LA DOMANDA CHE NESSUNO HA FATTO A MONTI
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Roma - La conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio Mario Monti è stata una delle più estese di quelle tenute, in occasioni analoghe, negli ultimi tempi anche perché Monti ha dato risposte ampie e dettagliate a tutte le domande (o quasi) rivoltegli dai giornalisti. Si è spaziato in un vasto raggio guardando sia al passato prossimo – la manovra “Salva Italia” appena varata – sia al prossimo futuro – le misure “Cresci Italia” in preparazione in questi giorni. Non ci si è limitati alla politica economica ma si sono toccate anche la politica estera, l’interazione tra governo “tecnico” e forze politiche, la possibile durata dell’Esecutivo.
C’è una domanda che nessun giornalista italiano in sala ha fatto ma che è stata indirettamente posta dal corrisponde di Der Spiegel, rappresentata dell’Associazione della Stampa Estera e, per questa ragione, al tavolo della presidenza. La domanda riguardava apparentemente la competitività dell’economia italiana rispetto a quella del resto dell’”eurozona” in generale e della Repubblica Federale in particolare. Monti ha risposto sostenendo che le misure in cantiere hanno l’obiettivo di potenziare la competitività italiana; è anche entrato in aspetti tecnico-economici parlando di competitività “multifattoriale”, un termine che forse una dozzina di coloro presenti in sala hanno compreso a pieno.
In effetti, Monti è, innanzitutto, un professore di economia e politica monetaria ed ha ben compreso ciò che il giornalista di Der Spiegel ha sottointeso: può l’Italia competere nell’arena europea ed internazionale con la “parità centrale” con cui è entrata negli accordi europei dei cambi (colloquialmente chiamati lo Sme) a partire del gennaio 1990 e con cui, dopo la svalutazione del settembre 1992, è ri-entrata nel 1997 per potere fare parte del gruppo di testa dell’unione monetaria? Non è un caso fortuito che la crescita dell’economia italiana sia passata dal 2,5-2 per cento l’anno degli Anni Ottanta ad un tasso rasoterra sempre in bilico verso la recessione dall’inizio degli Anni Novanta. Per decenni, all’Università Bocconi, Monti ha insegnato che il cambio è il “prezzo dei prezzi” e, di conseguenza, se si commette un errore nel fissarlo in un regime di cambi fissi il primo effetto è un rallentamento della crescita. L’errore è stato commesso a fine 1989 quando Tesoro e Banca d’Italia decisero di abolire le ultime barriere valutarie ed in parallelo entrare della “fascia stretta” dello Sme. Teoria economica, e saggezza contadina, avrebbero voluto una pausa di qualche settimana o mese per vedere come la lira si sarebbe assestata dopo l’abolizione delle barriere valutarie; solo allora si sarebbe potuti entrare con una “parità centrale” corrispondente al potere d’acquisto e alla scarsità di valuta.
Una volta commesso l’errore si sarebbe potuto curarlo soltanto con tassi di aumento della produttività e della competitività ben superiori a quelli dei nostri concorrenti (ed in particolar modo della Germania). Non solamente ciò non è avvenuto ma ci si è inebriati pensando che l’ingresso dell’euro ci avrebbe dato delle difese automatiche o semi-automatiche. Inoltre, mentre la Germania realizzava riforme profonde (mercato del lavoro, previdenza, dimensioni d’impresa), abbiamo pensato che la moneta unica fosse il toccasana di tutti i nostri problemi. I quali, invece, si sono aggravati: ad esempio, posto a 100 l’indice dei prezzi alla produzione in Germania ed in Italia nel 1999, oltre Reno è ora 80 e nel Belpaese 160.
L’Italia non è certo nella posizione di chiedere una revisione delle parità nell’euronegoziato in corso per l’accordo sull’”unione fiscale”. Ma il problema non si può eludere: se non vogliamo autocondannarci ad una recessione permanente, o si opera sul “prezzo dei prezzi” o aumentano (alla grande) produttività e competitività. (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 29 Dicembre 2011 17:04
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