezzi” o aumentano (alla grande) produttività e competitività. (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 29 Dicembre 2011 17:04

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Ecco il cambio che lascia Monti in balia dei mercati in Il Sussidiario 29 dicembre

Ecco il cambio che lascia Monti in balia dei mercati
Giuseppe Pennisi
giovedì 29 dicembre 2011
Mario Monti (Foto Imagoeconomica)
Approfondisci
INCHIESTA/ Ecco la vera "fase due" che serve all’Italia di Monti, di U. Arrigo
SCENARIO/ Pelanda: Monti, ultimatum di tre mesi per il "miracolo
Oggi 29 dicembre, il Presidente del Consiglio Mario Monti tiene la conferenza di fine d’anno. L’atmosfera è migliore del previsto, in quanto l’asta dei Bot di ieri è andata abbastanza bene (dato il contesto generale). I mercati, però, sono più volubili delle belle donne e non è detto che l’asta dei Btp di questa mattina confermi gli esiti di quella di ieri. Spieghiamo perché soffermandoci unicamente sulle determinanti principali (sono numerosissime e si intrecciano tra loro).
In primo luogo, occorre tenere presente che per il resto del mondo quello attualmente in carica non è un governo “tecnico”, ma una “grande coalizione” all’italiana sotto le guisa di “tecnici” in gran parte marcatamente “di area” che fanno riferimento ai tre principali gruppi politici dell’inusuale “rassemblement”: il Pdl, il Pd e il “terzo polo”. Differisce da una “grosse koalition” alla tedesca perché quale che sia l’attuale rappresentanza parlamentare, le forze politiche alla base della coalizione rappresentano non più del 60% dell’elettorato (secondo gli ultimi sondaggi). In quanto a peso elettorale proporzionale, quindi, hanno una forza più o meno pari a quella del centro-sinistra negli anni Ottanta. Dunque, la durata e, soprattutto, la capacità di dare indirizzo all’esecutivo dipendono dai rapporti tra i tre “soci” alla base di una “grande coalizione” con una base di supporto popolare non vastissima.
In questi giorni, nonostante alcune prese di posizione a fini mediatici, la “grande coalizione” all’italiana pare più coesa del solito per due ragioni: a) sondaggi elettorali che danno in crescita uno solo dei “soci” (il “terzo polo”); b) l’intenzione di tutti e tre i “soci” di avere un capro espiatorio (il governo “tecnico”ora in carica) quando si andrà alle urne. Le prospettive di stabilità, per quanto precaria e relativa, non possono che piacere ai mercati.
In secondo luogo, un’abile campagna di “persuasione occulta” ha preparato il Consiglio dei ministri di ieri, sollevando aspettative che un programma di crescita fosse effettivamente in fase avanzata di cottura. Lo stesso Corriere della Sera ha presentato come scoop un documento sul riscatto del debito che è stato discusso in seno al Cnel il 9 novembre scorso (e distribuito a fine ottobre) e che altri organi di stampa - Avvenire e Milano Finanza, oltre a ilsussidiario.net- hanno ampiamente dibattuto nelle ultime settimane. Dato che i mercati sono interessati alla crescita come strumento essenziale per ridurre il peso del debito (l’aumento della pressione fiscale ha effetti caduchi e, di solito, le manovre dirette alle entrate preludono a nuove manovre di aggiustamento della finanza pubblica), sta adesso al governo e alla “grande coalizione” all’italiana essere all’altezza delle aspettative sollevate. Altrimenti i mercati puniranno con una severità pari ai voti moderatamente buoni dati in base alle attese.
a carne messa al fuoco durante il Cdm è moltissima: liberalizzazioni, infrastrutture, revisioni delle regole catastali e via discorrendo. Forse troppa perché si corrisponda a quanto promesso e si avvii un effettivo processo di crescita. Non solo è essenziale essere selettivi, occorre anche mettere nel menu ciò che nessuno osa dire per timore di toccare mostri sacri: incidere nel negoziato europeo in corso sul futuro dell’eurozona e riuscire a rimettere in linea quello che è “il prezzo dei prezzi”.
Ilsussidiario.net lo ha già scritto il 24 dicembre: non si esce dalla crisi se non si ha un tasso di cambio che meglio dell’attuale rifletta sia la parità interna di potere d’acquisto, sia la scarsità di valuta di un Paese che da anni ha un disavanzo della partite correnti pari al 4% del Pil. Abbiamo un cambio sovrapprezzato a ragione di un serio errore tecnico commesso nel novembre 1989. Ammettiamolo una volta per tutte e poniamo il tema al centro della trattativa.

martedì 27 dicembre 2011

Al Teatro dell'Opera la magia di Tchaikovsky in Il Sussidiario 27 dicembre

LO SCHIACCIANOCI/ Al Teatro dell'Opera la magia di Tchaikovsky
Giuseppe Pennisi
martedì 27 dicembre 2011
Lo Schiaccianoci di Pëtr Ill’ Tchaikovsky
Approfondisci
SANTA CECILIA/ A Roma il Messiah di Handel nella "versione di Dublino"
OPERA HD/ Dal "Don Giovanni" di Rai5 al "Faust" del Metropolitan la strada è ancora lunga?
Al Teatro dell’Opera di Roma è in scena un’edizione spettacolare de Lo Schiaccianoci di Pëtr Illic Tchaikovsky. Le rappresentazioni sono iniziate con una serata di Gala per un’associazione di beneficienza la sera del 20 dicembre e proseguono sino al 30 con una recita al giorno. Il successo è tale che non è esclusa una ripresa l’anno prossimo in settimane di festa come queste. In effetti, non appena scenderà il sipario sull’ultima replica al Teatro dell’Opera, un meno grandioso allestimento a cura de ll Balletto di Roma va in scena sino al 7 gennaio all’Auditorium di Via della Conciliazione.
A Roma vengono rappresentati anche Il Lago dei Cigni e La Bella Addormentata da compagnie in tournee. Quindi, i tre balletti di Pëtr Ill’ Tchaikovsky sono gli spettacoli più gettonati in questo ultimo scorcio di 2011. In Italia se ne contano una dozzina di edizioni. Dei tre, Lo Schiaccianoci è quello più rappresentato; viene considerato il più “natalizio” in quanto si svolge la vigilia della Santa Notte e, tra fiocchi di neve, slitte e alberi decorati, ha al suo cenno una strenna: un pupazzo-schiaccianoci di cui in sogno si innamora la bambina a cui è stato regalato. È tratto da un racconto di E.T.A. Hoffmann, che lo stesso autore considerava “decisamente non per bambini”. È una delle ultime opere di Tchaikovsky composta quando il compositore attraversava la crisi che lo portò al suicidio.

La versione al Teatro dell’Opera viene presentata con tre cast che si alternano. Le scene di Carlo Savi e le luci di Mario De Amicis sono supportate da proiezioni computerizzate che rievocano i laghi baltici non distanti da San Pietroburgo. La coreografia di Slawa Muchamedow segue fedelmente quella originale di Marius Petita del 1892. La bacchetta di Nir Kabaretti è precisa. Il cast è interamente costituito dai complessi del teatro (spicca Gaia Straccamore) con l’eccezione di Anton Bogov nel ruolo del principe, in alcune serate. In breve, uno spettacolo tradizionale per famiglie che sta riscontrando il favore del pubblico.
Viene di norma presentato in una versione favolistica edulcorata (quale quella della prima a San Pietroburgo nel 1892, ripresa, peraltro, nell’allestimento del Teatro dell’Opera), ma la musica è, al tempo stesso, inquietante ed eloquente. Inquietante perché prelude più di altre al primo scorcio del Novecento in cui prevalse il torbido (si pensi a Salome di Strauss, a Iris e Parisina di Mascagni, a Pellèas et Melisande di Debussy).

Eloquente perché intrisa di eros (e quello di Tchaikovsky era particolarmente proibito). Di recente, coreografie di Nuraiev e di Crancko ne hanno riscoperto (in linea con una partitura morbida e morbosa, più vicina al Novecento ormai alle porte che al tardo-romanticismo) il contenuto erotico, specialmente nel valzer dei fiori e nel pas-de-deux con cui termina il quarto quadro. Occorre quindi chiedersi se e quanto i balletti di Tchaikovsky siano tanto “natalizi” quanto sembrano.

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lunedì 26 dicembre 2011

Eurogiochi: deboli e forti nella trattativa a 26 in Avvenire 27 dicembre

Eurogiochi: deboli e forti nella trattativa a 26


DI GIUSEPPE PENNISI

I l grande negoziato a 26 per costruire un’'unione fiscale' come corazza per l’euro è iniziato il 20 di-cembre e continua nei giorni tra Natale e Capodanno al fine di giungere all’'accordo' entro marzo. La trattativa sarà coperta da riservatezza. Ma l’analisi economica ci può aiutare a capire quali sono i punti di forza e di debo¬lezza delle varie parti in campo.
In questo 'gioco' in cui ciascun nego¬ziatore opera su due tavoli – rispetto alle altre 25 'Parti Contraenti' la posta gioco è la «reputazione di buon europeo », rispetto ai propri cittadini «la po-polarità di buon governante» – le apparenze a volte ingannano. Inoltre, c’è un convitato di pietra, che ha però l’asso nella manica. Il giocatore più debole è la Germania: per una ragione oggettiva e per come ha giocato sino ad ora le proprie carte, mettendosi in una posizione difficile su ambedue i tavoli. La Germania di Angela Merkel, nel consesso europeo, ha lo stesso problema di quella di Otto Bismarck: è tanto grande (specialmente se la sua area valutaria ottimale si estende ad Austria, Benelux e Finlandia) che le sue mosse incidono su tutta l’Europa. Non è tuttavia sufficientemente grande da potersi prendere sulle spalle tutti i problemi europei. Con la conseguenza che anche un nodo relativamente trattabile può farle fare uno scivolo¬ne. Ed è precisamente ciò che berlino sta facendo da alcuni mesi: ha adottato la tattica di un 'gioco ad ultimatum' (o vinco tutto o perdo tutto) sia sul piano interno della 'popolarità' sia su quello europeo della 'reputazione'. La giustificazione possibile è che doveva mostrare i muscoli a causa dei forti vincoli domestici (una coa¬lizione traballante). Una volta minacciato di utilizzare il 'bazooka' o lo si spara o si perde 'credibilità'.

Il resto dell’area valutaria (Austria, Benelux e Finlandia) ora si trova nella si¬tuazione di poter condizionare la Ger¬mania per non essere anch’esso tra i perdenti se l’'ultimatum' tedesco si rivelerà un boomerang.
Se ne vedono i segnali: in Irlanda, Slovacchia e Repubblica Cèca stanno crescendo le pressione perché si indica un referendum in caso l’accordo sia simile a quello la cui bozza è stata diramata il 17 dicembre. Lo smottamento potrebbe essere solo all’inizio.

Se le minacce di referendum o, peggio ancora, di una serie di referendum modificassero l’accordo su cui stato po¬sto l’'ultimatum', la Germania, allora, ne uscirebbe come una tigre di carta. Non può contare sull’appoggio della Francia. A Sarkozy, in campagna elet¬orale, interessa un euro-ertice al me-e con grande esposizione mediatica, più che la conclusione di un accordo sui cui contenuti i suoi avversari possono dare un elemento unificante alle varie forze di opposizione. Sarkozy vuole apparire come il «grande mediatore ». Un euro-vertice al mese è stato già ottenuto dalla Francia. ora la tattica è conti¬nuare sino alle presi¬denziali in primavera, facendo slittare di qualche settimana la scadenza di fine marzo. Con la conseguenza di indebolire ulteriormente l’ultimatum di Berlino.

Anche i Paesi considerati a rischio (Portogallo, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna) devono operare sugli stessi due tavoli da gioco. Hanno interesse a che si giunga all’«accordo» per una conferma del loro ruolo nell’Unione monetaria e come premessa per una politica di crescita. Se riuscissero a sfruttare la debolezza della Germania, potrebbero utilizzare la trattativa come opportunità per riscrivere l’art.4 (sulle manovre an¬nuali per giungere ad un rapporto debito/ Pil del 60%) e il Titolo IV sulla 'convergenza' e la crescita. Molto dipende dalla maestria delle loro diplomazie. E il convitato di pietra? È la Gran Bretagna, che può rientrare in gioco quando gli altri hanno scoperto le carte sulla base di una fredda analisi dei costi e dei benefici. Ossia delle proprie convenienze. Cameron ha qualche difficoltà con il suo alleato, ma all’ultimo son¬daggio il 46% dei britannici si sono detti pronti a uscire dall’Ue e solo il 36% a restarci.


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Se i partner «a rischio», sapranno sfruttare i passi falsi di Berlino, potrebbero riscrivere l’articolo 4 del Trattato sul rientro a un rapporto debito/Pil del 60%

domenica 25 dicembre 2011

Tormented Souls in Music and Vision 23 Novembre

Tormented Souls
Sex and power in the aftermath of a Middle Eastern war,
when 'Semiramide' opens the opera season in Naples,
reported by GIUSEPPE PENNISI

Naples enjoyed weather feeling more like Spring than late Fall on 18 November 2011; sunny, warm with a few daring swimmers at lunch time in the bay. The right weather for the inauguration, at 7pm, of the 2011-2012 opera season, consisiting of ten operas: seven in the grand Teatro San Carlo and three in the small Teatro di Corte (both theatres are housed within the Royal Palace), along with symphonic and chamber music seasons, as well as a few ballets. This is a turning point season because the Teatro San Carlo has had severe financial difficulties and had a major refurbishing (yet it maintains its ancient splendor because each element of the theatre is under the strict control of the Ministry of Culture and Antiquity). The season features only a few traditional repertory titles (such as Puccini's La bohème) and proposes mostly rarely heard operas. The inaugural title is Gioacchino Rossini's Semiramide, the last opera the composer wrote for an Italian theatre before moving permanently to Paris. It is a special opera for a variety of reasons.
Firstly, contrary to the customs of the time, the work is based on a very close collaboration between the librettist, Gaetano Rossi, and the composer. Secondly, Semiramide, like Tancredi ten years earlier, was drawn from a five-act tragedy by Voltaire with a rather complex plot. In Babylon, Queen Semiramide and her lover (Assur) killed the King and tried to have the Crown Prince Ninia (still a baby) slaughtered; some fifteen years later, Semiramide has to select a new husband and King; Assur and the Indian Prince Idreno are competing for the wedding and the Crown, but Semiramide is physically attracted by the young general Arsace (who is to be married to the Princess Azema); a sexual affair follows between Semiramide and the youngster; when the marriage is in sight, the High Priest Oroe reveals that Arsace is Ninia. The incestuous relationship ends and tragedy follows, with the young general killing his own mother -- in the darkness he mistakes her for Assur, who is done away with by the priests and the army -- before peace returns to Babylon and the young man marries Azema. Whilst for the French enlightenment philosopher the plot was an apologue on absolute corruption and total perversion as a corollary to unchecked total power, Rossini reversed into the plot his own complicated affair with Isabella Colbran -- seven years older than the composer and, at that time, also a lover of their impresario Domenico Barbaja (a ménage à trois already depicted in La Donna del Lago reviewed in M&V on 3 November 2011 [see The Lady without the Lake).
Secondly, the opera has a rather unusual performance history: it was very popular (often in abridged versions) all over Europe since its 1823 premiere in Venice until around 1890 (when almost all Rossini's opera seria except Guillaume Tell had disappeared from theatre offerings), but then a long period of silence followed until a 1940 revival of a rather spurious version at the Maggio Musicale Fiorentino. Musicologist Phillip Gosset counts nearly seventy theatres which have performed the opera since 1940. However, even though an original Rossini manuscript was found in the archives at La Fenice, only as late as 2003 was a critical edition unveiled at the Rossini Opera Festival in Pesaro.
Before reviewing the Naples production, it is essential to focus on a few critical issues about Semiramide. To begin with, musicologists do not agree with one another as to whether this is Rossini's last song and testament about Italian opera, before embarking on the adaptation (of previous operas) for the French stage and to the absolute novelty of Guillaume Tell. According to Gossett and Zedda, Semiramide is a 'conservative opera'. No doubt, there is less innovation than in Maometto Secondo which had failed miserably in Naples in 1820 because of its revolutionary musical content. Semiramide is a 'classical' opera which, according to Bruno Cagli, nearly negates Rossini's Neapolitan experience; there are clear-cut musical numbers and one of the protagonists is an alto en travesty. On the other hand, Semiramide seals the fate of 'secco recitative' because all recitatives are accompanied by the orchestra. Also, the next generation of Italian opera composers (even Verdi) returned to Semiramide almost compulsorily because its forms provided the model for their arts and its sound resonated in their hearts -- this is the reason why it had been performed for so many decades before the long 1890-1940 silence.
There is no anticipation of Romanticism, as in La Donna del Lago, but it opens the way to 'bel canto': the duets for Semiramide and Asarce, for example, are the direct antecedents of those between Norma and Adalgisa as unabashed glorification of the power of music. Semiramide is a milestone on the way to 'bel canto' as a specific and autonomous musical discipline governed by rules affecting the composer as well as the performers and which foster a radical process of idealization of feelings and actions. Composer and performer create a singing line based on technical skills capable of arousing emotions even without illustrating the dramatic development of the story but illuminating vocal formulas and involving the audience's emotions. However, Semiramide is more than 'bel canto': Rossini draws vocal, dramatic, and orchestral elements into harmony with one another. As Richard Osborne wrote, 'the strategic planning is formidable': an opening movement of seven hundred bars and an Act I finale of over nine hundred bars, pointing to the huge structural spans of Guillaume Tell, as well as the use of the chorus not as a protagonist but as a commentator (like in Greek tragedies).
A final point: the voice of the protagonist Queen Semiramide was especially composed for Isabella Colbran, then forty years old and approaching the sunset of her career. Thus, like La Donna del Lago, it requires an amphibious soprano or a 'falcon' soprano able to descend to very grave tonalities. In the nineteenth century, it was a favorite role for Maria Malibran, Gulia Grisi, Giuditta Pasta and Adelina Patti. But this poses a clear problem. In modern revival often the part has been adapted to bel canto sopranos such as Dame Joan Sutherland and Montserrat Caballé (with Marilyn Horne as their co-protagonist). On stage, I personally recall only Anna Caterina Antonacci, June Anderson and Lella Cuberli able to cope with all the vocal difficulties without altering the score. Darina Takova, in Pesaro, Paris, Madrid and Rome in different productions during the years 2003-2005, was not bad.

Simone Alberghini as Assur and Laura Aikin in the title role of Rossini's 'Semiramide' at the Teatro San Carlo in Naples. Click on the image for higher resolution
The new Naples production was entrusted to a very well-known Italian stage director, Luca Ronconi, nearly eighty years old. It was a much awaited staging because it could be one of his latest efforts. The two acts have a single stage set (by Tiziano Santi); the ruins of a timeless Middle Eastern capital (it could be Baghdad) where the characters are half naked -- the women topless and the men in boxer shorts (with the exception of the protagonists). The costumes are signed by the French stylist Emanuel Ungaro and the lighting (critical to the production) by A J Weissbard. The chorus (directed by Salvatore Caputo) is in the orchestra pit but on stage there are several mimes. Thus the drama is in a context of destruction; following Voltaire, absolute power does not only corrupt but it destroys. There is a lot of sex going on in this desolate Babylon; of course, with the limitation of opera conventions and with the main sexual duet being sung by a soprano and an alto.

Simone Alberghini (left) as Assur with Laura Aikin in the title role of Rossini's 'Semiramide' at the Teatro San Carlo in Naples. Click on the image for higher resolution
In agreement with Gabriele Ferro (conductor and musical director), the 2003 critical edition is somewhat cut; Azema's aria and a few recitatives are eliminated, with the total performance lasting around four hours (intermission included), in lieu of the five hours of the 1823 Venice premiere where spoken parts were added to complement the numerous changes of scenes (eight). I listened to Semiramide conducted by Ferro in 1983 in Rome (with June Anderson and the late Lucia Valentini Terrani in the main roles). Now his baton is lighter than then; he supports the singers beautifully; emphasis is on the overall results. Ferro also leaves room for the soloists -- the oboe was excellent -- in certain parts where Rossini echoes chamber music. The overall result is effective: the tragic plot evolves in what seems the aftermath of a major war both in the ruined city and within the tormented souls of the protagonists (mainly Semiramide and Arsace, but also Assur, who goes crazy when his crimes are discovered).

Laura Aikin in the title role of Rossini's 'Semiramide' at the Teatro San Carlo in Naples. Click on the image for higher resolution
In any production of Semiramide, it is a very hard task is to find the protagonist with the appropriate singing qualities. The Teatro San Carlo had originally thought of entrusting the role to the mezzo Sonia Ganassi but after a few rehearsal sessions she called it quits. Thus, the American soprano Laura Aikin was called in; to the best of my knowledge, she had sung the opera only in concert performances in the 2010 Radio France Montpellier Festival. Thus, 18 November was almost a debut. Laura Aikin is certainly mastering the vocal changes during the process of her career quite well. In the second half of the nineties, she made an international name for herself for her brilliant sparkly coloratura; she was one of the few singers who could handle Zerbinetta in Ariadne auf Naxos and the Queen of the Night in Die Zauberflöte. As the years go by, she is taking darker and thicker roles such as Lulu in Lyon, La Scala and Vienna (M&V 11 April 2010 [see Seldom Performed -- Lulu lands at La Scala]); she is much awaited as Marie in Zimmerman's Die Soldaten in Salzburg next August. Since her cavatina Bel Raggio Lusinghier, Aikin's dramatic, passionate and sexy bel canto is miles away from, eg, that of Sutherland. Bel Raggio Lusinghier becomes a dazzling but sensual number irradiating the Queen's complex personality. Similarly, her Quel Mesto Gemito in E flat minor in the final section of Act I is a somber 'ostinato' nearly anticipating Verdi's Il Trovatore. A stronger anticipation is the duet with Assur (Simone Alberghini) in the first scene of Act II -- a number that Verdi, no doubt, was familiar with when he composed Macbeth.

A scene from Rossini's 'Semiramide' at the Teatro San Carlo in Naples. Click on the image for higher resolution
Arsace is Silvia Tro Santafé, a good Spanish alto with considerable experience in 'trouser roles'. She knows the part very well and her singing is unexceptionable, but she somewhat lacks the personality to pair with Laura Aikin in their two major duets, the ambiguous Serbami Ognor Sì Fido in Act I and the highly dramatic Ebben ... a te ferisci? in Act II.

Silvia Tro Santafé (right) as Arsace and Laura Aikin in the title role of Rossini's 'Semiramide' at the Teatro San Carlo in Naples. Click on the image for higher resolution
The villain, Arsur, is an effective Simone Alberghini, especially in the madness scene (most probably well-known to Verdi when composing Macbeth). A real surprise for the Italian audience is the English lyric tenor Barry Banks; on 18 November he substituted beautifully for Gregory Kunde (who was ill) and deserved an enthusiastic open stage applause after Idreno's aria Ah Dov'E' il Cimento?

Simone Alberghini (left) as Assur with Laura Aikin as Semiramide and (behind), Federico Sacchi as Oroe, in Rossini's 'Semiramide' at the Teatro San Carlo in Naples. Click on the image for higher resolution
Annika Kaschenz was a good Azema, and Federico Sacchi was impressive as Oroe.

Silvia Tro Santafé (right) as Arsace and Laura Aikin in the title role of Rossini's 'Semiramide' at the Teatro San Carlo in Naples. Click on the image for higher resolution
The dressed up opening night audience applauded but, after less than ten minutes, ran to their dinner parties in nearby restaurants. After four and a half hours in the theatre, they could be sympathized with.
Copyright © 23 November 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

GIOACCHINO ROSSINI
NAPLES
ITALY
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Faust versus Faust in Music and Vision 8 Novembre

Faust versus Faust
Two concerts conducted by Antonio Pappano,
reviewed by GIUSEPPE PENNISI

Faust is a myth that since the Middle Ages has enthralled many writers, composers and intellectuals. Just to list all of them would require a few pages of the Encyclopedia Britannica. The best known versions are the works by Christopher Marlowe and Johann Wolfgang von Goethe; they have inspired several musicians from the early eighteenth century to nowadays. This year, the rich 2011-2012 symphonic program of the Accademia Nazionale di Santa Cecilia started with two concerts on the Faust myth under the baton of its musical director, Antonio Pappano. The former was the inaugural concert on 22 October (also repeated on 23 and 24 October) when Mahler's Eighth Symphony (generally named The Symphony of a Thousand) was presented. The latter was the second concert on 5 November 2011 (repeated on 7 and 8 November) when a new commission by Matteo D'Amico had its world premiere and Franz Liszt's Faust-Symphonie was performed. Between 24 October and 5 November, the top-class facilities of the Parco della Musica (three concert halls, a theatre, music and book shops, restaurants in a green area in a fairly central part of Rome's North Western district) were used for an annual extravagance -- the Rome Film Festival -- and could not be devoted to their statutory purpose: music.
I was in the audience on 22 October and 5 November. In this review, however, I go in reverse order, ie I start from the second of the two concerts, for three reasons: a) to give priority to the world premiere; b) The Symphony of a Thousand (as performed by the RAI and Maggio Musicale complexes) was recently analyzed in A Double Experiment in the 8 September edition of Music & Vision; and c) Mahler drew inspiration for his monumental work from Liszt's equally monumental Faust-Symphonie, and both symphonies share the features of being seldom performed because of the orchestral and vocal resources they call for. More fundamentally, Mahler and Liszt's works are both based on Goethe's, whilst D'Amico follows Marlowe. As M&V readers will know, in Goethe's work, Faust is redeemed by his efforts to improve living standards for the rest of the humanity -- his pact with the devil was in the interest of scientific research and worldwide well-being. Instead, in Marlowe's, Faust is damned to hell; his agreement with Mephistopheles had the purpose of obtaining power for himself over the rest of humanity -- for sexual pleasure and enrichment.
D'Amico's work is titled Veni, Veni Mephistophilis -- ie Faust's invitation to the Devil to embrace him and take his soul. It is a twenty minute piece for large orchestra, female chorus and a tenor. It follows two scenes from Marlowe quite closely: the embrace between the protagonist and Mephistopheles, and Faust's death and damnation. As in Marlowe's play, there is no hope, whilst in another major musical work drawn from Marlowe (Ferruccio Busoni's Doktor Faust), the scientist is damned, but his son, although only a baby when the curtain falls, may accomplish great things for humanity. The 'Veni, Veni Mephistophilis' embrace is very carnal, nearly sensual; it could be a reference to Marlowe's reported bi-sexuality, and also as a cause for his early death (at the age of twenty nine) during a brawl. Listeners ought not to expect either any great innovation or any concession to the avant-garde, or even to the twelve note row system: the score is tonal, basically late romantic, with excellent timbral counterpoints to the woodwinds, the strings and the brass, and with some flair of expressionism. Thus, it is the style which most pleases the audience of the huge Santa Cecilia main concert hall (with 2,800 seats). It is at the same time, a large and tense reflection on Faust's damnation where the protagonist (Gregory Kunde, this time in very good shape) dialogues with the orchestra and the chorus (which fulfills different roles: women, good angels, evil angels). Marlowe's text is mostly in Italian rhyming verse translation (with the exception of the last section), whilst in my opinion, the original English text would have been musically more meaningful.
Liszt's is a very different reading of the myth, not only because it is based on Goethe's rather than on Marlowe's but because the rarely performed Faust-Symphonie would have been considered innovative, even avant-garde when it was premiered in 1857. It is useful to recall that Liszt had made the small city-state of Weimar the center of European musical innovation at the time; in its small Opera House, Wagner's Lohengrin had its premiere and musical research found a welcoming roof there. The magnificent score is innovative even now. Firstly, it is half-way between a symphony and a symphonic poem. Then, its three parts are psychological analyses of the three protagonists of Goethe's UrFaust (the first version of the masterwork): Faust, Marguerite (Gretchen) and Mephistopheles. The final movement is an epilogue from the final scene of the full Faust, the redemption of the protagonist and of humanity -- with just the same two lines concluding The Symphony of a Thousand. There the human voice enters the orchestral score: a tenor (Kunde) and a men's chorus. The total duration is nearly seventy minutes, but the movements are quite different in size and content. The initial 'Faust' movement is a very loose 'sonata' form with a short central development and a protracted recapitulation, with a process of thematic transformation -- an opening theme made up of arpeggio and augmented fifths and a slow crescendo at the end with chromatic elements (quite a novelty at that time). It lasts over thirty minutes; it a portrait of both the protagonist and of the composer. The 'Marguerite' movement is in the mellow and affectionate A flat major: flutes, clarinets, oboes and strings detail her virginal innocence at first, and her obsession with Faust later, as well as her final tragic end. It lasts about fifteen minutes. The compact twelve minute 'Mephistopheles' movement is where chromaticsm and even atonality appear together with the rhythm of a fantastic 'scherzo'. Then the real surprise: the short and very diatonic epilogue in C major with the tenor and the 'Chorus Misticus'. No doubt, the mid-nineteenth century audience was flabbergasted. Today's audience is enthralled.
Before making a few general comments on Pappano and the orchestra, let us spend a few words on The Symphony of a Thousand. It is rarely heard live because of the resources it requires; if not a thousand performers, at least some five hundred. It is a real blessing to hear it twice within the short span of a few weeks. It is made up of two parts: a late Romantic adaption of the chorus Veni Creator (composed by the Archbishop of Mainz in 850 AD or earlier) and the final scene of Goethe's Faust. In 1980 Michael Steinberg published documents showing how Mahler was attracted by the second part of Faust, especially by the relationship between the protagonist and Helen of Troy; an episode, however, ignored in the final version. The very concise choral first part is juxtaposed with an expanded and very dramatic second part for a total duration of about eighty minutes. The second part is made up of individual short scenes connected by Leitmotive; in the finale, the ascending theme of Veni Creator is back in fortissimo with full orchestra, double chorus and most of the soloists in an exploding E Flat of the last words Das Ewig Weibliche/Zieht uns hinan. Just the same words that conclude Liszt's Faust-Symphonie which Mahler himself had conducted a few times.
The conceptual aspects are rather complex and dealt with in A Double Experiment. There are a variety of ways to approach The Symphony of a Thousand: Claudio Abbado has his philosophy in print, Georg Solti has a delicate, nearly chamber music, touch, Seiji Ozawa is full of fire. Gianandrea Noseda (as well as Pappano) has a long experience of music as theatre. Thus 'his' Symphony of a Thousand is a highly dramatic melodrama. In Rimini, Gianandrea Noseda's baton was swift but the tempos were slowed to accentuate the dramatic impact. There is a strong justification for this: the text of the second part is full of scenic details -- so many that I have often wondered why, to the best of my knowledge, it has never attracted opera houses for an expensive, but enthralling, fully staged production. Pappano has strong feel for theatre: thus, under his baton The Symphony of a Thousand becomes an operatic melodrama. The scenic approach also dominates his conducting of D'Amico's Veni, Veni Mephistophilis as well as of Liszt's Faust-Symphonie. The Santa Cecilia chorus was The China National Chorus; Ciro Visco and Vijay Upadhayaya directed the two choral formations as well as the large children's chorus.
Pappano had two distinct advantages over Noseda: a) better acoustics than at the Turin Lingotto or the Rimini Congress, and b) a better group of soloists. (In the Turin-Rimini performances some of the soloists had to be called in at the last minute.) Among the eight soloists, especially important were Christopher Maltman Pater Ecstaticus), Manuela Uhl (Magna Peccatrix) and Sara Mingardo (Mulier Samaritana). Doctor Marianus, sung and acted by Nikolai Schukoff, was quite interesting. In line with Pappano's concept, they were credible real characters, not just voices.
A final footnote: Gregory Kunde has made his career mostly with performing Rossini, Bellini and Donizetti bel canto. His voice has darkened. He appears to have had quite a few problems; eg, I remember a very poor vocal performance of his in Rossini's Semiramide at the 2003 Rossini Opera Festival. Now, on the one hand, he has recovered. (We will see how he will fare inSemiramide on 18 November at the Teatro San Carlo in Naples.) On the other hand, he has taken the intelligent route of transitioning to a different type of repertory -- what Chris Merritt did a few years ago.
The audience's reactions? Ovations on 22 October, a warm success on 5 November.
Copyright © 8 November 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

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The Lady without the Lake in Music and Vision 3 novembre

The Lady without the Lake
Rossini at La Scala,
reviewed by GIUSEPPE PENNISI

La Donna del Lago is one of the most interesting and least performed of Rossini's operas. It is interesting not only for its expanded melodies, tormented abandons, enthralling outbursts and singing which springs from direct reactions to emotions and events. One of the main reasons for its importance in music theatre history is that in 1819 the work anticipates Romanticism, in the description of nature and landscapes, in the special musical tint as well as in musical 'numbers' as long as an entire scene. Only two other Rossini operas contain such anticipations: Maometto Secondo (in its ill-fated Neapolitan version) and Guillaume Tell. Not all musicologists agree that should Rossini have resisted the temptation of 'early retirement' (and royal pension) at the age of thirty seven, he would have left Classicism for Romanticism; many, especially in Italy, consider La Donna del Lago and Guillaume Tell as indications that his path would have been grand opéra in the French style. I tend to feel like Philip Gossett (University of Chicago) and Giovanni Carli Ballola (University of Lecce) that Rossini was already well on his way to Romanticism in 1819. This was, of course, a different brand to the romantic melodrama of Verdi, who was on a trail much closer to Weber's -- he had heard Der Freischütz in a French adaptation -- and Marschner's with strong emphasis on the description of nature, on the rule of the senses and even on erotic expressions.
La Donna del Lago is rarely performed because of the voices it requires. Young Gioacchino Rossini had very little time to compose the opera on a Leone Andrea Tottola libretto after a Sir Walter Scott novel in verses (just titled The Lady of the Lake and quite well known to Italian upper class in its French translation). He had to step in because Gaspare Spontini had failed to meet his contractual obligations to the Teatro San Carlo. Rossini left the 'recitativi' to his students because he also had other 'commissions' to attend to and, furthermore, he was in the middle of a complex relationship with his future wife, the soprano Isabella Colbran, seven years older than himself and at the center of a ménage à trois with the composer and with the employer of both of them -- the impresario Domenico Babaja. Thus, on the one hand, Rossini reversed his erotic relationship with Isabella in the score. On the other, he had to make do with the best singer the Teatro San Carlo could offer. This meant that the protagonist had to be Isabella Colbran, a very special, indeed, unique voice -- an 'amphibious' soprano who could reach the heights of lyric coloratura but also quickly descend to very low tonalities -- only a few singers (Montserrat Caballé, Anna Caterina Antonacci, Frederica von Stade, June Anderson and now Joyce DiDonato) -- have those features. Next to her, in line with the classical Neapolitan tradition, her 'true love' had to be a contralto; the Teatro San Carlo could supply Rosmunda Pisaroni. The company had also a full army of tenors. Rossini picked two: Giovanni David, a lyric tenor with an acute register and flair for flowery vocal ornamentation, and Andrea Nozzari, with a darker register, nearly a bari-tenor who could, however, reach and sustain acute in D major. The company had plenty of basses, sopranos and mezzos for all the other roles. In performances nowadays, the main challenge has always been to find the 'amphibious' soprano and the two tenors. Even the Rossini Opera Festival had to make do with a 'full soprano' rather than with an 'amphibious soprano' in its three productions of La Donna del Lago.
The production I saw and heard on 29 October 2011 at the Teatro La Scala is a joint venture between the Paris Opéra, the Milan Opera House and the London Royal Opera House. It was seen in Paris in 2010 and will reach London in 2012. The vocal difficulties have been solved by entrusting the role of the protagonist to Joyce DiDonato, and because her sweetheart is Daniela Barcellona; the flowery lyric tenor is Juan Diego Flórez; the 'other' tenor John Osborn alternates with Michael Spyres, the bass is Balint Szabo. José Maria Lo Monaco, Jaeheui Kwon and Jihan Shin take the other, less important roles. In addition, in La Donna del Lago, the chorus is a real protagonist from the very beginning.
The orchestral score has some of the most colored pages composed by Rossini, especially in depicting the landscape (the Northern Lake Region and Scotland's mountains), but the main attention is in accompanying and sustaining the voices. We get it from the very beginning: the long and complex E-flat major 'introduction' (not a symphonic overture) which begins and ends with two different sets of Scottish clans -- the rebels led by Douglas and the royalists accompanying King James V disguised as a hunter -- threatening each other. Between the choral movements, we are introduced to the protagonist, Elena, the lady of the lake, in the famous 'barcarole' (Oh mattutini albori), and then her duet with Giacomo who falls in love with her. The sections are linked with one another by horn calls (which enhance the hunting, and warring, atmosphere). Also in the 'finale primo' when Malcolm, Elena's real lover, appears to lend strengths to the rebels' forces against the King, he is accompanied by a stage band with tone directly derived from the horn calls in counterpoint with hymn of the Scottish Bards until a final E-flat major, just as in the beginning of the one hundred minute long first act. This procedure of evocative mnemonic leit-motive (quite different from Wagnerian leitmotive) would become a generally accepted practice in German Romanticism (eg Weber's Euryanthe). In a 1992 La Scala production (recorded by Philips), Riccardo Muti gave prominence to the richness of the orchestral score.
In the current La Scala production, Roberto Abbado takes a different approach: as attention is directed to the voices, he has the orchestra supporting them so that the melodic material has the primacy. In two sections, a comparison between Muti (as recorded and filtered through the listener's memory) and Abbado is startling: Giacomo's second act 'cavatina' Oh Fiamma Soave a one-movement aria when Flórez could prove his virtuoso skill, the second act trio Alla Ragion Deh Ridea (nearly a 'terzettone' for length and complexity) when under Abbado's baton, the orchestra almost stepped back so that DiDonato, Flórez and Spyres could reach a dramatic height and the final rondo with chorus Tanti Affetti in Tal Momento to strengthen DiDonato's most important vocal effort, a true utopia of happiness.
At this point, readers may wonder why in this review I do not follow the usual approach of discussing, before the musical aspects, dramaturgy, stage directions, stage sets, costumes and lighting as I normally do because opera is music theatre, after all. The three major European opera houses involved have done a great job in selecting the singers, Roberto Abbado and the La Scala orchestra (as well as Bruno Casoni and the Teatro alla Scala Chorus) have been excellent in all the other musical aspects. However, Lluís Pasqual, with Ezio Frigerio and Franca Squarciapino as his accomplices, spoiled the party. In the program, Pasqual's essay states that in La Donna del Lago, the music is so beautiful that there is no need for action; the protagonists are 'pieces of characters' who 'enthrall us with their music and their feelings' and, as a result, staging ought to be 'almost like a concert in its purest form with light quotations of a theatre which does exist only in our memory'.
As matter of fact, the staging depicts the ruins of a neo-classical theatre. The lake appears only in a distant painted scene for a few moments, thus Elena and Giacomo do not cross it in a small boat in the first act (when their duet is a 'barcarole') but just walk throughout the stage. More startling, after the introduction, the two Scottish fighting groups are singing war anthems and illustrating the 'wild animals' in the forest and hills but the men are in white ties and their women in long dresses of the 'roaring twenties' style; all are sipping champagne. Pasqual must have a special feeling for the 'Charleston Years'; a few years ago, at the Rossini Opera Festival he moved the action of Le Compte Ory from France at the time of the Crusade to anywhere in Europe and the US in the nineteen twenties when, before the great Wall Street crash, young people have a happy time with sex and drinks. In this La Donna del Lago, the battle scenes appear to be staged as a vaudeville. To make things even worse, while the chorus is in Merry Widow attire, the principals are in very elaborate and flashy Renaissance costumes -- such as those in a Metropolitan House production some forty years ago.
I'd love a CD but beg to be spared from a DVD.
Copyright © 3 November 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

GIOACCHINO ROSSINI
LA SCALA
MILAN
ITALY
ROMANTICISM
SCOTLAND
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A Rather Special Interpretation in Music & Vision 29 ottobre

A Rather Special Interpretation
GIUSEPPE PENNISI was at the opening night
of the new production in Florence
of Janácek's 'The Makropoulos Case'

As reported this summer on the basis of a new Salzburg-Warsaw production (see M&V, 22 August 2011, Faith and the Devil), Vec Makropoulos is one of Janácek's last works. Premiered in 1926 in Brno, the music drama -- a more appropriate term than 'opera' -- is based on a then successful play by Karel Capec which appears like a thriller: the gradual uncovering of the mystery surrounding the opera singer Emilia Marty, who is in possession of very detailed information about facts and documents long past (and of critical importance in a major trial which has lasted over one hundred years). She exerts a strange fascination on everyone coming into contact with her. In a compact play, we discover that due to a strange set of events and a potion -- the Vec Makropoulos -- she has been living for 337 years. Her original name was Elina Makropoulos: she has changed it several times (but always keeping E M initials). She lost the Vec Makropoulos (ie the recipe for the potion) in about 1820, and unless she finds it again, she will have to die. Well, she gets back into possession of the Vec Makropoulos but realizes that she is tired and no longer has the desire to live for another three hundred years. During the previous three centuries, she has lost all her friends and affections; now she wants to die. She gives the Vec Makropoulos to a younger up-and-coming singer, Krista, who decides to burn it.

Miro Dvorksy as Albert Gregor and Angela Denoke as Emilia Marty in Janácek's 'Vec Makropoulos' at the Teatro Del Maggio Musicale Fiorentino. Photo © 2011 Gianluca Moggi. Click on the image for higher resolution
The opera is, perhaps, Janácek's most successful attempt to merge words with tonalities so that the audience could grasp each and every nuance of a real trial thriller lasting ninety minutes (instead of the nearly four hours of Capec's play where the plot is intertwined with long philosophical and religious discussions); however this can hardly be fully appreciated unless the audience understands Moravian (the language of the libretto) and often the music drama is performed in translation.

Miro Dvorksy as Albert Gregor and Angela Denoke as Emilia Marty in Janácek's 'Vec Makropoulos' at the Teatro Del Maggio Musicale Fiorentino. Photo © 2011 Gianluca Moggi. Click on the image for higher resolution
Vec Makropoulos was revived in the US in a much celebrated New York City Opera production that toured extensively. The music drama reached Italy as late as in 1960 in a concert performance by the national broadcasting company (RAI). The first fully staged production was heard and seen in Florence in 1966 as part of a tour by the Brno Opera Company; although the performances were quite successful, several years went by before the music drama was back in Italian theatres. The revival was in 1982 in a rather peculiar tour in Reggio Emilia, Piacenza, Parma and Modena; the conductor (Joseph Kuchinza) and the protagonist (Nadezna Kniplova) were Moravian but most of the others in the cast were Italian and each one sang in her or his own language. A rather confusing arrangement. A different production in rhythmic translation in Italian was staged in Florence in 1983 with (as protagonist) the American soprano Josephine Barstow whose diction left a lot to be desired -- once more a less than fully satisfactory way to handle such a complex work. It was followed by a production in Italian which I saw in Turin in 1993 and in Naples in 1999; Raina Kabaivanska was the protagonist. The same production was presented in Bologna in 1994; stage sets and costumes of this Turin-Bologna-Naples production were used for a 2009 production in Moravian at La Scala. In my opinion, the Italian 'versions' did not help to understand the tight dialogue on stage and missed out the careful work to mould words and tonalities also because, until E M's final arioso, the music drama is constructed on musical fragments joined in a large variety of combinations and intertwined by full orchestra 'intermezzo'; a real challenge for both the orchestra and the singers. The protagonist requires a very strong personality and a great vocal capability. The Florence Opera House made the right decision in choosing the original language with supertitles in both Italian and English.

Angela Denoke as Emilia Marty and Andrzej Dobber as Jeroslav Prus in Janácek's 'Vec Makropoulos' at the Teatro Del Maggio Musicale Fiorentino. Photo © 2011 Gianluca Moggi. Click on the image for higher resolution
The Florence production was unveiled on 25 October 2011, and this report is based on that opening night. The stage direction is very different from that seen last August in Salzburg and some time ago in Aix en Provence (not to mention the Turin-Bologna-Naples-La Scala production). It is entrusted to a well known American movie author, William Friedkin (The Exorcist, The French Connection, To Live or Die in L A), famous for 'action films', even if he has recently turned also to opera directing. Along with William Friedkin, there is his most favoured 'special effects' expert, Michael Currer (for the sets); the costumes are signed by Andrea Schmidt-Futtere. No doubt there is a lot of action and excellent acting on stage, but Friedkin and Co seem to forget that under the appearances of a thriller, Vec Makropoulos is a philosophical and even a religious work on the meaning of life and death. Also, from a mere dramaturgical viewpoint, the twenty-five minute intermission after the second act lowers the tension of the drama and softens the thriller. Of course, the final 'special effects' are impressive; yet they are more apt for Wagner's Götterdämmerung than for Vec Makropoulos. This is also because they are not fully in line with the music from the pit.

Angela Denoke as Emilia Marty in Janácek's 'Vec Makropoulos' at the Teatro Del Maggio Musicale Fiorentino. Photo © 2011 Gianluca Moggi. Click on the image for higher resolution
The musical direction was entrusted to Zubin Mehta, his debut with this music drama at the age of seventy-four. His arm movements were large and his tempos nearly late romantic -- quite different from the style of Esa-Pekka Salonen in Salzburg or of Simon Rattle in a not so far away production in Aix-en-Provence. He is certainly more at ease with the romantic and late romantic repertory than with Janácek; nonetheless the orchestra responded very well to his conducting. The overall result was a rather special interpretation of the score.

Michael Ebner as Hauk Sendorf and Angela Denoke as Elina Makropoulos in Janácek's 'Vec Makropoulos' at the Teatro Del Maggio Musicale Fiorentino. Photo © 2011 Gianluca Moggi. Click on the image for higher resolution
Angela Denoke (E M) is one of the few sopranos who can cope with a role where she has to go from conversation to declamation to a large arioso with impervious Cs; she received ovation in Florence, as in Salzburg a few months ago and in La Scala in 2009. Miro Dvorsky, a good 'spinto' tenor, is Albert Gregor, E M's great-grandchild falling in love with her. Andrzej Dobber, an effective baritone, is a mellifluous Jaroslav Prus, who sells E M the 'Vec Makropoulos' for some (frigid) sex. Mirko Guadagnini is Jaroslav's son, who commits suicide when he understands that his father has had intercourse with the woman he fell in love with. Jolana Fogasová deserves special praise as the young Krista who burns the 'Vec Makropoulos'. A very successful evening.

Jan Vacik as Vitek in Janácek's 'Vec Makropoulos' at the Teatro Del Maggio Musicale Fiorentino. Photo © 2011 Gianluca Moggi. Click on the image for higher resolution
Venice's La Fenice has Vec Makropoulos in its 2012 program; it may be a good idea to revive this production, with some staging corrections.
Copyright © 29 October 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

LEOS JANACEK
ZUBIN MEHTA
FLORENCE
ITALY
CZECH REPUBLIC
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Complex Orchestration in Music and Vision in Musik & Vision 17 Ottobre

Complex Orchestration
GIUSEPPE PENNISI visits the Verdi Festival,
which is short of money but not of ideas

In Parma and the surrounding areas, October is the month of the Verdi Festival. Not all musicologists agree on the need, or even on the desirability, for a festival in honor of Giuseppe Verdi. Maestro Gianandrea Gavazzeni, for instance, used to say that in every major city of the world, Verdi is being celebrated every night in at least one of the city's theatres; consequently, there would not be any need for a special event or series of events. Verdi is neither Wagner (who had a temple built in Bayreuth to perform his 'music drama') nor Rossini (whose major works, especially the opera seria, had been almost forgotten for nearly two hundred years). Nonetheless, Parma is fond of 'its' Verdi and for decades the boos from the upper balcony of the Teatro Regio have scared the most famous tenors and sopranos. In addition, as the Verdi bicentenary approaches, the city has developed a program to produce all twenty-seven Verdi operas in 'reference' editions that could be shown on TV around the world and that would be packaged in an elegant DVD box.
This program started well some six years ago, but the financial crisis has gradually taken a toll on it. Last year, the Festival was quite 'stormy', as I described in Music & Vision on 16 October 2010 [see An Icy Reception]. Lack of money had started to hinge upon quality. This year, lack of funds was replaced by dearth of finance. The budgets of both the central Government and the local authorities have had severe reductions with the view of making 'sustainable' Italian public debt (now around 120 per cent of GDP). The recession has had an impact of the liberalities of firms and banks: since 2008 the Italian economy has had a six per cent contraction. Until 1 September, there were doubts that the 2011 Festival could take place. By hook or crook or by a sheer miracle, on 1 October the curtains of the Teatro Regio were raised at 8pm to a new production of Un Ballo in Maschera. The program includes three operas: Falstaff and Il Trovatore, Un Ballo in Maschera, and in addition a series of concerts, special sessions to prepare children for Verdi's operas, seminars, debates. Well, almost every night until 30 October, in Parma and nearby there is something on about Verdi. Il Trovatore is performed in the small theatre of Busseto (Verdi's birth place) by an international cast of young singers selected after a keen competition.
Before reviewing three of the events, a general comment: wits can replace money. Thus, a Festival short of money needs not to be short of ideas. The protagonist of the musical comedy Fiddler on the Roof used to tell his daughters that 'nobody should be ashamed to be poor ... but there is no reason to be proud of it either'. All in all, on the basis of the three performances I reviewed, the 2011 Festival is more interesting and has higher quality that the financially better endowed 2010 Festival.
Let us go to the operas. I saw the 9 October 2011 performance of Un Ballo in Maschera, a matinée, starting at 3.30pm, the third performance of a series of nine in the schedule. I recently discussed the opera in M&V, on 16 August 2011 [see A Real Triumph]. Thus, I focus only on the production. The stage direction, sets, costumes and lighting were entrusted to Massimo Gasparon, one of the best Italian directors. With little budget, he was able to use the relics of what was left of a 'historical' production signed by Pierluigi Samaritani a quarter of a century ago but regretfully manipulated for a revival in the late nineties. Gasparon integrated with new stage elements what was left of Samaritani's work. The original production was highly traditional and elegant with painted sets; thus, the production is traditional but it is also a pleasure for the eyes. Even though for censorship reasons the libretto sets the drama in Boston during colonial times, Gasparon (and Samaritani) respected Verdi's inner feeling that the lust, friendship and power politics plot should evolve in a major continental Royal Palace and its surroundings. Thus, the Boston Governor's Palace looks like the superb Royal Palace in Caserta (near Naples) designed by Luigi Vanvitelli (one of the most important eighteenth century Italian architects) or even Versailles.

A scene from Act I of the Verdi Festival 'Un ballo in maschera' in Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
The musical direction was the responsibility of Gianluigi Gelmetti, who was able to strike the very delicate balance between 'conventions' (for example, this is the only Verdi opera with a coloratura soprano in a trouser role) and innovation (this is the first Verdi opera where there are no set numbers but each 'number' is an entire scene). In addition, Gelmetti kept the tempos quite well and, more importantly, from the pit gave the right atmosphere to the second act duet -- the sole 'carnal' duet in Verdi's repertory. Gelmetti showed also how important counterpoint is in this opera, in the introduction, at the end of the second act. An aspect often overseen by several conductors.

A scene from Act II of the Verdi Festival 'Un ballo in maschera' in Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
Un Ballo requires special voices in the traditional four Verdi protagonists: a 'spinto' tenor, a dramatic soprano, a softly agile baritone and a mezzo/alto. It also requires a 'coloratura soprano' and a chorus as a principal. Francesco Meli has fully completed his transition from a Mozart lyric tenor to a 'spinto' as he demonstrated in La rivedrò nell'estasi and in E' scherzo od è follia in the first act and in the second act grand duet. He achieved his best in the final scene from the Cs major Ella è pura to 'mezza voce' and 'pianissimo'. Next to him, the young American soprano Kristin Lewis; she has a great volume, a good intonation and perfect Italian; a bit uncertain in the second act duet, she deserved the accolades she had after Morrò, ma prima in grazia. Vladimir Stoyanov and Elisabetta Fiorillo are very experienced Verdi baritone and mezzo/alto, respectively. The real surprise was Serena Gamberoni as a sparkly Oscar. A great success.

From left to right: Antonio Barbagallo as Samuel, Vladimir Stoyanov as Renato and Enrico Rinaldo as Tom in Act III of the Verdi Festival 'Un ballo in maschera' in Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
On 10 October 2011, I was at the opening night of a new production of Falstaff which will travel to the Hong Kong International Lyric Music Festival and, maybe, also to Shanghai and Beijing, before returning to Italy next season. The dramaturgy is signed by the well-known British stage director Stephen Medcalf, the sets by Jamie Vartan and the lighting by Simon Corder. Andrea Battistoni, the twenty-five-year-old rising star of the Italian conducting firmament, is in charge of the musical direction. Ambrogio Maestri (Falstaff), Svetla Vassileva (Alice) and Luca Salsi (Ford) head the cast.

The Teatro Farnese in Parma. Click on the image for higher resolution
Before going to the specifics, it is important to say that Falstaff is not performed in the 950 seat Teatro Regio but in the almost 2,500 seat Teatro Farnese, an enormous wooden structure with the shape of an amphitheatre around a large arena. It was built in the years 1618-1636, not for musical events but to celebrate the visit of the Duke of Tuscany with a major show, including horses, dances, parades and also some musical accompaniment. It is within the Parma and Piacenza Duke's Palace (now a National Gallery of Arts). Because of the high costs of organizing shows (mostly horse games and tournaments) in such a structure, from 1638 to 1732 the Teatro Farnese had been used only eight times. Then, it became a storage space. Bombed during World War II, it was rebuilt to the original design in the 1960s, but only as recently as 12 June 2011 was it utilized for a Mozart orchestral concert conducted by Claudio Abbado. This production of Falstaff is the first time that an opera or a play has been performed in the theatre.

Mattia Denti as Pistol in Act I of the Verdi Festival 'Falstaff' in Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
The location is flabbergasting: the audience walks into the Renaissance sculpture and painting gallery and then, through a comparatively small door, enters the huge structure where a temporary stage and pit had been constructed. The large arena had been converted into rows of orchestra stalls and the amphitheatre into an elegant seven row tier. With a few props, Simon Corder has developed a fully Shakespearean stage and Stephen Medcalf a very fast action because he had at his disposal excellent singers/actors, with even acrobatic skills. There is also plenty of slapstick -- the audience laughs a lot. The production will, no doubt, be appreciated in Hong Kong. However, as I mentioned in M&V on 3 February 2010 [see The Quality of the Cooks], Verdi's two comic operas are not like farces. Especially, Falstaff is a reflection by an eighty-year-old composer about the stages of life (and of love) in a world which is 'a jest'. I would prefer a less farcical and a more melancholic approach.

A scene from Act I of the Verdi Festival 'Falstaff' in Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
Among the singers, Ambrogio Maestri is the best Falstaff available on today's world market. Luca Salsi is an effective Ford. I would prefer a more lyric Fenton than Antonio Gandia -- an excellent athlete in jumping from trees and in love making scenes. Luca Casalin, Patrizio Saudelli, and Mattia Denti are effective as Caius, Bartolo and Pistola. Altogether, the women's group is more compact; in addition to Svetla Vassileva, it includes a charming Barbara Bargnesi (Nannetta), a tricky Romina Tomasoni (Mrs Quickly) and a clever Daniela Pini (Meg).

From left to right: Patrizio Saudelli as Bardolf, Ambrogio Maestri as Sir John Falstaff and Mattia Denti as Pistol in Act I of the Verdi Festival 'Falstaff' in Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
The acoustics of the Teatro Farnese are far from perfect. In the first and in the second act, I was in a central row in the orchestra stalls; there appeared to be quite a bit of uncertainty in the pit. For the third act, I moved to the upper row in the amphitheatre; the orchestra sound was much better. I still have the doubt that it may be too early for Battistoni to handle Verdi's most complex orchestration. This is an orchestration that has not even a reference to the late romantic style of the 1890s, but which opens the way to nineteenth century music and a rediscovery of polyphony and the art of fugue. In his gestures, Battistoni imitates Riccardo Muti. He has a lot of talent but may require a more gradual progress.

Svetla Vassileva as Alice Ford in Act II of the Verdi Festival 'Falstaff' in Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
On 8 October 2011, Verdi's Requiem was performed in the Teatro Farnese with the orchestra and chorus of Teatro Regio, under the baton of Yuri Temirkanov and a great cast (Dmitra Theodossiou, Sonia Ganassi, Roberto Aronica and Roberto Zanellato). Orchestra and chorus were on the stage, not in the pit. The acoustic was much better. It is well known that Verdi's Requiem is not a religious piece of music but a melodrama on the meaning of life. It was beautifully rendered. Ovations erupted at the end.
Copyright © 17 October 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

GIUSEPPE VERDI
PARMA
FALSTAFF
REQUIEM
TEATRO REGIO
ITALY
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Time is a Strange Thing in Music and Vision 8 Ottobre

Time is a Strange Thing
Teatro Real, Paris Opéra and La Scala
join forces for the centenary
of 'Der Rosenkavalier',
reported by GIUSEPPE PENNISI

One hundred years ago, on 26 January 1911 in Dresden, the most important 'Komödie für Musik' of the twentieth century had its premiere: Der Rosenkavalier, the unparalleled and unsurpassed masterpiece by Hugo von Hofmannsthal and Richard Strauss. To celebrate the centenary of this really unique comedy, three major European opera houses have joined forces because a production of Der Rosenkavalier requires a major effort in terms of orchestra, voices, stage sets, costumes, lighting and alike. I was fortunate to see the second performance of the cycle at La Scala on 4 October 2011.
Der Rosenkavalier is so universally known that it does not need any presentation. Even in Italy, where in March 1911 it received a rather lukewarm La Scala reception (but it was sung in translation whereas one of the marvels of the Komödie für Musik is the perfect match between words and music), the opera has been staged quite frequently in all the major theatres during the last twenty years. Thus, this review focuses on the specific mise en scène.
Firstly, it is important to emphasize that, even though the three theatres label it as a new production, Herbert Wernicke died suddenly in 2002. Thus, this is a remake of what Wernicke had originally produced for the 1995 Salzburg Festival, when the musical direction had been entrusted to Lorin Maazel and an all-star cast had been selected. The Wernicke staging was successful at the Festival and in several theatres where it was proposed in the late nineties. It was revived at the 2009 Baden-Baden Festival, when a DVD was produced; the DVD is often shown on selected TV channels such as Mezzo and Classica. The Madrid-Milan-Paris joint venture is not the Baden-Baden revival on tour. The staging has been updated and revived by Alejandro Stadler. Also, new sets and new costumes have been prepared. Following Wernicke's style, during rehearsal, Stadler had almost a maniacal attention to acting. In addition, a young, and up-and-coming, musical director was chosen: Philippe Jordan, who in his early thirties is already in charge of the musical aspects of the Paris Opéra. Finally, in line with Wernicke's project (and also with the Hofmannsthal-Strauss' idea), a lot of care has been devoted to select a cast of singers who would have the physique du rôle of the characters and would also be great actors.
Way back in 1995, the Wernicke production was seen to be different from that considered 'the reference staging' -- ie the Otto Schenk production that for the last thirty years or so can be seen in Vienna and in Munich as well as on a DVD conducted by Carlos Kleiber. The Otto Schenk production is very similar to that seen in Dresden in 1911: we are in an unreal circa 1760 with an overflowing rococo so rich as not to be believed. The stage sets and costumes are based on Alfred Roller's sketches for the Dresden 1911 premiere; on his own account, Roller had borrowed many an idea from a series of William Hogarth's engravings. The sets and the costumes are so overblown that they willingly look unreal. As a matter of fact, the entire plot is based on the reality of the unreal: the silver rose ceremony at the basis of the story has never existed in Austrian traditions, the waltz (a basic element of the opera) was only a countryside folk dance -- mostly in Tyrol and Styria -- whilst in the Vienna palaces, aristocrats would engage in the gavotte or the weller, and les nouveaux riches either did not exist or, if they did, they were not a problem. Nonetheless, through the reality of the unreal in a stage setting where everything is excessive, the Otto Schenk production succeeded in conveying all the main messages of Der Rosenkavalier, especially that, as one of the protagonists says in the first act, 'time is a strange thing ...'. We must metabolize the fact that time goes by, both for the individual and for society. Schenk's production also pays a lot of attention to the most explicit comic aspect of the Komödie für Musik. Many productions all over the world have been more or less successful imitations of Schenk's work.
In 1995, Wernicke's work was highly innovative as compared to Schenk's. There was no overemphasized rococo: on the contrary, the stage set was a play of mirrors in a rather undefined period with costumes of the eighteenth century mixed with those of the nineteen fifties. Also the comic aspects had a less important place than in the Vienna and Munich 'reference' production. Finally, the main theme emerged to be a melancholia about the passing of time. Now we have seen more 'innovative' yet questionable productions -- eg Robert Carsen's in Salzburg in 2004 with the third act set in a brothel with many nude young men, or Keith Warner's in Spoleto in 2000 where each act took place in a different century. Hence, Wernicke's production appears traditional even if quite different from Schenk's and those of his imitators. A final comment on the conceptual aspects of the staging: because a-temporal melancholia is the main theme, the (silent) character of the Feldmarschallin's little black servant is replaced by a Pulcinella, a sweet and sour commedia dell'arte masque in both the Neapolitan and the French tradition. Also, as the single set of mirrors and projections allow it, in the third act there is an open-stage change of scene: from the tavern we are in a park in the Fall (the Wiener Prater?) where Octavian and Sophie are lying on the floor holding the silver rose (in preparation for love making or for death?), and Pulcinella replaces the silver rose with a red one. Thus, a fascinating stage production which raises many unanswered questions. In his analysis of Der Rosenkavalier, the German musicologist Gerd Uekermann underlines that, although the plot is set in the past, Hofmannsthal was aiming at 'timelessness', thus embracing the present; in 1911, the present was the decline of 'Felix Austria'. In 1995, and even more in 2011, is it the decline of Europe, at least of a European way of living?
The musical aspects of the production are melancholic but less disquieting than the staging. The Italian musicologist Quirino Principe emphasizes the perfect match of words and music. I rather feel as the British musicologist David Murray stated: 'the music glories in Hofmannsthal's text which satisfied Strauss like nothing before'. Philippe Jordan and l'Orchestra della Scala utilized very skillfully their 'symphonic' facility to its full scope with sumptuous effects and elevated intensity, yet with Strauss' modern penchant (in 1911) to insert chamber scale music into his opulent tapestries. In Der Rosenkavalier, Strauss outdoes Wagner with conversational music where the distinction between recitatives, arioso and formal set pieces are blurred. Jordan knows it very well and handles it just perfectly, eg like the great conductors of the past. For instance, even if the score is clearly tonal, Jordan uncovers some bold chromatic experiments that are seldom noticed.

Anne Schwanewilms as the Marschellin in Act I of 'Der Rosenkavalier'. Photo © 2011 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala. Click on the image for higher resolution
No doubt, of the four principal characters, Octavian has the most difficult role: he is nearly always on stage and has to be a seventeen-year-old sex-starved young man, an adolescent torn between a marvelous thirty-three-year-old mistress (the Feldmarschallin) and a fifteen-year-old girl just out of school (Sophie), and, in disguise, a little whorish chamber maid. His role is very tough in the first scene where his mezzo voice has to match the horns in a great fervor. Joyce Didonato had the stamina to cope with the part and not to arrive too tired at the final duet-carol in G major where, with Sophie, he has the innocence of a babe in the woods.

Joyce DiDonato as Octavian and Anne Schwanewilms as the Marschellin in Act I of 'Der Rosenkavalier'. Photo © 2011 Teatro alla Scala. Click on the image for higher resolution
Anne Schwanewilms is a stunning Feldmarschallin; I also heard her a few months ago in Salzburg as the Empress in Die Frau ohne Schatten. She does not have a very strong voice, but she molds the tonalities from her Die Zeit, die ist ein sonderbar Ding very well in the first act (when she tries to have Octavian learn that 'time is a strange thing') to the E for a full-voiced and full-hearted climax in the final scene, after the Romantic D flat in Hab'mir's gelobt ... ('I vowed to love even his love for another'). Also, and importantly, she is a young and attractive woman. The initial 'just after love-making' scene is, as intended by Hofmannsthal, distant from 'Wagner's intolerable erotic screaming', but Wernicke and Stadler make her and Didonato sing in bed over each other; a difficult posture not to be covered by the orchestra.

Jane Archibald as Sophie and Joyce DiDonato as Octavian in Act II of 'Der Rosenkavalier'. Photo © 2011 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala. Click on the image for higher resolution
Sophie is Jane Archibald. Quite good vocally, especially in the second act coup de foudre and in the engrossing third act trio, but without a girlish enough appearance to be fifteen years old and just out of convent boarding school. Peter Rose is an impressive Baron Ochs both dramaturgically and vocally. He even dances quite well, and at the end of the second act he ends the reprise of Mit mir with the tricky and risky low E which many of his colleagues avoid.

Peter Rose as Baron Ochs and Joyce DiDonato as Octavian in Act III of 'Der Rosenkavalier'. Photo © 2011 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala. Click on the image for higher resolution
It is well known that Strauss did not like tenors. In Der Rosenkavalier, however, he concocted a 'bravura aria' for a tenore italiano. La Scala engaged no less than Marcelo Álvarez, and Stadler made him sing as a Luciano Pavarotti caricature; great to hear and exhilarating to see.
Generally, the rest of the large cast was good, especially Peter Bronder and Helene Schneiderman (the odd couples of Italian busy bodies and cheaters, Valzacchi and Annina) and Ingrid Kaiserfeld (Sophie's nurse). 4 October 2011 was not a very good night for bass Martin Snell (the public notary). There were too many others to comment on each of them.

Jane Archibald as Sophie and Joyce DiDonato as Octavian in the final scene from Act III of 'Der Rosenkavalier'. Photo © 2011 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala. Click on the image for higher resolution
After more than four and a half hour in the theatre, this was a very enjoyable night.
Copyright © 8 October 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

RICHARD STRAUSS
DER ROSENKAVALIER
LA SCALA
MADRID
PARIS
MILAN
ITALY
GERMANY
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A Memorable Evening in Music and Vision 8 ottobre

A Memorable Evening
GIUSEPPE PENNISI reports on the
Richard Strauss masterpiece co-produced by
Rome's Teatro dell'Opera and the Salzburg Festival

The last opera presented by the Teatro dell'Opera of Rome in the 2010-2011 season deserves very high marks. It enthralled the audience for 105 minutes, and then there erupted fifteen minutes of applause, standing ovation and accolades to the conductor (Stefan Soltesz), the protagonist (Eva Johansson) and the full cast. The Mayor of Rome awaited the artists (after they changed their clothes) and offered them and a few guests a reception to celebrate the event. The success was very unusual because Friday 30 September 2011 (the opening night of the production in Rome) was a very warm evening -- at the end of a rarely hot week; well off Romans (like the Teatro dell'Opera opening night subscribers) normally migrate to their beach homes late on Friday afternoon and leave several orchestra rows and boxes empty. Thus, in football terms, the Teatro dell'Opera 2010-2011 season ended with a well-centered full goal.

Eva Johansson in the title role of Richard Strauss' 'Elektra' with ?????????? as ??????????????. Photo © 2011 Corrado Maria Falsini. Click on the image for higher resolution
As discussed in M&V on 9 February 2010 [Sheer Tension -- the first performance of the unabridged 'Elektra'], in the Strauss-Hofmannsthal catalogue, Elektra is the opera most performed in Italy; last year, for instance, an important production toured a number of provincial Opera Houses normally accustomed to Verdi, Rossini and Donizetti, not to German music or large orchestras. (In order to produce Elektra, two of the four houses merged their orchestras.) On that occasion, I discussed the contents of the opera which in the Teatro dell'Opera has had seven different productions in the course of the last century. I also discussed the production unveiled in Rome on 30 September in M&V on 19 August 2010 [When God and Man Collide] when it was presented in Salzburg; in fact, it is a joint venture between the Salzburg Festival and Rome's Teatro dell'Opera. Therefore, this review will focus on the difference between the Salzburg and the Rome edition; the stage direction (Nikolaus Lehnhoff), sets (Raimund Bauer), costumes (Andrea Schmidt-Futterer) and lighting (Duane Schuler) are the same (and the full team was in Rome for the rehearsals), but the conductor, the orchestras and the singers are a completely different group.

Eva Johansson in the title role of Richard Strauss' 'Elektra'. Photo © 2011 Corrado Maria Falsini. Click on the image for higher resolution
The stage of the Teatro dell'Opera is wide and deep (as compared with those of many opera houses) but not as oversized as that of Salzburg's Grosses Festspielhaus. The set fits even better in Rome than in Salzburg because the dilapidated social tenement with its leaning walls and circa 1920s costumes echoes the German expressionist cinema (Fritz Lang, Friedrich Wilhelm Murnau and Hermann Warm). Thus, they heighten the obsessive and claustrophobic atmosphere of the opera. Also, on a smaller stage, the audience can better appreciate the careful acting by the principals and the choreographic movements of the chorus (who were, as a matter of fact, Elektra's chambermaids -- a set of soloists with a major counterpoint section in the opening scene of the opera).

Felicity Palmer as Klytämnestra in Richard Strauss' 'Elektra'. Photo © 2011 Corrado Maria Falsini. Click on the image for higher resolution
Elektra was performed unabridged following the most recent critical edition. Stefan Soltesz had been called at the last moment when the conductor-designate, Fabio Luisi, left the rehearsals to run to the Metropolitan Opera House to replace James Levine (who is seriously ill). Stefan Soltesz is very well known in Germany and Central Europe but not in Italy. He is now the principal conductor of the Essen Opera House and a Strauss specialist. His baton was perfect and the orchestra followed him with the precision and enthusiasm shown almost only when Riccardo Muti is in the pit. Two important points: the opera lasted 105 minutes (as conceived by Strauss, not 120 as conducted by Daniele Gatti in Salzburg) and the sporadic atonalism and the queasy harmonic passages had more emphasis in Rome than in Salzburg. Also in the final scene, Soltesz underscored (more that Gatti did in Salzburg) the violent extremes of vocal lines and histrionic moods as well as of dynamics of post-romantic orchestration and their implicit similarities with Schönberg's Erwatung (also first produced in 1909). Thus, the conductor and the orchestra showed how in 1909 Strauss was at his most advanced point toward modernist atonality, at which point he then staged a prudent retreat. Just for these aspects, the performance will deserve to be recorded because they illustrate a seldom heard aspect of Elektra. Nonetheless, the baton and the orchestra were very secure in their tonal norm against which to measure its harsh atonal effects, often disorienting the audience. Altogether, the Teatro dell'Opera had a much better 'buy' with Soltesz than with Luisi whose Salome in Bologna was, in my opinion, frankly disappointing because it lacked any tint. Good luck to the Metropolitan Opera House.

Alejandro Marco Buhrmester as Orest and Eva Johansson in the title role of Richard Strauss' 'Elektra'. Photo © 2011 Corrado Maria Falsini. Click on the image for higher resolution
The singers were wholly different from the Salzburg cast. Here a comparison would not be appropriate: readers can go to M&V on 19 August 2010 if interested in the Salzburg group of singers. Even though she had been ill almost to the date of the dress rehearsal, Evan Johansson was a remarkable Elektra and deserved the accolades at the end of the performance, by which time it was hard to remember her tonally frantic 'Agammenon' at the start of the opera -- the tonality returns at the end of the musikdrama -- and her monologue from the original D to the curdled B minor (in recalling her father) to the visionary dance in C major. Also memorable was her final wild dance to death when the curtain is about to fall. At the age of sixty-seven, Felicity Palmer (Klytämnestra) has a royal tenure on stage but shows her tormented sufferings for her crimes. Her dialogue with Elektra is one of the high points of the opera; nearly a symphonic exposition where she goes from acute to mezza voce. She provides a lesson to many singers. Melanie Diener is Chrysothemis; her desire for sex, child-bearing and life is the opposite to the starvation for death of both her mother and her sister. A lovely soprano assoluto in her waltz aria and in her confrontation with her sister when Elektra wants her to be her partner in the matricide.

Eva Johansson in the title role of Richard Strauss' 'Elektra' with ?????????? as ??????????????. Photo © 2011 Corrado Maria Falsini. Click on the image for higher resolution
There is a strong Freudian link among the three women protagonists. As often in Strauss, the men remain in the background and have no room for special vocal parts. Alejandro Marco-Buhrmester is a very effective Orest, especially in the scene when brother and sister recognize each other and embrace speechless. In that scene he can show all his qualities as a Strauss baritone. Derek Welton is his preceptor. Wolfgang Schmidt was good in his short but difficult steady C as Aegisth.

Eva Johansson in the title role of Richard Strauss' 'Elektra'. Photo © 2011 Corrado Maria Falsini. Click on the image for higher resolution
In short a memorable evening.
Copyright © 8 October 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

RICHARD STRAUSS
ELEKTRA
TEATRO DELL'OPERA
SALZBURG FESTIVAL
FELICITY PALMER
ROME
ITALY
GERMANY
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sabato 24 dicembre 2011

IL GUADO INSIDIOSO IN MonOperaio dicembre

IL GUADO INSIDIOSO
Giuseppe Pennisi
Premessa
Dopo le recenti vicende politico-parlamentari (il voto negativo della Camera sul rendiconto dello Stato 2010 ed il successivo voto di fiducia), uno dei più acuti commentatori italiani ha scritto che l’Italia è in “un limbo insidioso” (Franco, 2011). A mio avviso, l’analogia, pur suggestiva, non dà efficacemente il senso della situazione della società e dell’economia italiana: da oltre tre lustri è “in mezzo al guado” come scrissero efficacemente Bertola e Ichino 16 anni fa (Bertola, Ichino, 1995) in un saggio in cui guardavano specificatamente al mercato del lavoro e alla sua evoluzione nel primo scorcio degli Anni Novanta. Siamo “in mezzo al guado” perché abbiamo lasciato una sponda (un sistema tutto sommato protetto anche se arretrato) e non vediamo ancora l’altra e le sue caratteristiche.
Lo sottolinea una recente analisi di Georg Erber dell’Istituto tedesco di ricerca economica, il noto DIW di Berlino, nella versione in inglese intitolata “Italy’s Fiscal Crisis” (Erber, 2011). Erber (particolarmente ascoltato presso il Governo della Repubblica Federale) considera quella italiana “una delle economie più vulnerabili dell’area dell’euro”. Traccia le vicende della finanza pubblica italiana dagli Anni Novanta ad oggi, ponendo l’accento sulla crescita del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo. Non da molto credito ai vari “piani di rientro” ed a “manovre” grandi e piccole ed afferma che la situazione da “fragile” è diventata “drammatica” in seguito alla crisi internazionale del 2007-2008. Descrive con dettaglio puntiglioso i declassamenti subiti dai nostri titoli di Stato (e non solo) da parte dalle agenzie di rating. Amare le conclusioni: “l’Italia ha di fronte a sé un dilemma: come stimolare la crescita nel breve periodo e ridurre indebitamento e debito sino a rendere sostenibile la situazione della propria finanza pubblica. Anche se gli altri Stati della zona dell’euro si mobilitassero in massa, le prospettive future del Paese restano buie”.
Non è neanche incoraggiante il recente lavoro di Gabriella Deborah Legrenzi e di Costas Mileas (ambedue di Brunei University) sulla sostenibilità del debito nei GIIPS (Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna) pubblicato dal CESifo di Monaco poche settimane fa (Legrenzi, Mileas, 2011). L’analisi è originale poiché valuta la sostenibilità o meno del debito sulla base di “soglie” variabili in base allo storia economica di ciascun Paese e/o della frequenza del verificarsi di crisi finanziarie. Viene , quindi, scartata l’ipotesi, piuttosto grezza ma molto frequente, secondo cui il rapporto tra stock di debito e Pil non deve superare una determinata ed immutabile livello. Secondo i calcoli presentati nel lavoro, però, la soglia ora applicabile all’Italia è uno stock di debito che non superi l’87% del Pil. Quindi, “è naturale che gli operatori internazionali siano preoccupati e chiedano elevati tassi d’interesse”.
La rivista Moneta e Credito ha dedicato uno dei suoi ultimi numeri all’economia italiana, il n. 250 . Nel fascicolo Alberto Quadrio Curzio (Quadro Curzio, 2011) si sofferma, in particolare, sull’evoluzione dell’unione monetaria da quando è scoppiata la crisi economica e finanziaria internazionale: una prima fase caratterizzata da resistenza diversificata (con un aumento dei disavanzi e del debito , principalmente per i salvataggi bancari) seguita da una di ricostruzione. Questa richiede, però, azioni per la crescita. Meno ottimista Alessandro Roncaglia (Roncaglia, 2011) che individua le radici nella crisi in radici culturali di lungo periodo e sottolinea come, a suo avviso, non potrà essere superata ricorrendo a più e maggior mercato (privatizzazioni, deregolamentazione e simili). Dal canto suo, Pierluigi Ciocca (Ciocca , 2011) ricorda le analisi di Kindleberger sia sul “miracolo economico italiano” sia sulle crisi finanziarie; sorge la domanda se non ci siamo trovati impreparati alla crisi in atto dal 2007 perché privi della dotazione in capitale umano e dello slancio che sono state le caratteristiche del nostro “miracolo economico”. Mario Sarcinelli (Sarcinelli, 2011) ricorda le proposte di Ezio Tarantelli e le raffronta alla situazione attuale. Non sono sufficienti le politiche di bilancio (in specie l’obiettivo del pareggio di bilancio) per promuovere il necessario riassetto strutturale; lo avverte Antonio Pedone in un altro fascicolo di Moneta e Credito (Pedone, 2011). Il quadro complessivo che emerge dalla lettura di questi saggi è che su individui, famiglie, imprese, pubblica amministrazione , ceto politico grava una nube d’incertezza che non permette di vedere l’altra sponda.
In questa introduzione, si sono volutamente accostate analisi recenti di economisti stranieri ed italiani per indicare come le conclusioni convergano: se non c’è una prospettiva di vedere dove si va, si resta “in mezzo al guado”. Nei paragrafi successivi si delineerà come non sia stata colta l’opportunità fornita dall’unione monetaria europea di risolvere nodi e problemi di lungo periodo e come si possa delineare la nuova sponda andando verso un’economia sociale di mercato appropriata all’integrazione economica internazionale.
L’opportunità mancata dell’unione monetaria.
Si usa affermare che la crisi del debito dell’eurozona e le manovre di finanza pubblica messe in atto per tamponarla hanno numerosi punti in comune con la situazione dell’estate- autunno del 1992 (ad esempio, De Bassa, Scheresberg, Passarelli, (2011). Allora, l’unione monetaria europea era ancora in prospettiva, ma i mercati non avevano fiducia nel fatto che alcuni potenziali Stati membri (Italia in prima linea) ce l’avrebbero fatta a mantenere gli impegni solennemente sottoscritti nel Trattato di Maastricht. Pure se ci sono analogie con la crisi del 1992, il parallelo più calzante è quello con la fase che precedette la fine dell’area della sterlina dopo la svalutazione della moneta di Sua Maestà britannica, il 18 novembre 1967. In quel caso non ci fu un tracollo, con azzeramento dei pertinenti accordi, ma uno smottamento progressivo sino alla fine del 1972. Il contesto internazionale era ben diverso dall’attuale. Nata all’inizio della seconda guerra mondiale (la sterlina aveva perso dopo la prima guerra mondiale lo status di principale valuta per gli scambi internazionali), la «zona della sterlina» consisteva in una serie di accordi diretti a definire un sistema uniforme di controlli valutari (verso il resto del mondo) e di assicurare al proprio interno l’utilizzazione della sterlina come moneta sia interna sia per le transazioni con il resto della dei vari Paesi ad essa aderenti, oppure cambi fissi tra monete nazionali (da utilizzarsi all’interno di ciascun Paese) e la sterlina. Circa 80 Paesi tra grandi – come Canada e Australia – e piccoli – ad esempio le Seychelles – ne fecero parte al momento del suo maggior fulgore in base a nor¬mative uniformi ( Oliver , Hamilton 2007). Attenzione: attualmente circa 65 Paesi fanno parte dell’area dell’euro pur se soltanto 17 “soci” hanno voce in capitolo; gli altri sono “micro-Stati” (come San Marino ed il Principato di Monaco oppure il Montenegro) che hanno adottato l’euro unilateralmente, oppure sono Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico associati all’Unione Europe e con legami monetari e finanziari speciali con alcuni membri del club dell’euro (segnatamente la Francia e l’Olanda), oppure ancora Stati (la stessa Federazione Svizzera) che utilizzano l’euro come seconda moneta accanto a quella nazionale. L’analogia, quindi, è calzante.
Nell’area della sterlina, le compensazioni dei saldi delle bilance dei pagamenti diventarono compito della Bank of England, dove le sterling balances venivano depositate. Non così nell’eurozona dove invece – come dimostrato di recente da uno studio di Francesco Giavazzi e Luigi Spaventa (Giavazzi, Spaventa, 2010) - si è vissuti per 12 anni nell’illusione che i saldi all’interno dell’area si compensassero automaticamente , e che la riduzione dei tassi d’interesse fosse caratteristica permanente (o almeno di lungo periodo) dell’unione monetaria. Ciò ha comportato forti disavanzi per la Grecia, l’Irlanda, la Spagna ed il Portogallo che (anche ove non ci fosse stata una crisi finanziaria internazionale in corso dal 2007) ha causato una crescita molto forte del credito totale interno utilizzato per finanziarie investimenti a bassa produttività, nonché un aumento vertiginoso del debito pubblico.
Torniamo alla crisi, e dissoluzione, dell’area della sterlina. La Gran Bretagna uscì dalla seconda guerra mondiale con uno stock di debito pari al 250% circa del Pil; ne seguì nel 1949 una svalutazione del 30% circa del cambio della sterlina nei confronti del dollaro, concertata con il resto della zona, utilizzando anche i buoni uffici del Fondo monetario. Il quadro cambiò negli Anni Sessanta: non tanto perché i vari Paesi prendevano strade differenti (pure in ragione dei diversissimi livelli di sviluppo e differenti sistemi politici ed obiettivi di politica economica), ma in quanto le politiche interne britanniche (i laburisti guidavano la macchina) comportavano crescenti disavanzi della bilancia dei pagamenti in una fase di trasformazione del mercato internazionale (sorgeva l’eurodollaro, il primo mercato internazionale – dal lontano 1929- autoregolamentato e non gestito, dopo il 1946, collegialmente tramite il Fondo monetario). Da un lato, Londra diventò il principale cliente del Fondo monetario. Dall’altro – ricorda un acuto saggio di Ben Clift e Jim Tomlinson (Clift, Tomlinson, 2008) – dal confronto continuo ed intenso con i governi laburisti, il Fondo (nato keynesiano) diventò neo-liberale. Dato che le risorse ordinarie del Fmi non sembravano adeguate a soddisfare l’esigenza di parare il disavanzo britannico (ed americano – aumentavano , in quegli anni, le spese per la guerra in Viet-Nam) ed assicurare liquidità per la crescita mondiale, nel settembre 1967 l’assemblea del Fondo monetario internazionale approvò la modifica degli statuti per varare i «diritti speciali di prelievo», i DPS, le cui prime emissioni avvennero nel 1969. Il 18 novembre 1967 (ero studente negli Usa) il professor Randall Hinshaw (ex Sotto-segretario al Tesoro Usa oltre che noto teorico di economica monetaria), non arrivò a lezione con la solita puntualità e aspetto apollineo, ma trafelato. Non esistevano telefonini. Aveva appena ricevuto una telefonata dalla moglie e ci disse agitatissimo: «They finally did it! (alla fine lo hanno fatto!, ndr ) »: la Gran Bretagna aveva svaluta¬to del 14% la sterlina senza consultarsi con il resto della zona. Chi aveva saldi attivi presso la Bank of England prese una bella botta. Iniziò lo smottamento.
I paralleli sono molteplici: la nascita di mercati e strumenti non regolamentati (l’eurodollaro); i DPS hanno qualche punto in comune con gli «eurobond» di cui si parla oggi; i tentativi di tamponare falle (senza cambiare politiche economiche); il pericolo di smottamento per rivalutazione o svalutazione non concordata di alcuni soci. Per questo è urgente definire un percorso che eviti che la situazione si ripeta. Negli anni Sessanta, mentre montava quella che sarebbe stata la crisi della zona della sterlina, all’osteria 'Da Mario' in Via di San Vitale di Bologna (400 lire a pasto, primo, secondo, frutta ed acqua del rubinetto, vini a parte), all’ora di colazione, si incrociava spesso l’allora giovane (oggi Premio Nobel) Robert Mundell (docente alla Johns Hopkins University) a pranzo con alcuni studenti: il Lambrusco, di cui era ghiotto, lo pagava lui (e lo tracannava quasi tutto lui). In una di quelle colazioni, su un tovagliolo di carta tracciò le due equazioni essenziali del teorema dell’area valutaria ottimale che a 29 anni gli aveva dato fama e il finanziamento Fullbright per insegnare a Bologna e apprezzare l’Italia (passa gran parte dell’anno in un suo podere nel Chianti). Quel tovagliolo, ove esistesse ancora, dovrebbe essere meditato da tutti coloro che desiderano impedire che l’unione monetaria si dissolva e l’euro venga ricordato nei libri di storia dei nostri nipoti come il 'milite ignoto' dell’integrazione europea. Mundell spiegava che le due equazioni volevano dire 'effettiva' mobilità dei fattori di produzione, delle merci e dei servizi’ (da distinguersi da 'libertà di circolazione') non per uno sghiribizzo teorico per giungere al grado più alto di un’inte¬grazione economica (la moneta unica), ma perché solo con convergenza reale di produttività e di competitività l’unione monetaria può funzionare (Mundell. 1961)
Oggi tornare a quel paio d’equazioni può evitare una dissoluzione dell’unione monetaria analoga a quella della 'zona della sterlina' non tanto a ragione del disavanzo dei conti con l’estero del Paese-chiave, ma per l’acuirsi dei divari di produttività e competitività. In alcuni Paesi (tra cui l’Italia) la produttività non aumenta da dieci anni. In altri corre poiché è stata metabolizzata l’irreversibilità dell’accresciuta concorrenza innescata dall’euro. Il Paese-chiave, la Germania, ha affrontato dieci anni di sacrifici per mettersi al passo con la nuova situazione, ma non è sufficientemente grande da potere curare i mali dell’intero continente. Si ripete ancora una volta il dramma della Germania di Bismarck nel consesso europeo: la Repubblica Federale tedesca ha dimensioni e dinamiche tali che qualsiasi suo sussulto diventa un terremoto per gli altri, ma non è sufficientemente grande e forte da potersi prendere carico di tutti i problemi del continente.
Mentre ci si gingilla con nuovi strumenti di convergenza di finanza pubblica, per salvare il 'soldato semplice euro' occorre affiancarli con strumenti di economia reale tali da promuovere la convergenza di produttività e competitività e offrire a chi non è in grado di farlo una via d’uscita che non comporti un trauma per l’Unione Europea e per i Paesi (nel suo ambito) in ritardo. In questa ottica anche gli 'eurobond' dovrebbero essere visti come veicolo di sviluppo, non di tamponamento di falle. Si potrebbe pensare a un percorso decennale a tappe con indicatori di produttività e competitività (analogo al percorso di convergenza finanziaria del Trattato di Maastricht) . Chi dopo venti anni dal varo dell’euro e trenta dalla firma di Maastricht, non può (o non vuole) convergere in termini di produttività e competitività, può trovare alloggio nello «SME2» con misure fatte su misura per le sue circostanze -la Danimarca ha un tasso di fluttuazione del 2,5% rispetto all’euro, la Gran Bretagna del 30% (Pennisi, 2011).
Non c’è tempo da perdere. Il più noto economista tedesco Hans- Werner Sinn (Sinn, 2007, 2010) suggerisce che la Grecia stacchi l’ancora e torni alla dracma; in seguito, a suo parere, lo dovrebbero fare altri Stati (tra cui, forse, l’Italia). L’economista André Cabannes (Cabannes, 2011) ha lanciato addirittura la proposta di un sistema duale: Grecia, Francia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna utilizzino le loro 'vecchie' monete (dracme, franchi, lire, sterline, scudi, peseta) per le transazioni interne e l’euro per quelle europee ed internazionali, come avveniva nell’unione monetaria latina che è durata dal 1866 al 1927 . Le Banche centrali nazionali gestirebbero la liquidità delle monete nazionali, la Bce quella a livello di euro. Gli aggiustamenti, secondo l’economista, sarebbero più facili e più visibili e incentiverebbero a migliorare produttività e competitività.
In effetti, per l’Europa in generale , ed in particolare, per l’Italia, l’unione monetaria appare una grande opportunità mancata ; già agli albori della moneta unica , numerosi autori (per una rassegna Pennisi, 1999, Feldstein, 2009) avevano indicato che se i Paesi e le aree comparativamente deboli non avessero adottato misure per mutare i comportamenti di individui, famiglie, imprese, pubblica amministrazione, ceto politico per giungere a livelli di produttività e competitività analoghi a quelli dei Paesi e delle aree più dinamiche , un’unione monetaria il cui disegno era molto differente da quello della mundelliana ‘area valutaria ottimale’ avrebbe comportato un aumento delle divergenze. Ciò sarebbe avvenuto anche ove non ci fosse stata una crisi finanziaria internazionale- allora non prevista che da pochissimi economisti (peraltro inascoltati) della scuola di Hyman Minsky. A cavallo tra la fine di un secolo e l’inizio di un altro, venivano tratteggiati in lineamenti di politiche e misure economiche (sia a livello macro sia , soprattutto, a livello micro) a fronte dell’irreversibilità della moneta unica: giochi ripetuti (al fine di definire regole condivise ed applicate), simmetria di informazioni e di posizioni. La cassetta degli attrezzi degli economisti avrebbe dovuto essere applicata da individui, da famiglie, da imprese, da pubblica amministrazione e soprattutto da una classe dirigente pronta a guidare una ristrutturazione dell’economia, e dei comportamenti, analoga a quanto effettuato in Germania (Grömling, 2008). Ciò non è avvenuto negli anni in cui veniva lanciata con un ottimismo forse eccessivo l’unione monetaria. Difficile pensare che ciò possa avvenire in una fase in cui la crisi finanziaria ha innescato proteste nei confronti dei “Padri Fondatori” della moneta unica e del mondo della finanza e delle banche che, secondo alcuni punti di vista, ne sarebbero stati i maggiori benefici.
Occorre , quindi, una visione alternativa: un approdo i cui lineamenti siano visibili anche se si è ancora in mezzo al guado. Tale visione può essere un’economia sociale di mercato che,a differenza di quanto congetturato mezzo secolo fa, tenga conto delle profonde trasformazioni dell’economia internazionale, in particolare dell’integrazione economica internazionale, spesso chiamata, giornalisticamente, globalizzazione. Se ben comunicata questa visione può essere il grimaldello per far trovare, all’interno dei singoli Stati e nell’Unione Europea nel suo complesso, la coesione, il coraggio e soprattutto l’ardimento per uscire dal “limbo insidioso” ed effettuare il guado verso l’altra sponda.

Un’economia sociale di mercato per l’epoca della globalizzazione.
L'economia sociale di mercato è un approccio al benessere sociale che si propone di garantire sia la libertà di mercato sia la giustizia sociale, armonizzandole tra di loro. L'idea di base è che la piena realizzazione dell'individuo non può avere luogo se non vengono garantite la libera iniziativa, la libertà di impresa, la libertà di mercato e la proprietà privata, ma che queste condizioni, da sole, non garantiscono la realizzazione della totalità degli individui (la giustizia sociale) e la loro integrità psicofisica, per cui lo Stato deve intervenire laddove esse presentano i loro limiti. L'intervento non deve, però, guidare il mercato o interferire con i suoi esiti naturali: deve prestare il suo soccorso laddove il mercato stesso fallisce nella sua funzione sociale e deve fare in modo che diminuiscano il più possibile i casi di fallimento del mercato medesimo. Trae origine dall'Ortoliberalismo della Scuola di Friburgo di Walter Eucken, durante la crisi della Repubblica di Weimar, scuola che già riconosceva la necessità di un controllo non dirigista dello Stato nei confronti del sistema economico capitalista. Colui che elabora per primo una vera e propria teoria dell'economia sociale di mercato è Wilhelm Röpke (1899-1966). Röpke propone una "terza via" tra liberalismo e collettivismo, in cui lo stato svolga una funzione garantista nei confronti del libero mercato, ed è consapevole della necessità di una profonda revisione delle regole che "monopolizzano" il sistema economico.
Le caratteristiche dell’economia sociale di mercato vengono chiaramente delineate in un lavoro relativamente recente della Fondazione Bertelsmann (Bertelsmann Foundation. 1997): “non esiste alcuna contraddizione tra il mercato e la prospettiva sociale … adeguate strutture istituzionali e la rule ol law sono in grado di coordinare i comportamenti centrati sull’interesse individuale , orientandoli a conseguire risultati moralmente accettabili…. la concorrenza è il mezzo per scoprire e realizzare i potenziali guadagni da integrazione che sprigionano dal rafforzamento della divisione nazionale ed internazionale del lavoro…..la concorrenza è sociale e la politica della coesione sociale è produttiva. L’“economia sociale di mercato” , nata nel periodo tra le due Guerre Mondiale, e veicolo essenziale per i “miracoli economici” successivi al secondo conflitto mondiale (Janossy, 1972; Kindleberger, 1967 ) dovrebbe assumere nuovi lineamenti in un XXI secolo attraversato da una crisi finanziaria e in un’economia internazionale caratterizzata da forte grado d’integrazione promossa da una “General Purpose Technology” come la tecnologia dell’informazione e della comunicazione (De Filippi, Pennisi , 2003 ) che riduce le distanze di spazio e di tempo sino quasi ad annullarle. Utile ricordare, brevemente, tre caratteristiche essenziali dell’integrazione economica internazionale: a) la scomposizione geografica della catena del lavoro; b) l’importanza crescente delle relazioni interpersonali (sulla spinta della riduzione delle distanze di spazio e di tempo derivante dalla tecnologia dell’informazione e della comunicazione) ; c) l’aumento progressivo della flessibilità e della versatilità del lavoro.
Negli ultimi tempi, l’attenzione si è concentrata sulle “nuove regole” per la finanza mondiale (Kose, Prasad, Rogoff, Wei, 2009). E’ tema centrale sia al riassetto sia al dopo-crisi. Data la delicatezza della materia, è necessario che le “nuove regole” siano ispirate a semplicità e trasparenza (Di Noia, Micossi, 2009). Per un mercato forte, plurale e leale, è necessario uno Stato forte con regole chiare e semplici, ma rigorose. Tale Stato forte è mancato – lo sottolineano gli storici economici (Hatton, O’Ruorke, Taylor, 2007)– quando la deglobalizzazione del primo decennio del secolo scorso ha portato alla prima guerra mondiale. Non è stato adeguatamente compreso come il progressivo indebolimento dello Stato sia stata una delle determinanti che hanno innescata la crisi in corso. Lo avverte il Premio Nobel Paul Krugman (Krugman, 2008): sino alla metà degli Anni Ottanta il processo d’integrazione economica internazionale è stato pilotato da Stati forti e consapevoli dei necessari riequilibri ed ammortizzatori interni (ad esempio, l’accordo del Plaza del 1985 sui tassi di cambio e le politiche di crescita); dal dopoguerra alla metà degli Anni Novanta, il mondo è stato caratterizzato, al tempo stesso, da una rapida crescita e da una riduzioni delle disparità tra ricchi e poveri; negli ultimi venti anni, invece, alla globalizzazione ed alla finanziarizzazione apparentemente senza regole ha corrisposto un aumento delle disuguaglianze, con la minaccia di un sempre maggior distacco tra individuo (specialmente coloro nelle fasce più deboli ed a minor reddito e livelli di consumo e Stato).
La crisi finanziaria ed economica stanno comportando (Società Libera 2011) un ritorno della presenza pubblica nell’economia (sia all’interno dei singoli Stati sia nell’arena internazionale) in questa prima parte del XXI secolo dopo trenta anni circa il cui il mercato è parso come lo strumento migliore per curare sia le proprie imperfezioni (in inglese si utilizza il termine più pregnante “failures” , “fallimenti”) e pure per frenare quelle del “non mercato”. Federico Caffè, maestro per decenni della principale scuola di economia politica dell’Università di Roma “La Sapienza”, scrisse un libretto di poche pagine (piene di sostanza) in difesa dello stato sociale propria prima di sparire misteriosamente (Caffè, 1986). Circa venti anni fa, pubblicai un saggio in due puntate dopo la crisi delle borse dell’autunno del 1987 avvertendo che il crollo avrebbe dovuto fare riflettere sulla “finanziarizzazione” eccessiva del sistema economico, con elevatissime leve d’indebitamento, che aveva preceduto lo scivolone di Wall Street (Pennisi, 1987). Il breve saggio di venti anni fa si basava molto sul pensiero economico di Hyman Minski, economista americano poco considerato in Italia poiché sia anti-marxista sia anti-liberista (Minski. 1999). In breve, la teoria economica di Minski riguarda l’informazione e come viene percepita da individui, famiglie, imprese ed operatori economici in generale: la miopia è una malattia diffusa . Ciò vuol dire che tendenze di brevissimo periodo del passato recente, vengono estrapolate nel futuro a lungo termine. Ne consegue un processo che posso schematizzare in tre stadi: a) nel primo , ci si indebita (pure per operare sul mercato finanziario nella convinzione che denaro si produce per mezzo di denaro) ; b) nel secondo, si tira la fune per far fronte almeno al pagamento degli interessi (non dell’ammortamento); c) nel terzo , si entra in una catena di Sant’Antonio o“Ponzi scheme” (analoga a quella di chi prende in prestito il 125% del valore della casa o delle azioni che possiede nella convinzione di un apprezzamento, a breve, del 200%). Se dovessi rimettere mano oggi a quanto scritto venti anni fa, introdurrei un altro elemento: la miopia è strabica perché confonde rischio (stimabile sulla base del calcolo delle probabilità) con incertezza (non prevedibile cambiamento completo della situazione). Da finanziarizzazione si è passati ad una “strutturazione” oggi alla base di molti titoli tossici nell’ illusione che suddividendo il rischio in partite sempre più piccole (diversificandolo in coriandoli dalla dimensioni atomistiche) si è, erroneamente, pensato che lo si annullasse (Pennisi, Scandizzo 2003, Pennisi 2006) . Sino a quando ci si è ricordato che, in certe condizioni, gli atomi esplodono.
Con il senno di poi, si ammettono oggi i costi del capitalismo (Barbera, 2009) Si è meno certi sulle terapie. Nel nostro DNA, c’è ancora il ricordo dello “Stato impiccione e pasticcione” , per prendere a prestito la brillante definizione data da Giuliano Amato nel lontano 1972 (Amato, 1972).
Un mercato forte e ben funzionante richiede uno Stato forte e ben funzionante – capace, in primo luogo, di curare miopie e strabismi. Alcuni anni fa , l’American Enterprise Institute e la Brookings Institution hanno pubblicato un lavoro a quattro mani di Robert Hahn e Paul Tetlock (Hahn, Tetlock, 2007). Ha avuto un’eco modesta in Italia, ma indicava un percorso partendo da una migliore valutazione economica da parte della mano pubblica e, quindi, da una migliore formazione economica nel settore pubblico.
Senza dubbio la dilatazione della spesa pubblica in conseguenza della crisi finanziaria ed economica internazionale pone nuovi problemi. Non unicamente di compatibilità macro-economiche di bilancio (quelli su cui più si mette l’accento) ma anche e soprattutto di qualità della spesa e del suo contributo ad uno Stato forte che regoli un mercato anche esso forte; uno Stato spendaccione è spesso debole e contribuisce a disfunzioni di mercato quali le rendite. Il fenomeno riguarda principalmente Paesi come gli Stati Uniti (dove tradizionalmente il settore pubblico non ha mai superato, in tempo di pace, un terzo del Pil) oppure come la Gran Bretagna e molti Paesi neocomunitari con un alto grado di “finanziarizzazione” dell’economia e l’esigenza di vasti salvataggi di banche e finanziarie. Concerne relativamente meno Paesi come la Francia, la Germania che hanno mantenuto una struttura economica ancorata al manifatturiero ma dove le pubbliche amministrazioni intermediano oltre il 50% del pil e sono affiancate da un vasto “capitalismo municipale” controllato principalmente a livello locale. In Italia, esso comprende circa 400 imprese con oltre 200.000 addetti ed un valore aggiunto pari mediamente all’1% del pil ma tale da sfiorare in alcune Regioni il 6% del reddito prodotto in loco- (Pennisi, 2009a).
C’è il rischio di distorsioni? Arthur Okun, non certo un liberista, amava dire che “il secchio (della spesa pubblica) è sempre bucato” (Okun, 1990) e non se ne possono evitare le perdite. Okun scriveva alla metà degli Anni 70. Da allora abbiamo imparato che ci sono antidoti. Non per colmare tutti i buchi del secchio, ma almeno per minimizzarne la portata. Due sono particolarmente importanti. Il primo dipende quasi interamente dalle pubbliche amministrazione e dalla politica. Il secondo da tutti noi.
L’antidoto “interno” è un’attenta valutazione delle operazioni di spesa pubblica, facendo ricorso a metodi di facile apprendimento e diffusione, nonché molto trasparenti, come quelli dell’analisi dei costi e dei benefici (Acb) finanziari, economici e sociali – integrati (per le partite di spesa più complesse) da analisi anche econometriche degli impatti. La rassegna condotta dalla Brookings Institution e dall’American Enterprise Institute ha ricordato come l’obbligo di Acb per le voci di spesa pubblica introdotto nel 1982 non è stato modificato da nessun cambio della guarda alla Casa Bianca od al Congresso ed ha contribuito al miglioramento della qualità dell’azione del Governo federale . In Germania, ne viene fatto ampia applicazione (Fricsk, Ernst, 2008; National Nomenklature, 2008). In Italia, esiste da dieci anni una norma analoga (la legge 144/1999). Occorre chiedersi quanto è applicata e quanto disattesa.
L’antidoto “esterno” è costituito dal “capitale sociale” che si sviluppa associando (oggi si utilizzerebbe il termine “mettendo in rete”) il “capitale umano” di individui, famiglie ed imprese. Un quarto di secolo fa, Robert Putnam (Putnam, 1993) misurò le differenze di “capitale sociale” nelle regioni italiane. Studi recenti (e l’esperienza di della risposta delle popolazioni al sisma in Abruzzo) provano che l’Italia è ricca di “capitale sociale” , anche se non suddiviso uniformemente in tutta la Penisola e spesso non adeguatamente espresso . L’associazionismo – ha scritto il Premio Nobel Douglass C. North (North , 1994)– è il modo più efficace per fare emergere dall’ombra il “capitale sociale” e dare ad esso una funzione di vigilanza, di controllo, di premio e di sanzione nei confronti di chi a livello politico e tecnico gestisce la spesa pubblica.
Torniamo a quanto visto all’inizio di questo paragrafo. Le tre caratteristiche essenziali dell’integrazione economica internazionale sono ormai profondamente radicate e resteranno anche dopo la soluzione della crisi finanziaria ed economica internazionale: a) la scomposizione geografica della catena del lavoro; b) l’importanza crescente delle relazioni interpersonali ; c) l’aumento progressivo della flessibilità e della versatilità del lavoro . Il vero banco di prova dell’incontro tra Stato Forte e Mercato Forte in un’economia sociale di mercato per il XXI secolo consisterà in come verranno affrontati , e sciolti, questi nodi con un giusto equilibrio nell’esaltazione del ruolo dell’individuo e del ruolo dello Stato (Pennisi, 2009b).
Lo stato sociale (ossia, previdenza e sanità pubbliche, politiche attive del lavoro, ammortizzatori nei confronti della disoccupazione involontaria, servizi ed assistenza sociale) potranno sopravvivere alla post-globalizzazione? Una domanda analoga veniva posta alcuni anni fa, allora ci si chiedeva se lo stato sociale potesse sopravvivere alla globalizzazione (De Filippi, Pennisi, 2003).
Per lustri si sono confrontate due visioni: una “difensiva”, secondo cui (rispetto all’integrazione economica internazionale) si sarebbero dovuti difendere alcuni “diritti quesiti” di base dello stato sociale; una “propositiva”, o, in alcune dizioni “aggressiva”, secondo cui chi ha a cuore le fasce deboli avrebbe dovuto trovare percorsi, strumenti ed istituti atti a fare sì chi ai livelli più bassi di reddito e di consumo traesse i maggiori vantaggi dall’integrazione economica internazionale. All’inizio degli Anni Novanta, la stessa Conferenza dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro spezzò una lancia a favore di una “concertazione” “positiva” o “aggressiva” – quella da me preferita anche per il principio molto banale secondo cui in un mondo in cui tutti corrono, camminare vuol dire stare fermi e remare contro-vento è la premessa per andare a picco.
Le due visioni dei nessi tra post-globalizzazione e stato sociale sono stati di recente messe a fuoco in un dibattito internazionale che ha visto schierati, da un lato, Hans-Werner Sinn e, dall’altro, Dennis Snower, Alessio Brown, e Christial Merkl (Snower, Brown, Merkl, 2009), i quali, nonostante le loro differenti origini lavorano presso università ed istituti di ricerca della Repubblica Federale. In dibattito, quindi, tra esperti differenti ma tutti plasmati dalla cultura dell’economia sociale di mercato.
In sintesi, Sinn vede l’integrazione economica internazionale (anche rallentata dalla crisi o frenata da contraccolpi) come un processo di specializzazione in cui aumentano le differenze di reddito sia verticalmente (tra livelli più altri e più bassi di professionalità) sia orizzontalmente (tra aree geografiche) ; lo stato sociale rende (ai Paesi che ne applicano uno estensivo) più costoso partecipare all’integrazione internazionale. Si verifica un vero e proprio”bazar” (è suo il termine) in cui imprese, ed anche individui e famiglie, possono scegliere la tipologia di stato sociale che meglio confà a ciascuno: la delocalizzazione e la “fiera delle tasse” (per mutuare il titolo di un libro di Giulio Tremonti di una diecina di anni fa, Tremonti, Vitaletti , 1991) sono esempi di questo “bazar” in cui si può essere vincenti unicamente con una minore pressione tributaria, con sindacati più consapevoli delle implicazioni dell’internazionalizzazione e con orari di lavoro effettivi più lunghi. In breve, una strategia “difensiva”.
Contrapposta la visione di Snower, Brown e Merkl: la chiamano “una grande riorganizzazione”. Partono dalla considerazione secondo cui dalla metà degli Anni Novanta, gli imprenditori hanno preso progressivamente contezza del nesso tra nuove tecnologie, sistemi di logistica ed opportunità commerciali. La produzione e la distribuzione si stanno riorganizzando profondamente puntando su tre caratteristiche: a) la scomposizione geografica della catena del valore; b) l’importanza crescente delle relazioni interpersonali e c) la sempre maggiore eterogeneità, versatilità e flessibilità del lavoro. Ciò rischia di creare una nuova categoria di “perdenti” se lo stato sociale non viene ripensato, e riorganizzato, per tenere adeguatamente in conto le nuove caratteristiche di produzione e di distribuzione. Ciò comporta uno Stato Forte ed autorevole che dia a lavoratori e fasce deboli gli strumenti per diventare essi stessi i vincitori ogni qual volta aumentano le probabilità che diventino i perdenti. Ciò implica un drastico cambiamento di paradigma: nello stato sociale tradizionale degli ultimi cinque decenni, le professionalità vengono definite e classificate ed il ruolo dello Stato è quello di tutelarle (con stabilizzatori automatici) al verificarsi di shocks, mentre in quello del futuro lo Stato ha il compito di rendere gli individui adattabili e versatili in modo che possano essere i protagonisti del processo di trasformazione. Snower, Brown e Merkl delineano meccanismi specifici (“welfare accounts”, “vouchers di supporto sociale”, e “benefit transfers”, trasferimenti di benefici in grado di ridistribuire gli incentivi a favore dei meno avvantaggiati”). Alcuni di questi meccanismi hanno trovato, in varie forme e guise, terreno d’applicazione, almeno parziale, in Italia: il sistema previdenziale contributivo, la social card, la vasta gamma di rapporti di lavoro previsti dalle legge Biagi, il riordino della formazione professionale con accento sul life-long learning.
Un concezione avveniristica dello “stato sociale” del futuro? Probabilmente sì. Almeno sino a quando la macchina amministrativa non si pone in grado di fare fronte alla sfida. Tuttavia, ha due aspetti che meritano di essere sottolineati: a) massimizza l’apporto che le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione possono dare allo stato sociale; b) esalta, al tempo stesso, il ruolo e dell’individuo (a cui lo Stato deve offrire una gamma di opportunità) e dello Stato (che deve cogliere nell’integrazione economica internazionale l’opportunità per nuovi compiti più innovativi e meno burocratici di quelli del passato).
Conclusione
L’economia sociale di mercato può essere l’approdo verso cui andare per non restare in mezzo al guado. Essa può anche consentire di cogliere quelle opportunità offerte dall’unione monetaria che pare ci siamo lasciati scappare. Può diventare l’obiettivo verso cui tendere per modificare i comportamenti di individui, famiglie, imprese e pubblica amministrazione. Definire l’obiettivo nei suoi contenuti specifici, far sì che venga condiviso e diventi la molla per il cambiamento dei comportamenti richiede, però, un ceto politico all’altezza e coeso tale da sapere ispirare tutta la comunità in cui viviamo.
Ad un semplice economista non resta che porre un quesito. A cui altri, si spera, sappiano rispondere.

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Giuseppe Pennisi è Consigliere del Cnel e Consigliere Scientifico della Cassa Depositi e Prestiti. Insegna politica economica internazionale all’Università Europea di Roma e collabora a quotidiani e periodici. Alcune delle idee in questo articolo sono state presentate su “Avvenire”, “Il Foglio”, “Il Riformista” ed in un’analisi sul futuro dell’economia sociale di mercato condotta nell’ambito di una riflessione seminale promossa dalla Konrand Adenauet Stiftung e dalla Fondazione FareFuturo..