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Poche misure utili nell'ultimo
decreto e niente rilancio
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Con i suoi 57 articoli e 61 pagine, nella versione , il ‘decreto
del fare’, prodotto dopo un Consiglio dei Ministri durato numerose
ore, contiene – come ha scritto efficacemente Guido Gentili su Il Sole 24
Ore – numerose misure utili ma non c’è nulla che dia lo scatto alla
rilancio della produzione e dell’occupazione; Gentili lamenta in
particolare la mancanza di provvedimenti in materia di ‘cuneo fiscale’ –
il nostro, come è probabile confermi, l’Ocse nella presentazione di un proprio
rapporto programmata per la mattina di venerdì 21 giugno al Senato – è uno dei
più pensati nei Paesi industrializzati ed una vera palla di piombo all’impiego,
specialmente dei newcomers come i giovani. Dario De Vico, su Il
Corriere della Sera, parla di ‘cacciaviti’ per risolvere questo o quel
nodo: non sottolinea, però, che i ‘ cacciaviti’, per essere efficaci, hanno
bisogno di un ‘grimaldello’ che apra i punti cruciali del motore e consenta di
lavorare sulle parti più difficili. O meglio, un piccolo ‘grimaldello’ c’è:
le misure (molto modeste) per accorciare i tempi della giustizia civile, dando
maggior rilievo alla conciliazione extra-giudiziaria e supportando i magistrati
con stagisti. Tali misure hanno, però, già sollevato la rivolta degli
avvocati – che da anni bloccano le chiusura dei piccoli tribunali-, una professione
molto presente in Parlamento. Non c’è ‘grimaldello’ per la pubblica
amministrazioni: alcuni dei maggiori sindacati sono già agitati dalle modeste
norme che pongono sanzioni alla ‘lentocrazia’ imperante ed è, quindi, probabile
che il provvedimento venga emendato drasticamente in Parlamento, ove non
affossato sic et simpliciter.
Soprattutto, non c’è nulla che porti a tagliare i 351
miliardi di spesa pubblica al netto di prestazioni sociali e di pagamento di
interessi ed ammortamento del debito pubblico: ossia per fare un ‘piccolo taglio di capelli’ alla
macchina dello Stato pur mantenendo intatto il sociale (pensione, sanità,
sussidi a individui e famiglie in fasce basse dei redditi e dei consumi) e non
indebolendo la nostra posizione nei confronti di chi ha sottoscritto
obbligazioni dello Stato.
Non vogliamo sminuire il grande lavoro fatto dei Ministri del Governo delle
‘ larghe intese’ e dai tecnici che li hanno affiancati, ma occorre fornire strumenti
interpretativi per comprender perché i ‘cacciaviti’ non abbiano un
‘grimaldello’ e come mai dalla montagna della spesa non si trovano gli 8
miliardi necessari per azzerare l’IMU sulla prima casa e impedire l’aumento
dell’IVA –due misure per dare fiato alle famiglie e fornire speranze di un
incremento della produzione e , quindi, della produzione e dell’occupazione.
Occorrono, a mio avviso, due differenti modelli
interpretativi: il primo è quello tradizione del public choice di James
Buchanan e Gordon Tullock; il secondo richiede un’analisi più complessa ed in
cui la politologia deve affiancare la ‘triste scienza’ dell’economia.
Secondo i modelli interpretative del public choice, misure che
riguardano specificatamente gruppi relativamente piccoli – gli avvocati nel
caso dei Tribunali, i dipendenti delle amministrazioni provinciali nel caso
dell’abolizione delle Province - ‘ passano ‘ o ‘non passano’ secondo gli
interessi del gruppo, coeso e con grande capacità di mobilitazione. Mentre
misure i cui costi e benefici si spalmano su tutta la collettiva (fornendo
costi e benefici minuti a ciascuno anche se importanti per l’insieme della
collettività) non trovano ‘paladini’ e restano al palo.
Più complesso il nodo delle difficoltà di aggredire la spesa: è utile tener
presente che non ci riesce Margaret Thatcher. Come ho sottolineato su Il
Sussidiario.Net del 17 giugno , un filone viene aperto da quelle che i
politologi chiamano ‘le nuove teorie della democrazia’. Utile, a riguardo, il
breve saggio di Bernard Manin, Principi del governo rappresentativo,
pubblicato in Italia da “Il Mulino” nel 2010, e frutto di una lettura
all’associazione che ha sede a Bologna. Manin, sessantenne, nato a Marsiglia,
dopo una brillante carriera nelle ‘Grandes Ecoles’ francese, è da anni titolare
di cattedra alla New York University dove dirige il centro di ricerca in studi
politici e sociali. Appartiene, quindi, alla cultura dei due continenti e
studia l’evoluzione di come si fa politica (e politica economica) in America ed
in Europa. Il saggio citato è incentrato sulla metamorfosi della
democrazia segnata dal declino in atto da diversi anni dell’influenza dei
partiti nella politica contemporanea e la parallela valorizzazione del ruolo
dei leader e della comunicazione. Sempre più, infatti, nella “società del
pubblico” che stiamo vivendo, il confronto tra gli individui si sta sostituendo
a quello fra grandi ideologie interpretate e supportate da grandi
organizzazioni partitiche. Occorre trovare l’equilibrio tra ‘democrazia rappresentativa’
e ‘democrazia deliberativa’ che consenta decisioni spedite (e se possibile
di migliore qualità) su temi che non hanno ‘lobby’ specifiche come la riduzione
(anche di poco) della spesa pubblica.
E’ un nodo che ’ un nodo che
riguarda l’intera eurozona come traspare dal saggio di Ben Crum dell’Università
di Amsterdam Saving the Euro at the Costo of Democracy pubblicato sull’ultimo
numero de “Il Journal of Common Market Studies”. E’ una strada impervia e tutta
in salita. - See more at: http://www.lindro.it/economia/2013-06-18/87612-tra-il-dire-e-il-fare-2#sthash.hY5BZPTN.dpuf
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