Ma la Bce deve fornire il secondo pilastro per crescere
DI GIUSEPPE PENNISI
L’ accordo di Bruxelles non risolve i nodi di fondo dell’Eurozona e, se non verranno prese rapidamente al¬tre misure, potrebbe anzi aggravarli: insolvenze a catena di Stati sovrani e del sistema bancario eu¬ropeo in urgente bisogno di ricapitalizzazione.
Da quando nell’estate 2007 è scoppiata l’attuale crisi internazionale, molti Stati europei si so¬no, in una prima fase, stropiccia¬ti le mani, puntando il dito sull’i¬nadeguatezza delle regolazione e delle vigilanza finanziaria Usa . In una seconda fase ci si è accorti in¬vece di quanto economisti di ran¬go della scuola ortodossa (Martin Feldstein, Werner Sinn, e molti altri) e alcuni iconoclasti (Steve Keen) avevano scritto vent’anni fa: l’euro avrebbe fatto fatica a reggere a un choc con effetti asim¬metrici – molto pesante su alcuni, meno su altri – a ragione delle profonde differenze di struttura di produzione, produttività e competitività. L’epicentro si è spostato all’area dell’euro dalla primavera 2010. Da allora, l’Eurozona è in mezzo ad un guado; lasciata la sponda dei Trattati di Maastricht ed Europlus, non si vedeva la sagoma dell’altro approdo. Ora l’altra sponda ha caratteristiche precise: «unione fiscale», ossia politiche di bilancio approvate dalle autorità europee prima di essere presentate ai Parlamenti nazionali e monitorate con penali semi-automatiche. Viene integrata da un più cospicuo Fon¬do salva-Stati gestito dalla Banca centrale europea (Bce).
Il grande merito è di fornire una rotta per la navigazione per tre gruppi di Stati differenti: sette di questi (Austria, Belgio, Finlandia Francia, Germania, Lussembur¬go e Olanda) con strutture eco-nomiche e tassi di produttività e competitività analoghi e con un Pil complessivo pari al 65% del-l’eurozona; due (Italia e Spagna) con un Pil pari al 27% dell’area dell’euro; otto Stati di piccole di-mensioni o di grande fragilità il cui Pil sfiora complessivamente l’8% della zona.
Sarebbe forse stato preferibi¬le concentrarsi su un accordo a 17 (e non tentarne uno a 27) per cercare di appianare le dif¬ferenze d’economia reale nel¬l’eurozona. Al tono della canzonetta «Vengo anch’io», si sono accodati Bulgaria, Danimarca, Lituania, Lettonia , Po¬lonia e Romanai per avere un «certificato di buona condotta ». La Repubblica Ceca, l’Un¬gheria e la Svezia si sono ri¬servate di avere l’approvazione dei Parlamenti nazionali (le cui funzioni verrebbero forte¬mente ridotte – come peraltro – quelle del Parlamento Europeo). È probabile dunque che da ora a marzo, scadenza per l’elaborazione di una bozza di trattato, la composizione del gruppo cambierà.
L’impianto è marcatamente deflazionistico: i venti mag¬giori istituti econometrici del 'consensus' prevedono per il 2012 una contrazione del Pil dell’eurozona tra lo 0,6% e l’1,8% e per l’Italia tra lo 0,2% ed il 3%. Può resistere il tessu¬to economico, sociale e politi¬co di fronte a una nuova re¬cessione più pesante di quel¬la del 2009? James Tobin rice¬vette il Nobel per l’Economia del 1981 non per la tassa sulle transazioni di capitali ma per «la sua analisi dei mercati fi¬nanziari e le loro relazioni con le decisioni di spesa, con l’oc¬cupazione, con la produzione e con i prezzi» (così nella mo¬tivazione, ndr ). Se fosse vivo, avrebbe insistito perché la B¬ce diventi un effettivo secon¬do pilastro mirato a facilitare la crescita non solo per age¬volare la terapia degli Stati più indebitati. Rileggiamo i suoi testi prima che sia troppo tardi.
Resta il nodo dell’impossibilità per la Banca centrale di favorire anche lo sviluppo e non solo agevolare la terapia degli Stati più indebitati
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