Nel nuovo Trattato europeo anche la «trappola» dell’articolo 4
DI GIUSEPPE PENNISI
L’ euro-negoziato è cominciato con qualche giorno di ritardo rispetto al previsto: la bozza di accordo sareb¬be dovuta arrivare alle alre 26 «Parti Contraenti» il 12 dicembre (così era stato inteso all’ultimo vertice), ma è giunta il 17 . Non solo: le istituzioni europee l’hanno subito 'postata' sul sito Internet. Un dopio motivo di irritazione per alcuni Paesi che non appartengono all’Eurogruppo: Danimarca, Repubblica Ceca, Ungheria e Svezia. Da un lato il ritardo fa supporre infatti una forte intesa franco-tedesca (a discapito degli altri 24). Dall’altro, non si sarebbe seguita l’etichetta delle diplomazie in base alla quale il contenuto di un accordo si svela unicamente a trattativa avanzata. Non si tratta solamente di prassi di garbo, ma pone in difficoltà sia Stati che potrebbero aspirare a entrare nell’Eurozona sia quelli con un fortissimo debito pubblico, come l’Italia, nei cui confronti la bozza di 'accordo' contiene clausole che sono difficili da osservare. Limita infatti i margini di manovra nel trattare.
All’epoca del negoziato per il Trattato di Maastrich, il ministro del Tesoro Guido Carli riuscì a modificare una clausola che avrebbe impedito l’adesione dell’Italia all’Unione monetaria, proprio in quanto l’articolo in questione non era stato reso pubblico.
L’accordo viene presentato come un Trattato di secondo rango. In effetti, è tra «Parti Contraenti» e non tra Stati. Ciò implica procedure di entrata in vigore più snelle. Un Trattato dovrebbe essere ratificato dai Parlamenti dei 26 (e in alcuni Stati essere soggetto a referendum). Un «accordo» come quello proposto entrerebbe invece in vigore per tutti le 17 «Parti Contraenti» dell’Eurozona, non appena nove Paesi lo hanno ratificato. Ma la vera 'trappola' per l’Italia è l’articolo 4, quello che prevede la riduzione di un ventesimo l’anno del debito pubblico che supera il 60% del Pil. Ciò significa che ove l’Italia riprenda a crescere del 2% l’anno, sarebbe obbligata a una manovra di 35-40 miliardi di euro l’anno per il prossimo ventennio. Se l’accento di tali interventi fosse dal lato del¬la spesa, si smantellerebbero servizi pubblici e sociali essenziali e si dismetterebbero centinaia di migliaia di dipendenti pubblici. Ciò anche in quanto il Titolo IV della bozza (sul¬la «convergenza economi¬a », ossia la crescita) prevede meramente l’inten¬zione di coordinare le riforme.
I tempi sono stretti: si vuole giungere alla parafasi (sigla del documento da parte dei Rappresentanti Permanenti) e alla firma entro marzo non per fe¬steggiare con il documen¬to la primavera, ma perché dall’inizio di gennaio alla fine di marzo sono in sca¬denza svariate centinaia di titoli del debito pubblico dell’Eurozona (nessuno ora pronuncia la cifra esatta, che si aggirerebbe sui 1500 miliardi di euro). L’accordo sull’«unione fiscale » (per utilizzare il gergo eurocratico) viene visto come una strumento per rendere meno pesante il rifinanziamento. Gli eurocrati e molti politici la pensano così. Non tutti: il ministro irlandese agli Affari Europei, Lucinda Creighton, afferma senza mezzi termini che l’accordo (se ci sarà) potrà essere utile, ma non salverà l’euro se non verrà accompagnato dall’impegno della Banca centrale europea. Uno studioso attento come John Grahl, della Middlesex University Business School, afferma in un breve saggio in corso di pubblicazione che si prefigura non un’«unione fiscale» ma un’«unione di vigilanza reciproca » con controlli sempre più severi e sempre più incrociati ma sempre meno efficaci.
Le gatte frettolose – dice un proverbio contadino – fanno figli cechi.
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È dove si prevede la riduzione di un ventesimo l’anno del debito pubblico che supera il 60% del Pil: anche se l’Italia riprendesse a crescere del 2% l’anno, sarebbe obbligata a una manovra di 35-40 miliardi per il prossimo ventennio
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