PER LA RIPRESA NON BASTA L’INGEGNERIA FINANZIARIA
Giuseppe Pennisi
Sul futuro dell’Europa si stagliano le conclusioni della riunione dei Capi di Stato e di Governo del 16 e 17 dicembre scorso. Tanto nei loro aspetti positivi. Quanto nelle loro lacune.
Il comunicato finale pone l’accento sull’operazione d’ingegneria finanziaria per l’eurozona al centro del vertice: l’entrata in funzione, operativamente dal giugno 2013, di un “meccanismo di salvaguardia della stabilità finanziaria” ed illustra alcune modifiche tecniche ai trattati. Al raggiungimento degli obiettivi di “crescita inclusiva” del programma “Europa 2020” viene dedicata una riga per riconfermarli. Le conclusioni del vertice non hanno entusiasmato i mercati, nonostante l’operazione d’ingegneria finanziaria fosse diretta essenzialmente a rassicurarli che la solidarietà europea sarebbe intervenuta in caso di minaccia d’insolvenza di questo o quello Stato dell’area dell’euro.
Molti aspetti della stessa operazione sono rimasti nebulosi. Ad esempio, la ciambella di salvataggio dovrebbe essere disponibile subito nell’eventualità che fossero necessarie risorse ben più ampie di quelle racimolate il 9-10 maggio scorso (quando la Grecia sembrava sull’orlo del baratro), mentre “l’operatività” del “nuovo meccanismo” è rinviato al giugno 2013. Inoltre, nonostante l’assicurazione che “il meccanismo” lavorerà d’amore e d’accordo con il Fondo monetario, c’è sempre il rischio di differenze, e di contrasti, istituzionali nel valutare questa o quella situazione. Infine, strumenti come gli “Eurobonds” vengono rinviati “alla prossima puntata” e sulla loro eventuale natura regna una certa confusione di idee (chi li considera ancore di salvataggio per il debito sovrano – come i “Brady Bonds” di fine Anni Ottanta; chi li vede come veicoli di finanziamento dello sviluppo – come i “Delors Bonds” del 1990). Nonostante questi limiti, un’indicazione (anche parziale”) di solidarietà europea nei confronti di Paesi a rischio era necessaria per evitare il pericolo dello smottamento della stessa unione monetaria.
Neanche un’operazione d’ingegneria finanziaria perfetta nei suoi dettagli tecnici, però, è sufficiente a risolvere il nodo relegato nella riga finale del comunicato: la crescita. Si esce dal debito soltanto producendo meglio e di più e distribuendo i benefici dello sviluppo più equamente di quanto fatto nell’ultimo quarto di secolo. Per il futuro a breve termine, le prospettive non sono incoraggianti: il 21 dicembre, i 20 istituti econometrici considerati il gruppo del “consenso” prevedono un rallentamento dell’eurozona – da un aumento del Pil dell’1,7% nel 2010 ad uno dell’1,4% nel 2011 che sta per iniziare- tassi più bassi di quel 2,5% -3% che potrebbe essere fattibile pure in un continente “vecchio” in termini di demografia e di struttura produttiva. Alla luce dell’esperienza degli ultimi 25 anni di progressiva erosione dei redditi da lavoro e di incremento di quelli da capitale, l’obiettivo di una “crescita inclusiva” (il tema di fondo di “Europa 2020”) ha il sapore amaro di uno mero slogan.
La strada è, senza dubbio, stretta a ragione dell’integrazione economica internazionale, dei vincoli di finanza pubblica e della minaccia di vampate d’inflazione da costi provenienti dai corsi delle materie prime. Essa passa per una politica dei prezzi e dei redditi che tenga conto anche di nuovi metodi d’organizzazione industriale tale da aumentare la produttiva dei fattori produttivi e la competitività di merci e servizi. In questo quadro, il dibattito italiano sul futuro dell’auto merita attenzione nell’intera UE.
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