Ruggero
Cappuccio alle prese con “Don Pasquale”di Donizetti
19 - 06 - 2013Giuseppe Pennisi
Il quarantottenne Ruggero Cappuccio è uno dei più apprezzati metteur
en scène su piazza. Ho avuto il piacere di leggere la sua tesi su Edmun Kean
(quando, per un periodo, ho insegnato a Salerno). Mi ha conquistato con il Re
Lear co-diretto con De Bernardinis e Santagata. In materia di
opera lirica ho goduto non solo il suo Falstaff ma anche le opere della “scuola
napoletana” riscoperte (con la concertazione di Riccardo Muti. Conosco
meno le sue opere teatrali e la sua narrativa. I suoi lavori traspirano
l’intelligenza ed il tatto della Napoli di Scarfoglio. Non lo ho mai conosciuto
personalmente. A maggior ragione, ciò indica che la mia stima professionale non
è tinta da colorature di simpatie di natura privata.
Per questo motivo, mi spiace che ha toppato nel Don Pasquale presentato a
Roma il18 giugno e che si sia beccato fischi dal solitamente compassato
pubblico delle “prime” operistiche romane. A volte anche i “grandi” prendono
fischi per fiaschi e ricevono qualche “boo”.
Peccato perché, dopo il successo (a Roma) de “L’Elisir d’Amore” di Donizetti
e de “Il Barbiere di Siviglia” di Rossini, l’accoppiata Ruggero
Cappuccio (ed il suo team) per regia, scene e costumi e Bruno
Campanella per direzione musicale sembrava vincente. Inoltre, “Don
Pasquale” tornava dopo 11 anni a Roma e nel 2011 la moscia concertazione di Antonino
Fogliani aveva danneggiato anche la regia tradizionale di Italo Nunziata:
lo spettacolo veniva salvato da Alfonso Antoniuzzi e e un vero e proprio
trampolino di lancio per la bella e brava Inva Mula.
Le attese erano molte. Si pensava che altri teatri sarebbero stati
interessati. Ma Cappuccio trasforma in farsa il capolavoro estremo di Donizetti,
riempiendo il palcoscenico di mimi, gag, frizzi e frazzi. Si perde il
significato profondo “Don Pasquale”. Scritto per la Parigi dove nel 1843 la
borghesia aumentava ruolo e potere è invece il prototipo della commedia
borghese, con momenti divertenti ed una punta di femminismo (quale possibile
allora) ma fondamentalmente amaro ed intriso di melanconia. E’una riflessione
sull’invecchiamento, sulla lealtà tra amici, sulle sfaccettature dell’amore.
Nella storia dell’opera italiana, è un ‘unicum’; occorre arrivare al verdiano
“Falstaff” per giungere a qualcosa di simile. Con una differenza profonda:
venendo da Shakespeare, “Falstaff” necessità un’ambientazione elisabettiana
(ottima quelle proposta proprio a Roma da Zeffirelli alcuni anni fa)
mentre nel 1843 veniva rappresentato in abiti contemporanei. E funzionerebbe
perfettamente in vestiti 2013. Il protagonista, poi, non è un aristocratico
(come sembra mostrare il Palazzo in cui vive e la servitù in polpe che lo
contorna) ma un botteghiere arricchitosi, un “generone”.
Difficile capire perché Cappuccio & Co. Non abbiano preso spunto da
queste idee per proporre un allestimento moderno in linea con la partitura
agro-dolce (una delle più belle composte da Donizetti in poco più di tre
settimane).
Amarezza e melanconia, frammiste con ironia, sono la chiave della
concertazione di Campanella che dosa con cura l’elemento comico con il
rimpianto della giovinezza lontana in un borghese, arricchitosi con il
commercio, ma rimasto ‘piccolo piccolo’ e, tale , quindi da essere facilmente
ingannato da amici e parenti spregiudicati. Nicola Alaimo e Mario
Cassi sono veterani dei rispettivi ruoli (il “Don” ed il “Dottor
Malatesta”). Due felici sorprese la giovanissima coppia: Joel Prieto un
tenore lirico spagnolo dalla voce vellutata, il fraseggio perfetto e la
capacità di salire agevolmente a registri alti, e Eleonora Buratto,
svettante soprano di coloratura. Ambedue, inoltre, recitano con grande abilità.
Prieto e Buratto andranno lontani.
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