sabato 24 dicembre 2011

IL GUADO INSIDIOSO IN MonOperaio dicembre

IL GUADO INSIDIOSO
Giuseppe Pennisi
Premessa
Dopo le recenti vicende politico-parlamentari (il voto negativo della Camera sul rendiconto dello Stato 2010 ed il successivo voto di fiducia), uno dei più acuti commentatori italiani ha scritto che l’Italia è in “un limbo insidioso” (Franco, 2011). A mio avviso, l’analogia, pur suggestiva, non dà efficacemente il senso della situazione della società e dell’economia italiana: da oltre tre lustri è “in mezzo al guado” come scrissero efficacemente Bertola e Ichino 16 anni fa (Bertola, Ichino, 1995) in un saggio in cui guardavano specificatamente al mercato del lavoro e alla sua evoluzione nel primo scorcio degli Anni Novanta. Siamo “in mezzo al guado” perché abbiamo lasciato una sponda (un sistema tutto sommato protetto anche se arretrato) e non vediamo ancora l’altra e le sue caratteristiche.
Lo sottolinea una recente analisi di Georg Erber dell’Istituto tedesco di ricerca economica, il noto DIW di Berlino, nella versione in inglese intitolata “Italy’s Fiscal Crisis” (Erber, 2011). Erber (particolarmente ascoltato presso il Governo della Repubblica Federale) considera quella italiana “una delle economie più vulnerabili dell’area dell’euro”. Traccia le vicende della finanza pubblica italiana dagli Anni Novanta ad oggi, ponendo l’accento sulla crescita del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo. Non da molto credito ai vari “piani di rientro” ed a “manovre” grandi e piccole ed afferma che la situazione da “fragile” è diventata “drammatica” in seguito alla crisi internazionale del 2007-2008. Descrive con dettaglio puntiglioso i declassamenti subiti dai nostri titoli di Stato (e non solo) da parte dalle agenzie di rating. Amare le conclusioni: “l’Italia ha di fronte a sé un dilemma: come stimolare la crescita nel breve periodo e ridurre indebitamento e debito sino a rendere sostenibile la situazione della propria finanza pubblica. Anche se gli altri Stati della zona dell’euro si mobilitassero in massa, le prospettive future del Paese restano buie”.
Non è neanche incoraggiante il recente lavoro di Gabriella Deborah Legrenzi e di Costas Mileas (ambedue di Brunei University) sulla sostenibilità del debito nei GIIPS (Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna) pubblicato dal CESifo di Monaco poche settimane fa (Legrenzi, Mileas, 2011). L’analisi è originale poiché valuta la sostenibilità o meno del debito sulla base di “soglie” variabili in base allo storia economica di ciascun Paese e/o della frequenza del verificarsi di crisi finanziarie. Viene , quindi, scartata l’ipotesi, piuttosto grezza ma molto frequente, secondo cui il rapporto tra stock di debito e Pil non deve superare una determinata ed immutabile livello. Secondo i calcoli presentati nel lavoro, però, la soglia ora applicabile all’Italia è uno stock di debito che non superi l’87% del Pil. Quindi, “è naturale che gli operatori internazionali siano preoccupati e chiedano elevati tassi d’interesse”.
La rivista Moneta e Credito ha dedicato uno dei suoi ultimi numeri all’economia italiana, il n. 250 . Nel fascicolo Alberto Quadrio Curzio (Quadro Curzio, 2011) si sofferma, in particolare, sull’evoluzione dell’unione monetaria da quando è scoppiata la crisi economica e finanziaria internazionale: una prima fase caratterizzata da resistenza diversificata (con un aumento dei disavanzi e del debito , principalmente per i salvataggi bancari) seguita da una di ricostruzione. Questa richiede, però, azioni per la crescita. Meno ottimista Alessandro Roncaglia (Roncaglia, 2011) che individua le radici nella crisi in radici culturali di lungo periodo e sottolinea come, a suo avviso, non potrà essere superata ricorrendo a più e maggior mercato (privatizzazioni, deregolamentazione e simili). Dal canto suo, Pierluigi Ciocca (Ciocca , 2011) ricorda le analisi di Kindleberger sia sul “miracolo economico italiano” sia sulle crisi finanziarie; sorge la domanda se non ci siamo trovati impreparati alla crisi in atto dal 2007 perché privi della dotazione in capitale umano e dello slancio che sono state le caratteristiche del nostro “miracolo economico”. Mario Sarcinelli (Sarcinelli, 2011) ricorda le proposte di Ezio Tarantelli e le raffronta alla situazione attuale. Non sono sufficienti le politiche di bilancio (in specie l’obiettivo del pareggio di bilancio) per promuovere il necessario riassetto strutturale; lo avverte Antonio Pedone in un altro fascicolo di Moneta e Credito (Pedone, 2011). Il quadro complessivo che emerge dalla lettura di questi saggi è che su individui, famiglie, imprese, pubblica amministrazione , ceto politico grava una nube d’incertezza che non permette di vedere l’altra sponda.
In questa introduzione, si sono volutamente accostate analisi recenti di economisti stranieri ed italiani per indicare come le conclusioni convergano: se non c’è una prospettiva di vedere dove si va, si resta “in mezzo al guado”. Nei paragrafi successivi si delineerà come non sia stata colta l’opportunità fornita dall’unione monetaria europea di risolvere nodi e problemi di lungo periodo e come si possa delineare la nuova sponda andando verso un’economia sociale di mercato appropriata all’integrazione economica internazionale.
L’opportunità mancata dell’unione monetaria.
Si usa affermare che la crisi del debito dell’eurozona e le manovre di finanza pubblica messe in atto per tamponarla hanno numerosi punti in comune con la situazione dell’estate- autunno del 1992 (ad esempio, De Bassa, Scheresberg, Passarelli, (2011). Allora, l’unione monetaria europea era ancora in prospettiva, ma i mercati non avevano fiducia nel fatto che alcuni potenziali Stati membri (Italia in prima linea) ce l’avrebbero fatta a mantenere gli impegni solennemente sottoscritti nel Trattato di Maastricht. Pure se ci sono analogie con la crisi del 1992, il parallelo più calzante è quello con la fase che precedette la fine dell’area della sterlina dopo la svalutazione della moneta di Sua Maestà britannica, il 18 novembre 1967. In quel caso non ci fu un tracollo, con azzeramento dei pertinenti accordi, ma uno smottamento progressivo sino alla fine del 1972. Il contesto internazionale era ben diverso dall’attuale. Nata all’inizio della seconda guerra mondiale (la sterlina aveva perso dopo la prima guerra mondiale lo status di principale valuta per gli scambi internazionali), la «zona della sterlina» consisteva in una serie di accordi diretti a definire un sistema uniforme di controlli valutari (verso il resto del mondo) e di assicurare al proprio interno l’utilizzazione della sterlina come moneta sia interna sia per le transazioni con il resto della dei vari Paesi ad essa aderenti, oppure cambi fissi tra monete nazionali (da utilizzarsi all’interno di ciascun Paese) e la sterlina. Circa 80 Paesi tra grandi – come Canada e Australia – e piccoli – ad esempio le Seychelles – ne fecero parte al momento del suo maggior fulgore in base a nor¬mative uniformi ( Oliver , Hamilton 2007). Attenzione: attualmente circa 65 Paesi fanno parte dell’area dell’euro pur se soltanto 17 “soci” hanno voce in capitolo; gli altri sono “micro-Stati” (come San Marino ed il Principato di Monaco oppure il Montenegro) che hanno adottato l’euro unilateralmente, oppure sono Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico associati all’Unione Europe e con legami monetari e finanziari speciali con alcuni membri del club dell’euro (segnatamente la Francia e l’Olanda), oppure ancora Stati (la stessa Federazione Svizzera) che utilizzano l’euro come seconda moneta accanto a quella nazionale. L’analogia, quindi, è calzante.
Nell’area della sterlina, le compensazioni dei saldi delle bilance dei pagamenti diventarono compito della Bank of England, dove le sterling balances venivano depositate. Non così nell’eurozona dove invece – come dimostrato di recente da uno studio di Francesco Giavazzi e Luigi Spaventa (Giavazzi, Spaventa, 2010) - si è vissuti per 12 anni nell’illusione che i saldi all’interno dell’area si compensassero automaticamente , e che la riduzione dei tassi d’interesse fosse caratteristica permanente (o almeno di lungo periodo) dell’unione monetaria. Ciò ha comportato forti disavanzi per la Grecia, l’Irlanda, la Spagna ed il Portogallo che (anche ove non ci fosse stata una crisi finanziaria internazionale in corso dal 2007) ha causato una crescita molto forte del credito totale interno utilizzato per finanziarie investimenti a bassa produttività, nonché un aumento vertiginoso del debito pubblico.
Torniamo alla crisi, e dissoluzione, dell’area della sterlina. La Gran Bretagna uscì dalla seconda guerra mondiale con uno stock di debito pari al 250% circa del Pil; ne seguì nel 1949 una svalutazione del 30% circa del cambio della sterlina nei confronti del dollaro, concertata con il resto della zona, utilizzando anche i buoni uffici del Fondo monetario. Il quadro cambiò negli Anni Sessanta: non tanto perché i vari Paesi prendevano strade differenti (pure in ragione dei diversissimi livelli di sviluppo e differenti sistemi politici ed obiettivi di politica economica), ma in quanto le politiche interne britanniche (i laburisti guidavano la macchina) comportavano crescenti disavanzi della bilancia dei pagamenti in una fase di trasformazione del mercato internazionale (sorgeva l’eurodollaro, il primo mercato internazionale – dal lontano 1929- autoregolamentato e non gestito, dopo il 1946, collegialmente tramite il Fondo monetario). Da un lato, Londra diventò il principale cliente del Fondo monetario. Dall’altro – ricorda un acuto saggio di Ben Clift e Jim Tomlinson (Clift, Tomlinson, 2008) – dal confronto continuo ed intenso con i governi laburisti, il Fondo (nato keynesiano) diventò neo-liberale. Dato che le risorse ordinarie del Fmi non sembravano adeguate a soddisfare l’esigenza di parare il disavanzo britannico (ed americano – aumentavano , in quegli anni, le spese per la guerra in Viet-Nam) ed assicurare liquidità per la crescita mondiale, nel settembre 1967 l’assemblea del Fondo monetario internazionale approvò la modifica degli statuti per varare i «diritti speciali di prelievo», i DPS, le cui prime emissioni avvennero nel 1969. Il 18 novembre 1967 (ero studente negli Usa) il professor Randall Hinshaw (ex Sotto-segretario al Tesoro Usa oltre che noto teorico di economica monetaria), non arrivò a lezione con la solita puntualità e aspetto apollineo, ma trafelato. Non esistevano telefonini. Aveva appena ricevuto una telefonata dalla moglie e ci disse agitatissimo: «They finally did it! (alla fine lo hanno fatto!, ndr ) »: la Gran Bretagna aveva svaluta¬to del 14% la sterlina senza consultarsi con il resto della zona. Chi aveva saldi attivi presso la Bank of England prese una bella botta. Iniziò lo smottamento.
I paralleli sono molteplici: la nascita di mercati e strumenti non regolamentati (l’eurodollaro); i DPS hanno qualche punto in comune con gli «eurobond» di cui si parla oggi; i tentativi di tamponare falle (senza cambiare politiche economiche); il pericolo di smottamento per rivalutazione o svalutazione non concordata di alcuni soci. Per questo è urgente definire un percorso che eviti che la situazione si ripeta. Negli anni Sessanta, mentre montava quella che sarebbe stata la crisi della zona della sterlina, all’osteria 'Da Mario' in Via di San Vitale di Bologna (400 lire a pasto, primo, secondo, frutta ed acqua del rubinetto, vini a parte), all’ora di colazione, si incrociava spesso l’allora giovane (oggi Premio Nobel) Robert Mundell (docente alla Johns Hopkins University) a pranzo con alcuni studenti: il Lambrusco, di cui era ghiotto, lo pagava lui (e lo tracannava quasi tutto lui). In una di quelle colazioni, su un tovagliolo di carta tracciò le due equazioni essenziali del teorema dell’area valutaria ottimale che a 29 anni gli aveva dato fama e il finanziamento Fullbright per insegnare a Bologna e apprezzare l’Italia (passa gran parte dell’anno in un suo podere nel Chianti). Quel tovagliolo, ove esistesse ancora, dovrebbe essere meditato da tutti coloro che desiderano impedire che l’unione monetaria si dissolva e l’euro venga ricordato nei libri di storia dei nostri nipoti come il 'milite ignoto' dell’integrazione europea. Mundell spiegava che le due equazioni volevano dire 'effettiva' mobilità dei fattori di produzione, delle merci e dei servizi’ (da distinguersi da 'libertà di circolazione') non per uno sghiribizzo teorico per giungere al grado più alto di un’inte¬grazione economica (la moneta unica), ma perché solo con convergenza reale di produttività e di competitività l’unione monetaria può funzionare (Mundell. 1961)
Oggi tornare a quel paio d’equazioni può evitare una dissoluzione dell’unione monetaria analoga a quella della 'zona della sterlina' non tanto a ragione del disavanzo dei conti con l’estero del Paese-chiave, ma per l’acuirsi dei divari di produttività e competitività. In alcuni Paesi (tra cui l’Italia) la produttività non aumenta da dieci anni. In altri corre poiché è stata metabolizzata l’irreversibilità dell’accresciuta concorrenza innescata dall’euro. Il Paese-chiave, la Germania, ha affrontato dieci anni di sacrifici per mettersi al passo con la nuova situazione, ma non è sufficientemente grande da potere curare i mali dell’intero continente. Si ripete ancora una volta il dramma della Germania di Bismarck nel consesso europeo: la Repubblica Federale tedesca ha dimensioni e dinamiche tali che qualsiasi suo sussulto diventa un terremoto per gli altri, ma non è sufficientemente grande e forte da potersi prendere carico di tutti i problemi del continente.
Mentre ci si gingilla con nuovi strumenti di convergenza di finanza pubblica, per salvare il 'soldato semplice euro' occorre affiancarli con strumenti di economia reale tali da promuovere la convergenza di produttività e competitività e offrire a chi non è in grado di farlo una via d’uscita che non comporti un trauma per l’Unione Europea e per i Paesi (nel suo ambito) in ritardo. In questa ottica anche gli 'eurobond' dovrebbero essere visti come veicolo di sviluppo, non di tamponamento di falle. Si potrebbe pensare a un percorso decennale a tappe con indicatori di produttività e competitività (analogo al percorso di convergenza finanziaria del Trattato di Maastricht) . Chi dopo venti anni dal varo dell’euro e trenta dalla firma di Maastricht, non può (o non vuole) convergere in termini di produttività e competitività, può trovare alloggio nello «SME2» con misure fatte su misura per le sue circostanze -la Danimarca ha un tasso di fluttuazione del 2,5% rispetto all’euro, la Gran Bretagna del 30% (Pennisi, 2011).
Non c’è tempo da perdere. Il più noto economista tedesco Hans- Werner Sinn (Sinn, 2007, 2010) suggerisce che la Grecia stacchi l’ancora e torni alla dracma; in seguito, a suo parere, lo dovrebbero fare altri Stati (tra cui, forse, l’Italia). L’economista André Cabannes (Cabannes, 2011) ha lanciato addirittura la proposta di un sistema duale: Grecia, Francia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna utilizzino le loro 'vecchie' monete (dracme, franchi, lire, sterline, scudi, peseta) per le transazioni interne e l’euro per quelle europee ed internazionali, come avveniva nell’unione monetaria latina che è durata dal 1866 al 1927 . Le Banche centrali nazionali gestirebbero la liquidità delle monete nazionali, la Bce quella a livello di euro. Gli aggiustamenti, secondo l’economista, sarebbero più facili e più visibili e incentiverebbero a migliorare produttività e competitività.
In effetti, per l’Europa in generale , ed in particolare, per l’Italia, l’unione monetaria appare una grande opportunità mancata ; già agli albori della moneta unica , numerosi autori (per una rassegna Pennisi, 1999, Feldstein, 2009) avevano indicato che se i Paesi e le aree comparativamente deboli non avessero adottato misure per mutare i comportamenti di individui, famiglie, imprese, pubblica amministrazione, ceto politico per giungere a livelli di produttività e competitività analoghi a quelli dei Paesi e delle aree più dinamiche , un’unione monetaria il cui disegno era molto differente da quello della mundelliana ‘area valutaria ottimale’ avrebbe comportato un aumento delle divergenze. Ciò sarebbe avvenuto anche ove non ci fosse stata una crisi finanziaria internazionale- allora non prevista che da pochissimi economisti (peraltro inascoltati) della scuola di Hyman Minsky. A cavallo tra la fine di un secolo e l’inizio di un altro, venivano tratteggiati in lineamenti di politiche e misure economiche (sia a livello macro sia , soprattutto, a livello micro) a fronte dell’irreversibilità della moneta unica: giochi ripetuti (al fine di definire regole condivise ed applicate), simmetria di informazioni e di posizioni. La cassetta degli attrezzi degli economisti avrebbe dovuto essere applicata da individui, da famiglie, da imprese, da pubblica amministrazione e soprattutto da una classe dirigente pronta a guidare una ristrutturazione dell’economia, e dei comportamenti, analoga a quanto effettuato in Germania (Grömling, 2008). Ciò non è avvenuto negli anni in cui veniva lanciata con un ottimismo forse eccessivo l’unione monetaria. Difficile pensare che ciò possa avvenire in una fase in cui la crisi finanziaria ha innescato proteste nei confronti dei “Padri Fondatori” della moneta unica e del mondo della finanza e delle banche che, secondo alcuni punti di vista, ne sarebbero stati i maggiori benefici.
Occorre , quindi, una visione alternativa: un approdo i cui lineamenti siano visibili anche se si è ancora in mezzo al guado. Tale visione può essere un’economia sociale di mercato che,a differenza di quanto congetturato mezzo secolo fa, tenga conto delle profonde trasformazioni dell’economia internazionale, in particolare dell’integrazione economica internazionale, spesso chiamata, giornalisticamente, globalizzazione. Se ben comunicata questa visione può essere il grimaldello per far trovare, all’interno dei singoli Stati e nell’Unione Europea nel suo complesso, la coesione, il coraggio e soprattutto l’ardimento per uscire dal “limbo insidioso” ed effettuare il guado verso l’altra sponda.

Un’economia sociale di mercato per l’epoca della globalizzazione.
L'economia sociale di mercato è un approccio al benessere sociale che si propone di garantire sia la libertà di mercato sia la giustizia sociale, armonizzandole tra di loro. L'idea di base è che la piena realizzazione dell'individuo non può avere luogo se non vengono garantite la libera iniziativa, la libertà di impresa, la libertà di mercato e la proprietà privata, ma che queste condizioni, da sole, non garantiscono la realizzazione della totalità degli individui (la giustizia sociale) e la loro integrità psicofisica, per cui lo Stato deve intervenire laddove esse presentano i loro limiti. L'intervento non deve, però, guidare il mercato o interferire con i suoi esiti naturali: deve prestare il suo soccorso laddove il mercato stesso fallisce nella sua funzione sociale e deve fare in modo che diminuiscano il più possibile i casi di fallimento del mercato medesimo. Trae origine dall'Ortoliberalismo della Scuola di Friburgo di Walter Eucken, durante la crisi della Repubblica di Weimar, scuola che già riconosceva la necessità di un controllo non dirigista dello Stato nei confronti del sistema economico capitalista. Colui che elabora per primo una vera e propria teoria dell'economia sociale di mercato è Wilhelm Röpke (1899-1966). Röpke propone una "terza via" tra liberalismo e collettivismo, in cui lo stato svolga una funzione garantista nei confronti del libero mercato, ed è consapevole della necessità di una profonda revisione delle regole che "monopolizzano" il sistema economico.
Le caratteristiche dell’economia sociale di mercato vengono chiaramente delineate in un lavoro relativamente recente della Fondazione Bertelsmann (Bertelsmann Foundation. 1997): “non esiste alcuna contraddizione tra il mercato e la prospettiva sociale … adeguate strutture istituzionali e la rule ol law sono in grado di coordinare i comportamenti centrati sull’interesse individuale , orientandoli a conseguire risultati moralmente accettabili…. la concorrenza è il mezzo per scoprire e realizzare i potenziali guadagni da integrazione che sprigionano dal rafforzamento della divisione nazionale ed internazionale del lavoro…..la concorrenza è sociale e la politica della coesione sociale è produttiva. L’“economia sociale di mercato” , nata nel periodo tra le due Guerre Mondiale, e veicolo essenziale per i “miracoli economici” successivi al secondo conflitto mondiale (Janossy, 1972; Kindleberger, 1967 ) dovrebbe assumere nuovi lineamenti in un XXI secolo attraversato da una crisi finanziaria e in un’economia internazionale caratterizzata da forte grado d’integrazione promossa da una “General Purpose Technology” come la tecnologia dell’informazione e della comunicazione (De Filippi, Pennisi , 2003 ) che riduce le distanze di spazio e di tempo sino quasi ad annullarle. Utile ricordare, brevemente, tre caratteristiche essenziali dell’integrazione economica internazionale: a) la scomposizione geografica della catena del lavoro; b) l’importanza crescente delle relazioni interpersonali (sulla spinta della riduzione delle distanze di spazio e di tempo derivante dalla tecnologia dell’informazione e della comunicazione) ; c) l’aumento progressivo della flessibilità e della versatilità del lavoro.
Negli ultimi tempi, l’attenzione si è concentrata sulle “nuove regole” per la finanza mondiale (Kose, Prasad, Rogoff, Wei, 2009). E’ tema centrale sia al riassetto sia al dopo-crisi. Data la delicatezza della materia, è necessario che le “nuove regole” siano ispirate a semplicità e trasparenza (Di Noia, Micossi, 2009). Per un mercato forte, plurale e leale, è necessario uno Stato forte con regole chiare e semplici, ma rigorose. Tale Stato forte è mancato – lo sottolineano gli storici economici (Hatton, O’Ruorke, Taylor, 2007)– quando la deglobalizzazione del primo decennio del secolo scorso ha portato alla prima guerra mondiale. Non è stato adeguatamente compreso come il progressivo indebolimento dello Stato sia stata una delle determinanti che hanno innescata la crisi in corso. Lo avverte il Premio Nobel Paul Krugman (Krugman, 2008): sino alla metà degli Anni Ottanta il processo d’integrazione economica internazionale è stato pilotato da Stati forti e consapevoli dei necessari riequilibri ed ammortizzatori interni (ad esempio, l’accordo del Plaza del 1985 sui tassi di cambio e le politiche di crescita); dal dopoguerra alla metà degli Anni Novanta, il mondo è stato caratterizzato, al tempo stesso, da una rapida crescita e da una riduzioni delle disparità tra ricchi e poveri; negli ultimi venti anni, invece, alla globalizzazione ed alla finanziarizzazione apparentemente senza regole ha corrisposto un aumento delle disuguaglianze, con la minaccia di un sempre maggior distacco tra individuo (specialmente coloro nelle fasce più deboli ed a minor reddito e livelli di consumo e Stato).
La crisi finanziaria ed economica stanno comportando (Società Libera 2011) un ritorno della presenza pubblica nell’economia (sia all’interno dei singoli Stati sia nell’arena internazionale) in questa prima parte del XXI secolo dopo trenta anni circa il cui il mercato è parso come lo strumento migliore per curare sia le proprie imperfezioni (in inglese si utilizza il termine più pregnante “failures” , “fallimenti”) e pure per frenare quelle del “non mercato”. Federico Caffè, maestro per decenni della principale scuola di economia politica dell’Università di Roma “La Sapienza”, scrisse un libretto di poche pagine (piene di sostanza) in difesa dello stato sociale propria prima di sparire misteriosamente (Caffè, 1986). Circa venti anni fa, pubblicai un saggio in due puntate dopo la crisi delle borse dell’autunno del 1987 avvertendo che il crollo avrebbe dovuto fare riflettere sulla “finanziarizzazione” eccessiva del sistema economico, con elevatissime leve d’indebitamento, che aveva preceduto lo scivolone di Wall Street (Pennisi, 1987). Il breve saggio di venti anni fa si basava molto sul pensiero economico di Hyman Minski, economista americano poco considerato in Italia poiché sia anti-marxista sia anti-liberista (Minski. 1999). In breve, la teoria economica di Minski riguarda l’informazione e come viene percepita da individui, famiglie, imprese ed operatori economici in generale: la miopia è una malattia diffusa . Ciò vuol dire che tendenze di brevissimo periodo del passato recente, vengono estrapolate nel futuro a lungo termine. Ne consegue un processo che posso schematizzare in tre stadi: a) nel primo , ci si indebita (pure per operare sul mercato finanziario nella convinzione che denaro si produce per mezzo di denaro) ; b) nel secondo, si tira la fune per far fronte almeno al pagamento degli interessi (non dell’ammortamento); c) nel terzo , si entra in una catena di Sant’Antonio o“Ponzi scheme” (analoga a quella di chi prende in prestito il 125% del valore della casa o delle azioni che possiede nella convinzione di un apprezzamento, a breve, del 200%). Se dovessi rimettere mano oggi a quanto scritto venti anni fa, introdurrei un altro elemento: la miopia è strabica perché confonde rischio (stimabile sulla base del calcolo delle probabilità) con incertezza (non prevedibile cambiamento completo della situazione). Da finanziarizzazione si è passati ad una “strutturazione” oggi alla base di molti titoli tossici nell’ illusione che suddividendo il rischio in partite sempre più piccole (diversificandolo in coriandoli dalla dimensioni atomistiche) si è, erroneamente, pensato che lo si annullasse (Pennisi, Scandizzo 2003, Pennisi 2006) . Sino a quando ci si è ricordato che, in certe condizioni, gli atomi esplodono.
Con il senno di poi, si ammettono oggi i costi del capitalismo (Barbera, 2009) Si è meno certi sulle terapie. Nel nostro DNA, c’è ancora il ricordo dello “Stato impiccione e pasticcione” , per prendere a prestito la brillante definizione data da Giuliano Amato nel lontano 1972 (Amato, 1972).
Un mercato forte e ben funzionante richiede uno Stato forte e ben funzionante – capace, in primo luogo, di curare miopie e strabismi. Alcuni anni fa , l’American Enterprise Institute e la Brookings Institution hanno pubblicato un lavoro a quattro mani di Robert Hahn e Paul Tetlock (Hahn, Tetlock, 2007). Ha avuto un’eco modesta in Italia, ma indicava un percorso partendo da una migliore valutazione economica da parte della mano pubblica e, quindi, da una migliore formazione economica nel settore pubblico.
Senza dubbio la dilatazione della spesa pubblica in conseguenza della crisi finanziaria ed economica internazionale pone nuovi problemi. Non unicamente di compatibilità macro-economiche di bilancio (quelli su cui più si mette l’accento) ma anche e soprattutto di qualità della spesa e del suo contributo ad uno Stato forte che regoli un mercato anche esso forte; uno Stato spendaccione è spesso debole e contribuisce a disfunzioni di mercato quali le rendite. Il fenomeno riguarda principalmente Paesi come gli Stati Uniti (dove tradizionalmente il settore pubblico non ha mai superato, in tempo di pace, un terzo del Pil) oppure come la Gran Bretagna e molti Paesi neocomunitari con un alto grado di “finanziarizzazione” dell’economia e l’esigenza di vasti salvataggi di banche e finanziarie. Concerne relativamente meno Paesi come la Francia, la Germania che hanno mantenuto una struttura economica ancorata al manifatturiero ma dove le pubbliche amministrazioni intermediano oltre il 50% del pil e sono affiancate da un vasto “capitalismo municipale” controllato principalmente a livello locale. In Italia, esso comprende circa 400 imprese con oltre 200.000 addetti ed un valore aggiunto pari mediamente all’1% del pil ma tale da sfiorare in alcune Regioni il 6% del reddito prodotto in loco- (Pennisi, 2009a).
C’è il rischio di distorsioni? Arthur Okun, non certo un liberista, amava dire che “il secchio (della spesa pubblica) è sempre bucato” (Okun, 1990) e non se ne possono evitare le perdite. Okun scriveva alla metà degli Anni 70. Da allora abbiamo imparato che ci sono antidoti. Non per colmare tutti i buchi del secchio, ma almeno per minimizzarne la portata. Due sono particolarmente importanti. Il primo dipende quasi interamente dalle pubbliche amministrazione e dalla politica. Il secondo da tutti noi.
L’antidoto “interno” è un’attenta valutazione delle operazioni di spesa pubblica, facendo ricorso a metodi di facile apprendimento e diffusione, nonché molto trasparenti, come quelli dell’analisi dei costi e dei benefici (Acb) finanziari, economici e sociali – integrati (per le partite di spesa più complesse) da analisi anche econometriche degli impatti. La rassegna condotta dalla Brookings Institution e dall’American Enterprise Institute ha ricordato come l’obbligo di Acb per le voci di spesa pubblica introdotto nel 1982 non è stato modificato da nessun cambio della guarda alla Casa Bianca od al Congresso ed ha contribuito al miglioramento della qualità dell’azione del Governo federale . In Germania, ne viene fatto ampia applicazione (Fricsk, Ernst, 2008; National Nomenklature, 2008). In Italia, esiste da dieci anni una norma analoga (la legge 144/1999). Occorre chiedersi quanto è applicata e quanto disattesa.
L’antidoto “esterno” è costituito dal “capitale sociale” che si sviluppa associando (oggi si utilizzerebbe il termine “mettendo in rete”) il “capitale umano” di individui, famiglie ed imprese. Un quarto di secolo fa, Robert Putnam (Putnam, 1993) misurò le differenze di “capitale sociale” nelle regioni italiane. Studi recenti (e l’esperienza di della risposta delle popolazioni al sisma in Abruzzo) provano che l’Italia è ricca di “capitale sociale” , anche se non suddiviso uniformemente in tutta la Penisola e spesso non adeguatamente espresso . L’associazionismo – ha scritto il Premio Nobel Douglass C. North (North , 1994)– è il modo più efficace per fare emergere dall’ombra il “capitale sociale” e dare ad esso una funzione di vigilanza, di controllo, di premio e di sanzione nei confronti di chi a livello politico e tecnico gestisce la spesa pubblica.
Torniamo a quanto visto all’inizio di questo paragrafo. Le tre caratteristiche essenziali dell’integrazione economica internazionale sono ormai profondamente radicate e resteranno anche dopo la soluzione della crisi finanziaria ed economica internazionale: a) la scomposizione geografica della catena del lavoro; b) l’importanza crescente delle relazioni interpersonali ; c) l’aumento progressivo della flessibilità e della versatilità del lavoro . Il vero banco di prova dell’incontro tra Stato Forte e Mercato Forte in un’economia sociale di mercato per il XXI secolo consisterà in come verranno affrontati , e sciolti, questi nodi con un giusto equilibrio nell’esaltazione del ruolo dell’individuo e del ruolo dello Stato (Pennisi, 2009b).
Lo stato sociale (ossia, previdenza e sanità pubbliche, politiche attive del lavoro, ammortizzatori nei confronti della disoccupazione involontaria, servizi ed assistenza sociale) potranno sopravvivere alla post-globalizzazione? Una domanda analoga veniva posta alcuni anni fa, allora ci si chiedeva se lo stato sociale potesse sopravvivere alla globalizzazione (De Filippi, Pennisi, 2003).
Per lustri si sono confrontate due visioni: una “difensiva”, secondo cui (rispetto all’integrazione economica internazionale) si sarebbero dovuti difendere alcuni “diritti quesiti” di base dello stato sociale; una “propositiva”, o, in alcune dizioni “aggressiva”, secondo cui chi ha a cuore le fasce deboli avrebbe dovuto trovare percorsi, strumenti ed istituti atti a fare sì chi ai livelli più bassi di reddito e di consumo traesse i maggiori vantaggi dall’integrazione economica internazionale. All’inizio degli Anni Novanta, la stessa Conferenza dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro spezzò una lancia a favore di una “concertazione” “positiva” o “aggressiva” – quella da me preferita anche per il principio molto banale secondo cui in un mondo in cui tutti corrono, camminare vuol dire stare fermi e remare contro-vento è la premessa per andare a picco.
Le due visioni dei nessi tra post-globalizzazione e stato sociale sono stati di recente messe a fuoco in un dibattito internazionale che ha visto schierati, da un lato, Hans-Werner Sinn e, dall’altro, Dennis Snower, Alessio Brown, e Christial Merkl (Snower, Brown, Merkl, 2009), i quali, nonostante le loro differenti origini lavorano presso università ed istituti di ricerca della Repubblica Federale. In dibattito, quindi, tra esperti differenti ma tutti plasmati dalla cultura dell’economia sociale di mercato.
In sintesi, Sinn vede l’integrazione economica internazionale (anche rallentata dalla crisi o frenata da contraccolpi) come un processo di specializzazione in cui aumentano le differenze di reddito sia verticalmente (tra livelli più altri e più bassi di professionalità) sia orizzontalmente (tra aree geografiche) ; lo stato sociale rende (ai Paesi che ne applicano uno estensivo) più costoso partecipare all’integrazione internazionale. Si verifica un vero e proprio”bazar” (è suo il termine) in cui imprese, ed anche individui e famiglie, possono scegliere la tipologia di stato sociale che meglio confà a ciascuno: la delocalizzazione e la “fiera delle tasse” (per mutuare il titolo di un libro di Giulio Tremonti di una diecina di anni fa, Tremonti, Vitaletti , 1991) sono esempi di questo “bazar” in cui si può essere vincenti unicamente con una minore pressione tributaria, con sindacati più consapevoli delle implicazioni dell’internazionalizzazione e con orari di lavoro effettivi più lunghi. In breve, una strategia “difensiva”.
Contrapposta la visione di Snower, Brown e Merkl: la chiamano “una grande riorganizzazione”. Partono dalla considerazione secondo cui dalla metà degli Anni Novanta, gli imprenditori hanno preso progressivamente contezza del nesso tra nuove tecnologie, sistemi di logistica ed opportunità commerciali. La produzione e la distribuzione si stanno riorganizzando profondamente puntando su tre caratteristiche: a) la scomposizione geografica della catena del valore; b) l’importanza crescente delle relazioni interpersonali e c) la sempre maggiore eterogeneità, versatilità e flessibilità del lavoro. Ciò rischia di creare una nuova categoria di “perdenti” se lo stato sociale non viene ripensato, e riorganizzato, per tenere adeguatamente in conto le nuove caratteristiche di produzione e di distribuzione. Ciò comporta uno Stato Forte ed autorevole che dia a lavoratori e fasce deboli gli strumenti per diventare essi stessi i vincitori ogni qual volta aumentano le probabilità che diventino i perdenti. Ciò implica un drastico cambiamento di paradigma: nello stato sociale tradizionale degli ultimi cinque decenni, le professionalità vengono definite e classificate ed il ruolo dello Stato è quello di tutelarle (con stabilizzatori automatici) al verificarsi di shocks, mentre in quello del futuro lo Stato ha il compito di rendere gli individui adattabili e versatili in modo che possano essere i protagonisti del processo di trasformazione. Snower, Brown e Merkl delineano meccanismi specifici (“welfare accounts”, “vouchers di supporto sociale”, e “benefit transfers”, trasferimenti di benefici in grado di ridistribuire gli incentivi a favore dei meno avvantaggiati”). Alcuni di questi meccanismi hanno trovato, in varie forme e guise, terreno d’applicazione, almeno parziale, in Italia: il sistema previdenziale contributivo, la social card, la vasta gamma di rapporti di lavoro previsti dalle legge Biagi, il riordino della formazione professionale con accento sul life-long learning.
Un concezione avveniristica dello “stato sociale” del futuro? Probabilmente sì. Almeno sino a quando la macchina amministrativa non si pone in grado di fare fronte alla sfida. Tuttavia, ha due aspetti che meritano di essere sottolineati: a) massimizza l’apporto che le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione possono dare allo stato sociale; b) esalta, al tempo stesso, il ruolo e dell’individuo (a cui lo Stato deve offrire una gamma di opportunità) e dello Stato (che deve cogliere nell’integrazione economica internazionale l’opportunità per nuovi compiti più innovativi e meno burocratici di quelli del passato).
Conclusione
L’economia sociale di mercato può essere l’approdo verso cui andare per non restare in mezzo al guado. Essa può anche consentire di cogliere quelle opportunità offerte dall’unione monetaria che pare ci siamo lasciati scappare. Può diventare l’obiettivo verso cui tendere per modificare i comportamenti di individui, famiglie, imprese e pubblica amministrazione. Definire l’obiettivo nei suoi contenuti specifici, far sì che venga condiviso e diventi la molla per il cambiamento dei comportamenti richiede, però, un ceto politico all’altezza e coeso tale da sapere ispirare tutta la comunità in cui viviamo.
Ad un semplice economista non resta che porre un quesito. A cui altri, si spera, sappiano rispondere.

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Giuseppe Pennisi è Consigliere del Cnel e Consigliere Scientifico della Cassa Depositi e Prestiti. Insegna politica economica internazionale all’Università Europea di Roma e collabora a quotidiani e periodici. Alcune delle idee in questo articolo sono state presentate su “Avvenire”, “Il Foglio”, “Il Riformista” ed in un’analisi sul futuro dell’economia sociale di mercato condotta nell’ambito di una riflessione seminale promossa dalla Konrand Adenauet Stiftung e dalla Fondazione FareFuturo..

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