domenica 23 giugno 2013

Verdi e la paternità mancata in La Nuova Antologia giugno

anno 148°
Nuova Antologia
Rivista di lettere, scienze ed arti
Serie trimestrale fondata da
Giovanni Spadolini
Aprile-Giugno 2013
Vol. 610° - Fasc. 2266
Le Monnier – Firenze
Giuseppe Pennisi, Verdi e la paternità mancata
Premessa
Quest’anno viene celebrato, in tutto il mondo, il bicentenario di Giuseppe
Verdi, nato a Le Roncole frazione di Busseto il 10 ottobre 1813. È
anche l’anno in cui, in pratica, deve essere considerato fallito l’ultimo tentativo
di dare vita, «a Parma e nelle Terre Verdiane», ad un «Festival Verdi»
nel mese di ottobre (quello della sua nascita). Le determinanti sono molteplici.
Da un lato, gli scarsi risultati artistici avuti nel 2012, nonché le difficoltà
finanziarie dopo l’abbandono da parte dei maggiori soci privati. Da
un altro – come ha sempre sostenuto Gianandrea Gavazzeni, fortemente
contrario all’iniziativa – basta scorrere i cartelloni internazionali disponibili
sui maggiori siti web (ad esempio, www.operabase.com ) per accorgersi
che tutte le sere in tutto il mondo si celebra Verdi con la messa in scena
delle sue opere. D’altronde, l’unica differenza rispetto agli altri maggiori
Festival internazionali è che nel 2013 alcuni (Salisburgo, Aix-en-Provence),
di norma protesi verso l’innovazione, si sono rivolti a Verdi non tanto per
ricordarne il bicentenario ma per riscoprirne l’attualità.
Verdi è autore molto complesso. Occorre scegliere una tematica della
sua poetica per trattarne in una nota come questa. Nel numero di giugno
2011 della «Nuova Antologia» (anno 146, fasc. 2258) ho sostenuto che è un
errore includere Verdi tra i «Padri della Patria», in quanto partecipò svogliatamente
al Risorgimento, fu un Senatore del Regno annoiato ed assenteista,
aveva in scarsa considerazione la politica ed i politici ed i suoi interessi e,
soprattutto, la sua poetica erano distanti da quelli del movimento che portò
all’Unità d’Italia. D’altronde, la celebrazione di Verdi che da circa due secoli
si fa in tutti i teatri del mondo (la notazione di Gavazzeni) sarebbe diffici-
Verdi e la paternità mancata
250 Giuseppe Pennisi
le da spiegare in chiave nazionale. Ricordo l’entusiasmo del pubblico ad un
Nabucco in un vasto teatro di Johannesburg alla fine degli anni Settanta,
quando vigeva ancora l’apartheid; gli spettatori, quasi esclusivamente bianchi,
non potevano dare all’opera il significato della liberazione dall’oppressione
(più o meno straniera). O quello di un Don Carlo (nella versione
scaligera in quattro atti) in un cinema teatro a Seul, all’inizio degli anni
Settanta: il pubblico, borghesia ligia alle regole del regime del generale Park
Chung-hee che guidò, con pugno di ferro, il Paese per circa un ventennio.
In questa nota, sostengo che l’elemento costante della poetica di Verdi
è il rapporto (a lui negato) tra padre e figli. Sposatosi giovane con Margherita,
la figlia del proprio benefattore (il commerciante Antonio Barezzi), ne
ebbe due figli: Virginia, nata il 26 marzo 1837 e morta nell’agosto 1838, e
Licinio, nato l’11 luglio 1838 (mentre la bambina stava per morire) e deceduto
il 22 ottobre 1839, quasi alla vigilia della sua prima opera Oberto,
Conte di San Bonifacio, che debuttò alla Scala il 17 novembre 1839. Dopo
la morte di Margherita Barezzi, non ebbe figli dalla seconda moglie, Giuseppina
Strepponi (madre di un figlio di padre ignoto). Secondo una biografa
americana, Verdi avrebbe avuto figli illegittimi (anche dalla Strepponi, prima
del loro matrimonio nel 1859) che sarebbero stati abbandonati. In effetti, la
coppia adottò una bambina, lontana parente del compositore, Filomena
Maria, della cui biografia si conosce tutto ciò che si deve sapere. Ma di altri
veri o eventuali figli di Verdi e della Strepponi non ci sono quasi tracce.
La tematica dei rapporti tra padri e figli è centrale in tutte le opere di
Verdi. In Oberto, prima opera, il nucleo del dramma è nel complesso legame
tra il Conte e la propria figlia. In Falstaff, ultimo lavoro, tema fondante
è l’ammiccamento tra «il vecchio John» e la giovane coppia che vuole sposarsi
nonostante il netto divieto del padre della fanciulla, il Signor Ford.
Che cosa sarebbe la «trilogia popolare» (Rigoletto, Trovatore, Traviata) se
i tre lavori non fossero imperniati sui complicati legami tra padri (o madri)
e figli (naturali od adottivi)? E due tra le opere ritenute più politiche, ancorché
commissionate dai Teatri Imperiali del Secondo Impero francese,
I Vespri Siciliani e Don Carlo, trattano del nesso tra padre e figlio più che
di una rivolta che, nella prima delle due opere, scoppia mentre cala il sipario
sul finale o della ribellione nelle Fiandre che, nella seconda, resta nel
fondale (tranne che per un breve momento nel quarto atto della versione
in cinque atti, nel terzo in quella in quattro atti detta «scaligera»).
Si potrebbe continuare. Ma si sarebbe pedanti come gli eruditi di un
tempo. L’anno del bicentenario in Italia offre un’opportunità: da un lato,
Riccardo Muti ha scelto tre opere più direttamente rivolte al rapporto padri
e figli, in allestimenti per il Teatro dell’Opera di Roma – di cui due verranno
Verdi e la paternità mancata 251
portati rispettivamente in Giappone e al Festival di Salisburgo e a quello di
Ravenna (Nabucodonosor, I Due Foscari, Simon Boccanegra per seguire
l’ordine cronologico della composizione, non della presentazione a Roma).
Da un altro, vari teatri italiani (La Scala, Bologna, Modena, Reggio Emilia,
Genova, Trieste, Jesi) presentano tre differenti allestimenti di un’opera che
Verdi riscrisse tre volte, tra il 1847 ed il 1874, e che riguarda la tragedia
della rinuncia ad avere figli (Macbeth), altra opera presentata di recente al
Teatro dell’Opera di Roma (ed al Festival di Salisburgo) con la direzione
musicale di Riccardo Muti. Seguendo queste quattro opere, mi propongo di
entrare in una poetica che merita di essere più e meglio sviscerata.
Seguirò l’ordine cronologico della prima messa in scena ai tempi del
compositore.
Nabucco
Nabucco, o meglio Nabucodonosor (titolo originale a cui, correttamente,
Riccardo Muti insiste perché si ritorni) debuttò alla Scala il 9 marzo
1842, quando il Lombardo-Veneto era saldamente in mani austriache ed, a
Milano, il Risorgimento interessava pochi intellettuali. Sulla genesi dell’opera
vige una leggenda, ripresa di recente pure da un fine studioso di storia
della musica come Lorenzo Arruga. Verdi, ventisettenne ed in profonda
depressione per la morte dei figli e dopo pochi mesi della moglie (nonché
per il fiasco della sua opera comica Un Giorno di Regno), avrebbe deciso
di smettere di comporre. Ma l’impresario Bartolomeo Morelli gli fece trovare
sul tavolo del tinello il libretto dell’opera aperto alla pagina dei celebri
versi «Va’, Pensiero»; preso da ardore patriottico, Verdi avrebbe composto
di getto il lavoro, che ebbe uno straordinario successo alla Scala.
L’opera venne composta in tre mesi, tempi più o meno standard per
Verdi negli «anni di galera» (quelli in cui, per sbarcare il lunario, era costretto
a produrre senza cessa). Il successo ci fu, ma il coro «Va’, Pensiero»
passò quasi inosservato mentre il pubblico (in sala numerosi erano austriaci)
andò in visibilio a quello che precede la fine dell’opera «Immenso Jehova
/ Chi Non ti Sente?» che venne bissato tanto la sera della prima quanto in
quasi tutte le repliche – non per altro si era nel «cattolicissimo» Impero
austro-ungarico. L’opera non ebbe, però, grande esito nel resto dell’Ottocento,
e negli stessi anni del Risorgimento, se la si raffronta con gran parte
delle altre opere verdiane che venivano acclamate in Italia ed all’estero.
Nabucco, anzi, è diventata un’icona del Risorgimento relativamente
tardi: è «popolare» ed eseguita di recente soltanto dal 1933-1934, in gran
252 Giuseppe Pennisi
misura perché il governo dell’epoca vi riscontrava maggior aderenza alla
propria visione del Risorgimento di quanto non la avesse La Battaglia di
Legnano, unica opera davvero patriottica di Verdi, scritta per la breve Repubblica
romana del 1849 ma imperniata su un’esaltazioni delle virtù dei
Comuni e profondamente antitedesca.
Gli storici della musica ormai concordano che Verdi acquisì una coscienza
risorgimentale solo in concomitanza dei moti del 1848, della Repubblica
romana e delle guerre d’Indipendenza. Occorre, però, ribadire che la
coscienza risorgimentale di Verdi fu sempre limitata. Il compositore è stato
essenzialmente un apolitico, fedele suddito di Maria Luigia, duchessa di
Parma e Piacenza. sino al trasferimento a Milano (1832) e dopo di allora
non ebbe – ad eccezione di un’adesione emotiva alla Repubblica romana –
altra manifestazione di «dissidenza» nei confronti dell’Impero con doppia
capitale (Vienna e Budapest), almeno fino al termine della terza guerra d’Indipendenza.
Le opere della «trilogia popolare» (Rigoletto, Trovatore e Traviata)
non ebbero le loro prime rappresentazioni nella Milano «liberata» con
la seconda guerra d’Indipendenza, ma nella Roma papalina e nella Venezia
asburgica. La sua opera concettualmente più rivoluzionaria, Stiffelio, imperniata
sul perdono dell’adulterio, ebbe la prima rappresentazione a Trieste,
città che fungeva da porto e da Borsa merci e valori di Vienna.
Quando compose Nabucco, Verdi, disperato per le tragedie familiari e
professionali che lo colpivano in quegli anni, aveva un dramma più intimo:
vacillava quella fede che lo aveva accompagnato sin da quando suonava
l’organo nella chiesa di Busseto. Nello scombinato libretto di Temistocle
Solera (lui sì patriota, ma anche libertino, politicante, cospiratore e antiquario
fallito), tutti perdono la fede (e più o meno la ritrovano): la principessa
assira Fenena si converte all’ebraismo, Zaccaria gran sacerdote degli
ebrei minaccia di accoltellare la figlia del Re assiro, questi impazzisce e,
quando rinsavisce, distrugge la statua del Dio dei suoi avi e si piega a quello
degli ebrei (senza, però, convertirsi e restando, quindi, in un limbo), la
protagonista Abigaille ha un solo nume – il potere politico assoluto – e
conosce una sola strada – il tradimento di tutto e di tutti (anche di sé medesima)
– primo chiaro segnale di come Verdi guardasse alla politica.
L’interpretazione corretta è fornita nel lavoro monumentale su Verdi di
Julian Budden: Nabucco deve intendersi come un tardo esempio di «dramma
biblico», un filone iniziato nel Settecento. In alcuni allestimenti recenti (si
pensi a quello di De Simone per il San Carlo a quello di Krief per l’Arena di
Verona), l’opera è stata letta come un colossal «biblico», quasi un film
«peplum» (così li chiamavano i francesi) degli anni Cinquanta, in cui da un
episodio del Vecchio Testamento – la cattività degli ebrei a Babilonia –, viene
Verdi e la paternità mancata 253
tratto un pasticciato libretto di amori contrastati, tradimenti, usurpazioni,
agnizioni, tentativi di stragi, conversioni sino al lieto fine e salvazione per
tutti (con redenzione, ovviamente, dei malvagi). In Nabucco il vero cattivo è
il Grande Sacerdote di Belo. Ma il nucleo drammatico più forte è nel rapporto
tra il Re assiro e le sue due figlie, Abigaille (in effetti una figliastra – dal
libretto non si capisce come e perché da schiava sia diventata presunta figlia
primogenita ed erede) e Fenena (innamorata dell’ebreo Ismaele, che Abigaille,
invaghita, vorrebbe sedurre ed utilizzare come oggetto sessuale). Il rapporto
tra il Re e le due donne (più anziana e perfida la prima, giovane ed
innocente la seconda) è complicatissimo: il Re viene soggiogato, o meglio
plagiato, dalla prima, a cui cede corona e trono. Sotto il profilo musicale,
Abigaille è la parte più ardua, scritta per un soprano drammatico di coloratura
(come era nel 1842 Giuseppina Strepponi), specialmente nell’interazione
con il Re (e supposto padre) che da lei viene fatto imprigionare e portare
alla pazzia. Da cui rinsavisce soltanto quando si accorge che l’altra figlia
Fenena sta per essere portata, con gli altri ebrei, al patibolo. Fenena è un
soprano leggero che ha un unico momento importante, il terzetto con Ismaele
e Abigaille al primo atto – tipica situazione di triangolo con forti tensioni
amorose (si pensi a situazioni analoghe in Trovatore e Don Carlo, soltanto
per citare due esempi). Ismaele un tenore lirico ancora molto donizettiano.
La produzione, concertata da Riccardo Muti a Roma nel 2011 con la
direzione drammaturgica di Jean-Paul Scarpitta (tra gli «eventi» per le celebrazioni
del centocinquantenario dell’Unità d’Italia) deve essere considerata
per molti aspetti esemplare perché, da un lato, il maestro concertatore e
l’orchestra danno un forte impulso ritmico ad un dramma di cui, sulla scena,
di risorgimentale c’è poco o nulla; Scarpitta offre infatti una lettura visionaria
in una scena unica e costumi in gran misura in bianco e nero, lontani da
interpretazioni colossali (come ad esempio nella messa in scena curata, sempre
a Roma, da Jacob Kaufmann nel 2004 e nel 2007). Uno dei meriti di
Scarpitta (autore di scene e regìa), di Maurizio Millenotti (costumi) e di Urs
Schönebaum (luci) è quello di mettere l’accento sul dramma psicologicoreligioso
al centro dell’opera. Per le quattro parti (sette quadri), saggiamente
rappresentati con due soli intervalli, viene utilizzato un unico impianto
scenico – un fondale alla Gustavo Doré – con costumi in gran misura in
bianco e nero e un’azione stilizzata. Niente di colossale alla Hollywood ma
efficace e tale da dare risalto agli aspetti più intimi del lavoro.
Nonostante l’età, grazie alla tecnica e alla recitazione, Leo Nucci affascina
ancora come Nabucco. Al suo fianco due scoperte, almeno per l’Italia:
l’ungherese Csilla Boross nel ruolo impervio di Abigaille, l’ucraino Dmitry
Beloselsky in quello di Zaccaria ed il giovane Antonio Poli in quello di
254 Giuseppe Pennisi
Ismaele. La produzione è andata in forma di concerto a San Pietroburgo al
Mariinskiy nel 2011; viene ripresa questa estate a Roma ed a Ravenna;
infine, tre repliche chiuderanno il Festival di Salisburgo 2013.
Interessante la produzione presentata nel 2006 a Bologna, portata in
trasferta al Festival di Savonlinna in Finlandia. Nabucco è una delle opera
di Verdi più rappresentate in Italia. Quasi in parallelo con l’edizione bolognese,
il Teatro Lirico di Cagliari aveva in scena una ripresa di un allestimento
di Daniele Abbado concepito per il Regio di Torino (e successivamente
ripresa a Reggio Emilia e a Parma) in cui l’azione veniva attualizzata
alle persecuzioni degli ebrei da parte dei nazisti. L’allestimento bolognese
non segue né la vena risorgimentale né la vena biblica. È affidato a Yoshi
Oida, curioso uomo di teatro giapponese che ha scritto di filosofia, ha pubblicato
romanzi ed anche fatto l’attore prima di essere scoperto da Peter
Brook. Probabilmente pensando allo scenario naturale del castello medioevale
di Savonlinna (in un’isola in mezzo ad un lago contornato da foreste),
Oida ha trasferito la vicenda nel Giappone di Rashomon e dei Sette Samurai,
pur nel più rigoroso rispetto di libretto e musica. Ha pure stilizzato la
recitazione seguendo le prassi del teatro Kabuchi. L’impostazione funziona
egregiamente anche grazie all’efficace scena unica (che facilita le trasferte),
agli abili movimenti del coro (diretto da Marcel Seminara) ed all’organizzazione
dello spettacolo in due parti (che ne incalza il ritmo). Soprattutto
la stilizzazione dei movimenti accentuando la teatralità quasi ritualistica
dello spettacolo rende plausibile un testo, e pone correttamente l’accento
sul dramma tra il Re, la figlia putativa e la figlia vera.
Più articolato il giudizio sulla parte musicale, quale ascoltata alla «prima
» del 18 maggio 2006. Massimo Zanetti viene dalla nidiata abbadiana
ed ha un grande successo in Italia ed all’estero. Ha dato un ritmo serrato
alla concertazione, accentuato, per di più, da qualche eccesso di nervosismo
nei fiati e negli ottoni che, di conseguenza, esaltava più del dovuto gli abbandoni
degli archi. Tutto ciò sarebbe stato assolutamente in linea con un
Nabucco nazionalpopolare o «peplum», ma pareva quasi stridere con la
stilizzazione di Yoshi Oida. Problematici anche alcuni equilibri tra palcoscenico
ed orchestra e nell’ambito delle voci. I due protagonisti (gli americani
Mark Rucker e Susan Neves) sono abituati a cantare al Metropolitan
ed hanno un volume adatto ai suoi 3000 posti più che alla sala del Bibiena
con i suoi 1000 posti scarsi. Molto buoni Julia Gertseva (un mezzo soprano
suadente, nota soprattutto per le sue interpretazioni cinematografiche) e
Sebastian Na (un tenore lirico spinto coreano che riesce anche a fare sfoggio
di agilità). Riccardo Zanellato è un basso di grande esperienza a cui la
parte di Zaccaria sembra cucita addosso.
Verdi e la paternità mancata 255
Un’ultima notazione. Nel 2011, sempre nel quadro delle celebrazioni
per i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia, l’Associazione Lirica e Concertistica
Italiana (Aslico), che da Como opera in tutto il Nord Italia, ha
messo in scena Nabuccolo, primo spettacolo di una trilogia pensata per
fare conoscere ai bambini e ai ragazzi l’opera lirica. I tre progetti musicali
di «Opera Education» (la piattaforma italiana che riunisce progetti didattici
e di spettacolo legati al mondo dell’opera e della musica sinfonica) sono
«Opera domani», dedicato ai ragazzi della scuola dell’obbligo, «Opera kids»
per la scuola dell’infanzia e «Opera It» per le scuole secondarie di secondo
grado. Vale la pena ricordare che il primo progetto di Aslico rivolto alle
scuole risale al 1997 con la prima edizione di «Opera domani», che all’epoca
coinvolse 7000 bambini. Da allora, l’iniziativa è andata crescendo fino
a raggiungere, nell’edizione 2011, un importantissimo traguardo grazie
alla partecipazione di 100 mila bambini e 3800 insegnanti in tutta Italia.
Il Nabuccolo, destinato ai bambini delle scuole materne, è uno spettacolo
godibilissimo, senza patine risorgimentali, in cui la vicenda viene
scarnita a quella di un amore tra una principessa babilonese e un principe
ebreo contrastato da un Re la cui malvagità dipende da un maleficio connesso
alla corona. Rotto il maleficio con la partecipazione dei bambini che
cantano in coro, tutti – si capisce – vivranno per sempre felici e contenti:
un piano, un soprano, un’attrice, marionette ed un minimo di attrezzeria.
Più elaborata la seconda parte: un’orchestra di venti elementi, un attore, un
baritono, due bassi, un soprano, un mezzo ed un tenore ed i ragazzi chiamati
a fare il coro. Tecnologica la terza parte. Un «Viva Verdi!» decisamente
high tech anche perché rivolto ai ragazzi delle scuole superiori che maneggiano
il computer meglio della penna.
I Due Foscari
I Due Foscari è l’opera più breve di Verdi. È cupa, tratta da una tragedia
ancor più cupa di Byron, grande poeta ma povero drammaturgo. Dimenticata
nell’Ottocento, «riscoperta» da Carlo Maria Giulini per una
delle memorabili esecuzioni della Rai. Venne ripresa sotto l’egida di Francesco
Siciliani per il Maggio Fiorentino e definitivamente rilanciata da
Bruno Bartoletti a Roma nel 1968 in un allestimento magico che approdò
al Metropolitan e preparò il vero e proprio revival. Ebbe notevole successo
alla Scala nel 1979 (debutto di Riccardo Chailly nella sala del Piermarini).
È di repertorio a Zurigo (dove ha un estimatore appassionato in Nello Santi).
A Roma venne ripresa nel 1980, ma fu un vero successo nel 2001 con-
256 Giuseppe Pennisi
certata da Bruno Bartoletti (che l’ha fatta ascoltare più volte a Chicago
dove è stato principal conductor per decenni). Ildebrando Pizzetti, che ne
adorava lo spartito e ne promosse la rappresentazione scenica del 1968, ne
vedeva un dramma in musica modernissimo. Ne erano appassionati Tullio
Serafin, Gianandrea Gavazzeni ed è Donato Renzetti che l’ha concertata,
tra l’altro, al Festival Verdi di Parma nel 2009. Tutto ciò ne spiega il successo
degli ultimi anni, specialmente negli Stati Uniti. L’ascoltare attento si
accorgerà che I Due Foscari anticipano i leitmotiv di Weber e di Wagner (i
temi ricorrenti che accompagnano, e caratterizzano, il Doge, Jacopo e Lucrezia),
anche se non credo che né l’uno né l’altro l’abbiano mai ascoltata
data la poca diffusione dell’opera dopo le recite al Teatro Argentina di Roma.
Inizialmente, l’opera era destinata a Venezia, ma il progetto venne
accantonato per presentare Ernani a La Fenice. Il libretto venne scritto
frettolosamente (e la musica composta rapidamente) per soddisfare un
contratto con il Teatro romano.
Purtroppo né il libretto di Piave né tanto meno la tragedia di Byron
(destinato non alla rappresentazione scenica, ma alla lettura, al pari, ad
esempio, delle due tragedie di Alessandro Manzoni) illustrano il contesto
storico-politico. Nel XV secolo, le famiglie Foscari e Lorendan si contendono
Venezia. Francesco Foscari è riuscito a farsi eleggere Doge per 35
anni ma Loredan presiede il Consiglio dei Dieci. Foscari ha avuto dieci figli
– cinque maschi e cinque femmine. Dei maschi, quattro sono morti in fasce.
Indi, il forte affetto di Francesco per il proprio erede Jacopo (l’unico che
può continuare la dinastia). All’apertura del sipario, Jacopo è accusato di
tradimento e di omicidio e viene processato dal Consiglio dei Dieci. Il giovane
si proclama innocente, ma il tribunale lo condanna all’esilio, ponendo
anche fine alla dinastia; quindi, Francesco disperato per la perdita e del figlio
e del ruolo abdica. Jacopo muore di un attacco cardiaco nel lasciare per
Venezia proprio mentre giunge la prova che non ha commesso l’omicidio
di cui è accusato. Storici recenti affermano che esistano reperti di lettere
tra Jacopo e gli Sforza di Milano, acerrimi nemici della Repubblica veneta,
nonché con lo stesso Maometto Secondo. Gli Sforza volevano togliere alla
Repubblica parte di quello che ora è il Veneto; Maometto Secondo aveva
mire sulla Dalmazia. Inoltre, in un duello in una calle Jacopo avrebbe ucciso
un famiglio dei Loredan (non si sa bene chi avesse per primo sfoderato
la spada). Del contesto storico-politico non c’è traccia né in Byron né in
Piave-Verdi: il lavoro è quindi imperniato sul tormento del padre di perdere
il figlio più che su quello della moglie di Jacopo, Lucrezia Contarini, di
dire addio per sempre al marito. In scena non avviene nulla o quasi in
quanto tutto accade prima e i fatti di rilievo che succedono durante i tre
Verdi e la paternità mancata 257
atti si verificano, in gran misura, dietro le quinte. L’opera ha solo tre personaggi
di rilievo e segue quasi le regole dell’unità aristotelica (tutto in un
giorno, nel Palazzo Ducale e dintorni). Pure lo sviluppo psicologico dei
protagonisti è limitato.
In effetti, anche se I Due Foscari appartiene agli «anni di galera» di Verdi,
è una tragedia lirica, per alcuni aspetti agganciata alla prima metà dell’Ottocento
e per altri già rivolta alla fine del secolo, se non già al Novecento:
pezzi chiusi, naturalmente, ma pochi; intercalati da brevi intermezzi; enfasi
sul declamato; un continuo orchestrale denso di mezze tinte, pur nella cupezza
generale dell’opera, un prodigioso quartetto, un concertato di grande livello
ed arie con cabaletta da virtuosa. Altri pregi dell’opera sono l’equilibrio
nella strumentazione e l’insistenza sui colori smorti nell’armonia, impiegata
prevalentemente nella tonalità bemolle per dare un senso omogeneo all’intera
partitura e superare la struttura ad episodi del melodramma tradizionale.
In questo contesto, nelle due arie del Doge Francesco, nella forma convenzionale,
a pezzo chiuso, la melodia è radicata in una realtà tragica.
È un piccolo, scarno capolavoro imperniato sull’amor filiale che rappresenta,
per alcuni aspetti, una svolta nello stile di Verdi: lasciato il melodramma
di impianto ancora donizettiano, afferma proprie caratteristiche e pone
le basi per quello che sarebbe ricordato come il «melodramma verdiano».
Nel recente allestimento romano (che verrà portato in Giappone), la
regia di Werner Herzog e le scene ed i costumi di Maurizio Balò mostrano
una Venezia glaciale ed innevata – «il gelo del potere», afferma Herzog – in
cui si svolge una tragedia di amore paterno e filiale, causata da una giustizia
pilotata a ragione delle faide tra aristocratici. Molto abile la recitazione (pur
nei limiti dell’azione drammatica).
Sotto il profilo musicale, Riccardo Muti evidenzia l’equilibrio nella
strumentazione ed i colori smorti nell’armonia, impiegata prevalentemente
nella tonalità bemolle. Nello spettacolo, primeggiano le voci: Luca Salsi
nelle due arie del Doge Francesco in cui la melodia è radicata in una realtà
tragica; Francesco Meli (suo figlio Jacopo) nelle due arie «spinte» in cui
sfoggia una vocalità generosa e Tatiana Serjan (Lucrezia) nell’impervia
coloratura drammatica.
Macbeth
Mentre Verdi non pensò mai a riprendere in mano I Due Foscari, Macbeth
è un’opera con cui Verdi convisse per tutta la vita componendone tre
differenti edizioni, anche a ragione del successo, in Italia ed all’estero,
258 Giuseppe Pennisi
riscontrato tra 1847 al 1880 circa. È una delle opere più «gettonate» nell’anno
in cui si celebra il bicentenario della nascita del compositore. È in scena
in tre fondazioni liriche e vari teatri di tradizione in differenti allestimenti.
Macbeth, la più breve e più compatta tragedia di Shakespeare, narra della
cruenta ascesa del protagonista, istigato dalla moglie, al potere assoluto, e
della sua successiva caduta. Il nucleo del dramma è tutto interiore: la rinuncia
ad un vero rapporto coniugale e ad avere figli per ottenere il potere; nel
testo di Shakespeare, la Lady chiede a Macbeth «unsex me», una rinuncia
più forte di quella del wagneriano Alberich che rinuncia all’amore ma non
al sesso ed alla procreazione, tanto che ha un figlio (Hagen) da una prostituta.
Quindi, sangue e guerra, nonché follia: l’ossessione dei due protagonisti
di uccidere anche i figli dei loro potenziali rivali (e la preoccupazione
all’apprendere che il giovane figlio di Banco riesce a riparare oltre confine,
in Inghilterra ed a diventare il simbolo e l’elemento unificante degli scozzesi
in esilio). Una tematica che anticipa Freud, troppo difficile da assimilare
nella metà dell’Ottocento; il successo le arrise più per i motivi spettacolari
che per quelli interiori. L’opera sparì dai cartelloni verso il 1880
quando diventavano di moda nuovi generi di teatro in musica. Venne rilanciata
da un’edizione strepitosa diretta da Vittorio Gui e successivamente
dalla proposizione alla Scala il 7 dicembre 1952 con Victor De Sabata nel
podio e Maria Callas protagonista. Quasi contemporaneamente Luchino
Visconti ne fece una memorabile edizione al Festival dei Due Mondi a Spoleto.
Questa edizione ne consacrò il ritorno nei repertori.
Pochi sanno che i Macbeth verdiani sono almeno tre: quello del 1847
che ebbe la prima al Teatro La Pergola di Firenze; quello del 1865, fortemente
rimaneggiato, per il Théâtre Lyrique di Parigi e aggiornato di nuovo
per La Scala nel 1874. Il primo è di stampo donizettiano; è stato ripreso al
Festival di Spoleto nel 2002 e si vede nella primavera 2013 in un nuovo
allestimento alla Scala. Il secondo in omaggio al gusto francese include
lunghi ballabili. Il terzo rispecchia il cambiamento di stile di Verdi, dopo
Aida ed anticipa Otello. L’edizione del 1874 è raramente citata nelle stesse
storie delle musica e viene messa in scena solo di tanto in tanto: se ben ricordo,
l’ultima volta che è stata vista è circa un lustro fa allo Sferisterio
Festival di Macerata. Esiste una quarta versione, costruita a uso e consumo
di Riccardo Muti sulle tre partiture. È stata vista ed ascoltata a Salisburgo
ed a Roma nel 2011; non è, però, diventata – come ci si attendeva – l’edizione
di repertorio a Vienna.
Nel 2013, Bologna, Genova, Trieste, Jesi, Ravenna, Modena e Reggio
Emilia offrono la «versione di riferimento», ossia quella parigina del 1856
ma senza i ballabili, piuttosto posticci e composti da Verdi controvoglia per
Verdi e la paternità mancata 259
assecondare il gusto parigino dell’epoca. La Scala propone un nuovo allestimento
della versione del 1847.
Macbeth è opera difficile. Nel suo epistolario, Verdi richiedeva «voci
efficaci, anche se non belle». È stata spesso sottovalutata perché il protagonista
non è un tenore e ci si allontana così ancora di più dalla tradizione
lirica della prima metà dell’Ottocento. È anche una delle opere più sorprendenti
di Verdi da un punto di vista musicale, canoro e drammaturgico.
Verdi non sviluppò più nelle opere successive il «recitar cantando» di Macbeth
con le sue relative indicazioni interpretative (canto declamato, sotto
voce, parlando, a voce spiegata, a voce aperta) oltre i passaggi di bel canto
come le arie di Banco e di Macduff. A differenza dell’edizione del 1847, in
quella del 1856 i due protagonisti non hanno una sola nota di bel canto e
anche per questo oggi è difficile mettere in scena quest’opera.
È raro che un’interprete del ruolo di Lady Macbeth abbia il coraggio
di «sporcarsi la voce», per citare un termine di Verdi, ossia di cantare con
una voce abbruttita. Il compositore emiliano è del tutto rivoluzionario
nell’affrontare gli abissi più profondi dell’essere umano, usa moltissimo la
cromatica e arriva addirittura a scrivere «ppppp» in partitura; è stato il
primo a farlo. È inoltre evidente un vitalissimo ritmo drammaturgico dato
dal susseguirsi di numerose scene che spesso si svolgono durante la notte,
metafora del lato oscuro del nostro essere. In quest’opera emergono tutte
le contraddizioni interiori, la complessa sfera emotiva e i conseguenti atteggiamenti
degli esseri umani. Per esempio Macbeth ha un solo motivo
per uccidere Duncan: colmare un profondo senso di vuoto legato alla decadenza
e all’affievolimento frustrante del rapporto erotico con Lady Macbeth
(dopo la rinuncia all’eros ed alla prole per il potere). Entrambi i coniugi
cercano dunque, da psicopatici, una compensazione, un nuovo stimolo
per la loro vita e la trovano sia nella corsa al potere sia nel compimento
degli omicidi (da quello di Duncan ai successivi). Lady Macbeth
diventa folle, prima omicida poi suicida e Macbeth cinico assiste alla sua
morte prima di essere anche lui ucciso.
Nell’edizione vista a Salisburgo ed a Roma nel 2011, la direzione musicale
è affidata a Muti; quella drammaturgica a Peter Stein. È un’edizione
particolare (anche rispetto alle precedenti dirette da Muti) in quanto combina
la versione dal 1856 con quella del 1847: termina con la morte del
protagonista (versione 1847) non con l’inno di vittoria degli esuli scozzesi
tornati in patria (versione 1856). Notevole l’abilità di Muti nel dare omogeneità
a due lavori appartenenti a fasi in cui la scrittura verdiana, specialmente
quella orchestrale, era mutata; la concertazione di Muti ha tempi
larghi, un piglio meno battagliero di quello delle precedenti edizioni da lui
260 Giuseppe Pennisi
dirette e una maggiore attenzione ai dettagli. L’orchestra e il coro rispondono
con grande efficacia. Nel cast (tutto di livello), spicca la Lady interpretata
da Tatiana Serjan, piena di temperamento scenico; nella scena del
sonnambulismo di rilievo il suo Si bemolle in pianissimo. Dario Solari è un
Macbeth che controlla gli acuti e opta per il sussurrato in intere scene.
Antonio Poli (Macduff) in una sola aria dà sfoggio di una vocalità già ricca.
L’ambientazione spoglia di Ferdinand Wögerbauer e l’attenzione alla recitazione
e ai movimenti della masse di Peter Stein danno un quadro solenne
a una tragedia essenzialmente psicologica.
A Jesi, Trieste e Genova è stata riallestita la produzione Svoboda-
Brockhaus, che ha debuttato a Roma nel 1995 e sino al 2000 ha girato in
vari teatri in Italia ed all’estero. Propone una straordinaria varietà di immagini
che prende vita da mezzi semplicissimi e da una tecnica sofisticata:
otto teli di maglia plastica, uno specchio trasparente e mutevoli proiezioni.
Le ombre si sovrappongono alle ombre creando illusioni e allusioni: il fantastico
mondo delle streghe, le apparizioni regali, il corteo dei profughi
scozzesi tra una rete informe di filo spinato, le immagini dell’incubo del
potere, in un gioco di apparizioni, sparizioni, convivenze inquietanti. L’ho
rivista (a 18 anni di distanza del debutto romano) a Jesi dove Giampaolo
Maria Bisanti dirigeva l’Orchestra Filarmonica Marchigiana. Il Coro Lirico
Marchigiano «V. Bellini» era diretto da Pasquale Veleno. Le scene di Josef
Svoboda sono ricostruite da Benito Leonori, i costumi sono di Nanà Cecchi,
le coreografie di Maria Cristina Madau. Nella compagnia di canto, protagonisti
erano Luca Salsi (Macbeth) e Tiziana Caruso (Lady Macbeth), con
Mirco Palazzi (Banco), Thomas Yun (Macduff), Dario Di Vietri (Malcolm),
Miriam Artiaco (Dama di Lady Macbeth), Carlo Di Cristoforo (Medico) e
Andrea Pistolesi (nei ruoli del Domestico di Macbeth, del Sicario e dell’Araldo).
Spettacolo di grande livello.
Il Teatro Comunale di Bologna e i teatri di Reggio Emilia e Modena non
ambientano Macbeth nelle nebbie scozzesi ma il regista Robert Wilson
trasporta le sue geometrie astratte e ritmiche nel teatro Kabuki. Ci sono
assonanze con il film Il Trono di Sangue di Kurosawa (tratto dalla medesima
tragedia shakespeariana) ma il dramma è tutto interiore. Quindi, anche
la battaglia finale nella foresta è sobria e stilizzata. Ancora più interessante
della regia di Wilson è l’impostazione musicale fortemente voluta dal maestro
concertatore Roberto Abbado e dal Direttore artistico Nicola Sani:
fare ascoltare la versione che il compositore considerava «definitiva» – ossia
quella del 1865. Verdi aveva ragione a preferirla alle altre per il «recitar
cantando» (successivamente ripreso solo in alcuni momenti di Falstaff) e
per le profonde sonorità orchestrali. Ne risulta una partitura incentrata sin
Verdi e la paternità mancata 261
dalle prime note su due anime tormentate che, assetate di potere, ricercano
invano, nell’ultimo atto, il perdono. Vengono deenfatizzati quelli che nella
seconda metà dell’Ottocento vennero visti come orpelli risorgimentali (il
coro degli scozzesi in esilio «Patria Oppressa») ed accentuata la solitudine
di Macbeth e della sua Lady.
Il terzo aspetto significativo è la presenza di Jenifer Larmore nel ruolo
della protagonista. Vent’anni fa era la regina del Rossini Opera Festival (e
non solo). Il mezzosoprano di Atlanta che debuttò giovanissima, a 55 anni
non solo è ancora attraente ma un esempio di attenta gestione della propria
voce: raggiunge tonalità gravi molto profonde ma sfoggia una coloratura
analoga a quella che possiamo ascoltare in un’incisione del 1952 di Maria
Callas diretta da Victor De Sabata. Macbeth e Banco sono Dario Solari e
Riccardo Zanellato (due veterani nei rispettivi ruoli). Di livello Roberto De
Biasio nella sola breve parte tenorile (Macduff).
Simon Boccanegra
Mentre negli anni della maturità Verdi lasciò I Due Foscari al loro
destino (e, come si è detto, ad un lungo oblio) e rimaneggiò Macbeth, che
aveva successo, per adattarlo a mutamenti di gusto, Simon Boccanegra è
stata per decenni una delle più «maledette» tra le sue «opere maledette».
Fu un tonfo alla «prima» a La Fenice nel 1857; rimaneggiata nel libretto e
nella musica, ebbe esiti modesti nelle riprese a Reggio Emilia, Milano, Napoli
e Firenze nel 1858-1859. Ripensata, con l’aiuto di Arrigo Boito che
rimise mano a parti essenziali del libretto, fu un successo di breve durata
quando la versione adesso corrente raggiunse La Scala nel 1881. Nell’ultimo
scorcio dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, man mano
che avanzava il Verismo, venne dimenticata. Gino Marinuzzi, consapevole
che si trattasse di un capolavoro unico nel teatro verdiano, tentò di rilanciarla,
a Roma, nel 1934. Da allora, Boccanegra ha ripreso un lento cammino,
giungendo alla consacrazione internazionale vera e propria all’inizio
degli anni Settanta grazie a due edizioni eccellenti, ma molto differenti:
quella di Gianandrea Gavazzeni, tragica, cupa, quasi infernale (ascoltabile
in un mirabile cd della Rca), e quella di Claudio Abbado, invece, dolce,
densa di colori chiari e di volumi leggeri (impareggiabili le evocazioni marine)
che in un allestimento indimenticabile di Strehler e Frigerio ha viaggiato
per il mondo (non solo in tutti i maggiori teatri italiani ma anche a
Londra, Parigi, Mosca, Washington e Vienna) ed è disponibile in cd e in
video. Nel 2001, ho avuto la rara fortuna di ascoltare le tre edizioni in un
262 Giuseppe Pennisi
arco temporale relativamente breve in un programma organizzato dalla Bbc
per il centenario della morte di Verdi. L’evoluzione mostra il grande amore
(a mio avviso ampiamente giustificato) che il compositore aveva per questo
suo incompreso e maltrattato figlio, a mio parere tra i suoi capolavori assoluti,
oltre che la sua opera che più mi emoziona. Molto cupe ed introverse
le prime due, aperta verso il mare, e le future generazioni, la terza.
La «maledizione» di Boccanegra è da imputarsi ad un libretto intricatissimo
e ad una partitura bifronte, rivolta in parte verso il passato ma anche
lanciata verso l’avvenire (si pensi all’impiego dei fagotti e del clarinetto
basso, inconcepibile senza l’esperienza wagneriana, in particolare del Tristan
und Isolde che Verdi, però, non conosceva). Sfoltito da tutti i ciarpami tipici
della romanistica popolare spagnola e del melodramma, Boccanegra
altro non è che un sofferto apologo. Il «corsaro» Simone, uomo del mare,
è costretto ad entrare in politica nella speranza di potere così sposare la
donna amata, di stirpe patrizia. Diventa, quindi, Doge ma la sua donna
muore e la loro figlia viene rapita prima ancora che egli prenda possesso
del suo incarico. Per un quarto di secolo esercita il potere diventando sempre
più solo, e sempre più lontano dal suo mare. Quando ritrova la figlia e
quando scopre l’affetto paterno per il giovane di cui lei è innamorata, è
troppo tardi: il gioco del potere lo annienta, proprio mentre, ricostituita
quella famiglia che per un quarto di secolo gli è mancata, sta per riavvicinarsi
al suo mare. A questo dramma, per così dire, «privato», se ne affianca
uno «pubblico»: la lungimiranza politica di Boccanegra, l’appello alla fine
delle guerre tra Genova e Venezia ed il sogno di un’Italia unita non è compreso
né dai patrizi né dai plebei che con lui condividono responsabilità di
governo ma innesca l’intrigo di tradimenti che porta alla catarsi finale, illuminata
dalla speranza che suo genero, diventato nei sentimenti suo figlio
adottivo, potrà continuare sul suo cammino.
A trent’anni circa dall’edizione del 1971, Abbado ha rivisitato Simon
Boccanegra in un allestimento nato a Salisburgo nel 2001 e gustato a Firenze,
al termine del 65esimo Maggio Musicale nel 2002. La regia (Peter
Stein) e l’impianto scenico (Stefan Mayer) sono molto differenti di quelli
di Strehler e Frigerio; allora, in un gioco di luci, dominava la brezza marina,
mentre oggi gli elementi scenici essenziali e la recitazione raffinata contrappuntano
l’apologo del potere e dell’amore paterno nel viaggio di Simone
verso la morte. L’Orchestra del Maggio risponde stupendamente alla guida
di Abbado, il quale, rispetto agli anni Settanta, dà all’opera una tinta soffusa,
notturna, sofferente e commossa, priva forse delle evocazioni marine
ma ancora più distante dalla lettura di Gavazzeni o di quelle di Fabio Luisi,
di Bruno Bartoletti, ascoltate di recente – non includo nel novero Michele
Verdi e la paternità mancata 263
Mariotti che, pochi anni fa, affrontò l’opera nel 2007 a Bologna a 28 anni,
troppo giovane per carpirne i maturi segreti.
Abbado ha portato una squadra di interpreti affiatata che, con una
sola eccezione (il compianto Vincenzo La Scola), erano già con lui a Salisburgo.
Carlo Guelfi è un Boccanegra sofferto, di grandi effetti e di grande
visione politica, Lucio Gallo un Paolo Albiani cugino vocale di Mefistofele
e di Jago, Karita Mattila una Maria/Amelia in pieno fulgore vocale,
anche se con qualche difficoltà di dizione in italiano, Vincenzo La Scola un
Gabriele Adorno appassionato ed impulsivo (ma già con qualche difficoltà
rispetto all’interpretazione ascoltata proprio a Firenze otto anni prima),
Julian Konstantinov un Fiesco monumentale (forse eccessivamente). Le
imperfezioni tecniche, tuttavia, vengono azzerate dal trasporto emotivo che
da Abbado e dall’orchestra travolgono un teatro stracolmo. E osannante.
Nell’edizione che il 27 novembre 2012 ha inaugurato la stagione lirica
a Roma, Riccardo Muti offre un Boccanegra per molti aspetti simile a quello
che nel 2001 Abbado presentò a Salisburgo. Una tinta orchestrale cupa
ammorbidita dal richiamo alle onde del mare, che per il protagonista vuole
dire libertà. Ottimi i fiati e gli ottoni. La regia di Adrian Noble, le scene rinascimentali
di Dante Ferretti e la curata recitazione rendono lo spettacolo
di livello e giustificano le vere e proprie ovazioni al calar del sipario. Il baritono
romeno George Petean è un Doge statuario con una vocalità ben
distante da quelle delle altre tra voci gravi – Quinn Kelsey, Riccardo Zanellato
e Dmitry Beloselsky –, cuore della parte politica. Francesco Meli e
Maria Agresta sono efficaci e toccanti nella giovane coppia al centro della
parte privata. All’applausometro, Meli ed Agresta hanno trionfato sugli altri.
Conclusione
Questo articolo riguarda un aspetto che ritengo fondante nella poetica
verdiana: la bellezza e la grandezza della paternità e, di converso, la tragedia
della paternità mancata o perduta. È tema centrale in quasi tutti i lavori di
Verdi. Ne sono stati scelti quattro sulla base di un criterio forse arbitrario:
tutti e quattro sono stati presentati di recente al Teatro dell’Opera di Roma
con la direzione musicale di Riccardo Muti. Nel bicentenario dalla nascita, è
un tema della poetica verdiana che ha meno risalto di quanto meriterebbe.
Spero che queste pagine inneschino una riflessione ed un approfondimento.
Giuseppe Pennisi

Nessun commento: