martedì 18 giugno 2013

Tra il dire e il fare in Lindro 18 giugno



OpinioniItaliaEconomia
Poche misure utili nell'ultimo decreto e niente rilancio
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Con i suoi 57 articoli e 61  pagine, nella versione , il ‘decreto del fare’,  prodotto dopo un Consiglio dei Ministri durato numerose ore, contiene – come ha scritto efficacemente Guido Gentili su Il Sole 24 Ore numerose misure utili ma non c’è nulla che dia lo scatto alla rilancio della produzione e dell’occupazione; Gentili lamenta in particolare la mancanza di provvedimenti in materia di ‘cuneo fiscale’ – il nostro, come è probabile confermi, l’Ocse nella presentazione di un proprio rapporto programmata per la mattina di venerdì 21 giugno al Senato – è uno dei più pensati nei Paesi industrializzati ed una vera palla di piombo all’impiego, specialmente dei newcomers come i giovani. Dario De Vico, su Il Corriere della Sera, parla di ‘cacciaviti’ per risolvere questo o quel nodo: non sottolinea, però, che i ‘ cacciaviti’, per essere efficaci, hanno bisogno di un ‘grimaldello’ che apra i punti cruciali del motore e consenta di lavorare sulle parti più difficili. O meglio, un piccolo ‘grimaldello’ c’è: le misure (molto modeste) per accorciare i tempi della giustizia civile, dando maggior rilievo alla conciliazione extra-giudiziaria e supportando i magistrati con stagisti. Tali misure hanno, però, già sollevato la rivolta degli avvocati – che da anni bloccano le chiusura dei piccoli tribunali-, una professione molto presente in Parlamento. Non c’è ‘grimaldello’ per la pubblica amministrazioni: alcuni dei maggiori sindacati sono già agitati dalle modeste norme che pongono sanzioni alla ‘lentocrazia’ imperante ed è, quindi, probabile che il provvedimento venga emendato drasticamente in Parlamento, ove non affossato sic et simpliciter.
Soprattutto, non c’è nulla che porti a tagliare i 351 miliardi di spesa pubblica al netto di prestazioni sociali e di pagamento di interessi ed ammortamento del debito pubblico: ossia per fare un ‘piccolo taglio di capelli’ alla macchina dello Stato pur mantenendo intatto il sociale (pensione, sanità, sussidi a individui e famiglie in fasce basse dei redditi e dei consumi) e non indebolendo la nostra posizione nei confronti di chi ha sottoscritto obbligazioni dello Stato.
Non vogliamo sminuire il grande lavoro fatto dei Ministri del Governo delle ‘ larghe intese’ e dai tecnici che li hanno affiancati, ma occorre fornire strumenti interpretativi per comprender perché i ‘cacciaviti’ non abbiano un ‘grimaldello’ e  come mai dalla montagna della spesa non si trovano gli 8 miliardi necessari per azzerare l’IMU sulla prima casa e impedire l’aumento dell’IVA –due misure per dare fiato alle famiglie e fornire speranze di un incremento della produzione e , quindi, della produzione e dell’occupazione.
Occorrono, a mio avviso, due differenti modelli interpretativi: il primo è quello tradizione del public choice di James Buchanan e Gordon Tullock; il secondo richiede un’analisi più complessa ed in cui la politologia deve affiancare la ‘triste scienza’ dell’economia.
Secondo i modelli interpretative del public choice, misure che riguardano specificatamente gruppi relativamente piccoli – gli avvocati nel caso dei Tribunali, i dipendenti delle amministrazioni provinciali nel caso dell’abolizione delle Province - ‘ passano ‘ o ‘non passano’ secondo gli interessi del gruppo, coeso e con grande capacità di mobilitazione. Mentre misure i cui costi e benefici si spalmano su tutta la collettiva (fornendo costi e benefici minuti a ciascuno anche se importanti per l’insieme della collettività) non trovano ‘paladini’ e restano al palo.
Più complesso il nodo delle difficoltà di aggredire la spesa: è utile tener presente che non ci riesce Margaret Thatcher. Come ho sottolineato su Il Sussidiario.Net del 17 giugno , un filone viene aperto da quelle che i politologi chiamano ‘le nuove teorie della democrazia’. Utile, a riguardo, il breve saggio di Bernard Manin, Principi del governo rappresentativo, pubblicato in Italia da “Il Mulino” nel 2010, e frutto di una lettura all’associazione che ha sede a Bologna. Manin, sessantenne, nato a Marsiglia, dopo una brillante carriera nelle ‘Grandes Ecoles’ francese, è da anni titolare di cattedra alla New York University dove dirige il centro di ricerca in studi politici e sociali. Appartiene, quindi, alla cultura dei due continenti e studia l’evoluzione di come si fa politica (e politica economica) in America ed in Europa. Il  saggio citato è incentrato sulla metamorfosi della democrazia segnata dal declino in atto da diversi anni dell’influenza dei partiti nella politica contemporanea e la parallela valorizzazione del ruolo dei leader e della comunicazione. Sempre più, infatti, nella “società del pubblico” che stiamo vivendo, il confronto tra gli individui si sta sostituendo a quello fra grandi ideologie interpretate e supportate da grandi organizzazioni partitiche. Occorre trovare l’equilibrio tra ‘democrazia rappresentativa’ e ‘democrazia deliberativa’ che consenta decisioni spedite (e se possibile di migliore qualità) su temi che non hanno ‘lobby’ specifiche come la riduzione (anche di poco) della spesa pubblica.
E’ un nodo che ’ un nodo che riguarda l’intera eurozona come traspare dal saggio di Ben Crum dell’Università di Amsterdam Saving the Euro at the Costo of Democracy pubblicato sull’ultimo numero de “Il Journal of Common Market Studies”. E’ una strada impervia e tutta in salita. - See more at: http://www.lindro.it/economia/2013-06-18/87612-tra-il-dire-e-il-fare-2#sthash.hY5BZPTN.dpuf

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