Don Giovanni conquista
Daniel Barenboim dilata i tempi di un lavoro che svela la solitudine umana
di Giuseppe Pennisi
Dopo alcune inaugurazioni di stagione che hanno destato perplessità, la Scala ha fatto centro. La «prima», andata in scena ieri e in replica fino al 14 gennaio, ha visto un Don Giovanni che ha spiccato per integrità di concezione tra direzione musicale e drammaturgia.
Nella lettura di Robert Carsen (le scene sono di Michael Levine, i costumi di Reiffenstuel, le luci dello stesso Carsen e di Peter van Praet) e di Daniel Barenboim, il lavoro di Da Ponte-Mozart è una black comedy desolante e struggente sulla solitudine e l'ipocrisia della condizione umana. Barenboim dilata i tempi: l'opera dura 20 minuti in più della edizione storica da lui diretta nel 1973 e riproposta in questi giorni da Classic Voice. Dal piglio secco del Do iniziale, si passa a tempi lenti quasi a sottolineare i due mondi: quello in Re minore del Don Giovanni e del Commendatore, quello in Re maggiore degli altri protagonisti. I due mondi restano distinti e distanti poiché il primo è lanciato verso l'avvenire (Barenboim accentua gli accenni cromatici su cui pochi si soffermano), l'altro ancorato alle convenzioni (arie, cabalette, duettini) dell'opera italiana di fine Settecento. Viene data una lettura turgida e sconsolata in cui gli ottoni della Scala mostrano il meglio. La scena è quasi nuda: specchi, siparietti, quinte. L'ouverture inizia a piene luci in sala, un'enorme specchiera mostra palchi e platea, e Peter Mattei, ossia Don Giovanni, si toglie lo smoking per andare a letto con una compiacente Donna Anna (interpretata da Anna Netrebko). Lo spettacolo si sposta poi in sala nella scena dell'arrivo delle maschere, interpretate da Giuseppe Filianoti e Barbara Frittoli oltre alla Netrebko e in quella del cimitero, dove il Commendatore, Kwangchul Youn, recita e canta dal palco reale. Il pubblico è quindi in un certo senso coinvolto nell'azione. I ruoli poi si capovolgono: Don Giovanni «sente odor di femmina» ma è lui l'oggetto sessuale di tre donne assatanate (Anna, Elvira, Zerlina) in voglia di possederlo, anche se esse non riescono mai a portare l'atto a compimento. Le luci restano plumbee per gran parte dello spettacolo, ma diventano rosso fuoco in alcuni momenti, come per esempio la festa. Il finale è a sorpresa: svelarlo significherebbe tradire gli spettatori, anche perché chiarisce, a chi non l'ha compresa dall'inizio, la chiave dello spettacolo. La lettura Carsen-Barenboim non pretende di essere quella «definitiva», ma insieme a quella curata da Dmitri Tcherniakov e Louis Langrée del 2009-2011, andata in scena ad Aix en Provence, Toronto, Madrid, Mosca, si propone tra la più integre e originali di questi anni. Si tratta di una lettura che piace ai giovani ma fa arricciare il naso a quei critici che preferiscono un'azione più giocosa in scene e costumi di tardo Settecento. Non mancano tuttavia alcuni punti da assestare. Nel primo atto e in parte del secondo, i lati del palcoscenico sono aperti con effetti di dispersione di voci data l'ardua acustica della Scala. Ne soffre principalmente Filianoti, il cui fraseggio è perfetto ma il cui volume pare essersi ridotto a causa delle traversie di questi ultimi anni. Nel cast eccellono Mattei, che conserva la prestanza fisica e vocale di quando debuttò nel ruolo 13 anni fa con Abbado, Bryn Terfel, Barbara Frittoli, Anna Netrebko e Kwangchul Youn. Troppo leggero il timbro della Zerlina di Anna Prohaska e troppo scuro quello del Masetto di Stefan Kocán. (riproduzione riservata)
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