sabato 10 dicembre 2011

Ma la Bce deve fornire il secondo pilastro per crescere in Avvenire 11 dicembre

Ma la Bce deve fornire il secondo pilastro per crescere

DI GIUSEPPE PENNISI

L’ accordo di Bruxelles non risolve i nodi di fondo dell’Eurozona e, se non verranno prese rapidamente al¬tre misure, potrebbe anzi aggravarli: insolvenze a catena di Stati sovrani e del sistema bancario eu¬ropeo in urgente bisogno di ricapitalizzazione.

Da quando nell’estate 2007 è scoppiata l’attuale crisi internazionale, molti Stati europei si so¬no, in una prima fase, stropiccia¬ti le mani, puntando il dito sull’i¬nadeguatezza delle regolazione e delle vigilanza finanziaria Usa . In una seconda fase ci si è accorti in¬vece di quanto economisti di ran¬go della scuola ortodossa (Martin Feldstein, Werner Sinn, e molti altri) e alcuni iconoclasti (Steve Keen) avevano scritto vent’anni fa: l’euro avrebbe fatto fatica a reggere a un choc con effetti asim¬metrici – molto pesante su alcuni, meno su altri – a ragione delle profonde differenze di struttura di produzione, produttività e competitività. L’epicentro si è spostato all’area dell’euro dalla primavera 2010. Da allora, l’Eurozona è in mezzo ad un guado; lasciata la sponda dei Trattati di Maastricht ed Europlus, non si vedeva la sagoma dell’altro approdo. Ora l’altra sponda ha caratteristiche precise: «unione fiscale», ossia politiche di bilancio approvate dalle autorità europee prima di essere presentate ai Parlamenti nazionali e monitorate con penali semi-automatiche. Viene integrata da un più cospicuo Fon¬do salva-Stati gestito dalla Banca centrale europea (Bce).

Il grande merito è di fornire una rotta per la navigazione per tre gruppi di Stati differenti: sette di questi (Austria, Belgio, Finlandia Francia, Germania, Lussembur¬go e Olanda) con strutture eco-nomiche e tassi di produttività e competitività analoghi e con un Pil complessivo pari al 65% del-l’eurozona; due (Italia e Spagna) con un Pil pari al 27% dell’area dell’euro; otto Stati di piccole di-mensioni o di grande fragilità il cui Pil sfiora complessivamente l’8% della zona.
Sarebbe forse stato preferibi¬le concentrarsi su un accordo a 17 (e non tentarne uno a 27) per cercare di appianare le dif¬ferenze d’economia reale nel¬l’eurozona. Al tono della canzonetta «Vengo anch’io», si sono accodati Bulgaria, Danimarca, Lituania, Lettonia , Po¬lonia e Romanai per avere un «certificato di buona condotta ». La Repubblica Ceca, l’Un¬gheria e la Svezia si sono ri¬servate di avere l’approvazione dei Parlamenti nazionali (le cui funzioni verrebbero forte¬mente ridotte – come peraltro – quelle del Parlamento Europeo). È probabile dunque che da ora a marzo, scadenza per l’elaborazione di una bozza di trattato, la composizione del gruppo cambierà.

L’impianto è marcatamente deflazionistico: i venti mag¬giori istituti econometrici del 'consensus' prevedono per il 2012 una contrazione del Pil dell’eurozona tra lo 0,6% e l’1,8% e per l’Italia tra lo 0,2% ed il 3%. Può resistere il tessu¬to economico, sociale e politi¬co di fronte a una nuova re¬cessione più pesante di quel¬la del 2009? James Tobin rice¬vette il Nobel per l’Economia del 1981 non per la tassa sulle transazioni di capitali ma per «la sua analisi dei mercati fi¬nanziari e le loro relazioni con le decisioni di spesa, con l’oc¬cupazione, con la produzione e con i prezzi» (così nella mo¬tivazione, ndr ). Se fosse vivo, avrebbe insistito perché la B¬ce diventi un effettivo secon¬do pilastro mirato a facilitare la crescita non solo per age¬volare la terapia degli Stati più indebitati. Rileggiamo i suoi testi prima che sia troppo tardi.
Resta il nodo dell’impossibilità per la Banca centrale di favorire anche lo sviluppo e non solo agevolare la terapia degli Stati più indebitati

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