MANOVRA/ 1. I pericoli "nascosti" nella bozza di Monti
Giuseppe Pennisi
sabato 3 dicembre 2011
Mario Monti (Foto Imagoeconomica)
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“Beate le Patrie che non hanno bisogno di un Salvatore”, si dovrebbe dire, parafrasando una battuta di un personaggio de “La Vita di Galileo” di Bertold Brecht in queste ore che ci separano dal Consiglio dei Ministri del 5 dicembre che dovrebbe varare misure dirette al riassetto della finanza pubblica (e - ci auguriamo, ma non ci illudiamo - alla ripresa dell’economia reale). Da alcuni giorni si respira - anche perché animata, se non dal Governo da alcuni suoi ufficiali od ufficiosi portavoce - un’aura salvifica attorno a questa ultima manovra del 2011 (la quarta dall’inizio dell’anno). Tale aura salvifica è pericolosa, perché una delusione (se ci sarà) potrebbe - affermano gli studiosi di neuro-economia - arrecare molti danni alla finanza, all’economia reale e allo stesso esecutivo.
Sinora - da quanto trapela dagli spifferi del Palazzo - si tratta di misure per racimolare tra riduzioni della spesa (poche) e aumenti delle entrate (molte) una quindicina di miliardi di euro al fine di raggiungere quel pareggio di bilancio nel 2013 che viene presentato come la premessa della riduzione del rapporto tra stock di debito pubblico e Pil. Sottolineo “viene presentato”: né la teoria economica, né la storia economica mostrano che esiste un nesso tra pareggio di bilancio e riduzione del peso del debito del Pil. Anzi, proprio in Italia, Quintino Sella raggiunse il pareggio di bilancio nel 1875, ma nel 1876 per la prima volta lo stock di debito dell’infante Regno d’Italia toccava il 100% del Pil.
Commenteremo le singole misure quando saranno note. Tuttavia, sin da ora ci preme sottolineare non solo che si tratta unicamente di un passo (quali sono stati quelli dei Governi precedenti - quale che fosse il loro colore politico) in un percorso lungo, in salita e accidentato e che il “sottostante”, se verrà esplicitato, è più importante del “pacchetto”. Cosa si intende per “sottostante”? Gli obiettivi di fondo di dove la nave Italia deve andare. Sono quelli di cui si sente l’esigenza da una ventina d’anni. Negli anni Novanta abbiamo avuto - è vero - un obiettivo: entrare nell’euro. Giusto o sbagliato che fosse, era un “obiettivo intermedio” che nulla, o ben poco, diceva su dove dovesse approdare la società. In effetti, da lustri siamo in mezzo a un guado: lasciata la sponda di una società sostanzialmente poco aperta e con forte intervento pubblico, non vediamo qual è la sponda dove stiamo andando. Auguriamoci che il Governo del “salvataggio della Patria” ce lo dica.
A chi scrive piacerebbe un’economia sociale di mercato aperta all’integrazione economica internazionale (mentre alcune misure che si sussurrano remerebbero in senso contrario) e imperniata sulla sussidiarietà, poiché, come visto pochi giorni fa su questo giornale, valorizzerebbe l’individuo e i corpi intermedi ed eviterebbe la crisi fiscale dello Stato. Di recente, la Fondazione Bertelsmann - distinta e distante dalle nostre beghe di bottega - ha precisato: “Non esiste alcuna contraddizione tra il mercato e la prospettiva sociale […]. Adeguate strutture istituzionali e la rule ol law sono in grado di coordinare i comportamenti centrati sull’interesse individuale, orientandoli a conseguire risultati moralmente accettabili […]. La concorrenza è il mezzo per scoprire e realizzare i potenziali guadagni da integrazione che sprigionano dal rafforzamento della divisione nazionale e internazionale del lavoro […]. La concorrenza è sociale e la politica della coesione sociale è produttiva”.
L’“economia sociale di mercato”, nata nel periodo tra le due Guerre mondiali, e veicolo essenziale per i “miracoli economici” successivi al secondo conflitto deve assumere nuovi lineamenti in un Ventunesimo secolo attraversato da una crisi finanziaria e in un’economia internazionale caratterizzata da un forte grado d’integrazione promossa da una “General Purpose Technology” come la tecnologia dell’informazione e della comunicazione che riduce le distanze di spazio e di tempo sino quasi ad annullarle. Le tre caratteristiche essenziali dell’integrazione economica internazionale sono ormai profondamente radicate e resteranno anche dopo la soluzione della crisi finanziaria ed economica internazionale: a) la scomposizione geografica della catena del lavoro; b) l’importanza crescente delle relazioni interpersonali; c) l’aumento progressivo della flessibilità e della versatilità del lavoro.
Il vero banco di prova dell’incontro tra Stato Forte e Mercato Forte in un’economia sociale di mercato per il Ventunesimo secolo consisterà in come verranno affrontati, e sciolti, questi nodi con un giusto equilibrio nell’esaltazione del ruolo dell’individuo e del ruolo dello Stato e con uno spazio adeguato ai soggetti intermedi. Circa dieci anni fa, in una grande iniziativa internazionale del Consiglio d’Europa, ci si chiedeva addirittura se lo Stato sociale potesse sopravvivere alla globalizzazione. Per lustri si sono confrontate due visioni: una “difensiva”, secondo cui (rispetto all’integrazione economica internazionale) si sarebbero dovuti difendere alcuni “diritti quesiti” di base dello Stato sociale; una “propositiva”, o, in alcune dizioni “aggressiva”, secondo cui chi ha a cuore le fasce deboli avrebbe dovuto trovare percorsi, strumenti e istituti atti a fare sì chi ai livelli più bassi di reddito e di consumo traesse i maggiori vantaggi dall’integrazione economica internazionale. All’inizio degli anni Novanta, la stessa Conferenza dell’Organizzazione internazionale del lavoro spezzò una lancia a favore di una “concertazione” “positiva” o “aggressiva” - quella da me preferita anche per il principio molto banale secondo cui in un mondo in cui tutti corrono, camminare vuol dire stare fermi e remare contro-vento è la premessa per andare a picco.
In sintesi, in una visione l’integrazione economica internazionale (anche rallentata dalla crisi o frenata da contraccolpi) è vista come un processo di specializzazione in cui aumentano le differenze di reddito sia verticalmente (tra livelli più altri e più bassi di professionalità), sia orizzontalmente (tra aree geografiche); lo Stato sociale rende (ai Paesi che ne applicano uno estensivo) più costoso partecipare all’integrazione internazionale. Si verifica un vero e proprio”bazar” (è suo il termine) in cui imprese, e anche individui e famiglie, possono scegliere la tipologia di Stato sociale che meglio confà a ciascuno: la delocalizzazione e la “fiera delle tasse” sono esempi di questo “bazar” in cui si può essere vincenti unicamente con una minore pressione tributaria, con sindacati più consapevoli delle implicazioni dell’internazionalizzazione e con orari di lavoro effettivi più lunghi. In breve, una strategia “difensiva”.
Nell’altra, dalla metà degli anni Novanta, gli imprenditori hanno preso progressivamente contezza del nesso tra nuove tecnologie, sistemi di logistica e opportunità commerciali. La produzione e la distribuzione si stanno riorganizzando profondamente puntando su tre caratteristiche: a) la scomposizione geografica della catena del valore; b) l’importanza crescente delle relazioni interpersonali; c) la sempre maggiore eterogeneità, versatilità e flessibilità del lavoro. Ciò rischia di creare una nuova categoria di “perdenti” se lo Stato sociale non viene ripensato, e riorganizzato, per tenere adeguatamente in conto le nuove caratteristiche di produzione e di distribuzione. Ciò comporta uno Stato Forte e autorevole che dia a lavoratori e fasce deboli gli strumenti per diventare essi stessi i vincitori ogni qual volta aumentano le probabilità che diventino i perdenti.
Ciò implica un drastico cambiamento di paradigma: nello Stato sociale tradizionale degli ultimi cinque decenni, le professionalità vengono definite e classificate e il ruolo dello Stato è quello di tutelarle (con stabilizzatori automatici) al verificarsi di shocks, mentre in quello del futuro lo Stato ha il compito di rendere gli individui adattabili e versatili in modo che possano essere i protagonisti del processo di trasformazione. Si possono delineare meccanismi specifici (“welfare accounts”, “vouchers di supporto sociale”, e “benefit transfers”, trasferimenti di benefici in grado di ridistribuire gli incentivi a favore dei meno avvantaggiati).
Alcuni di questi meccanismi hanno trovato, in varie forme e guise, terreno d’applicazione, almeno parziale, in Italia: il sistema previdenziale contributivo, la social card, la vasta gamma di rapporti di lavoro previsti dalle legge Biagi, il riordino della formazione professionale con accento sul life-long learning. Possono avere uno spazio e un’efficacia maggiore con una maggiore sussidiarietà e maggiore delega a corpi intermedi.
È in base a questi criteri che mi propongo di valutare se e in che misura i “salvatori della Patria” hanno un’idea della sponda verso cui traghettare e la sanno comunicare a tutti gli italiani (oltre che agli osservatori stranieri, preoccupati del nostro futuro).
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