Da Letta un
assist ai "rottamatori" dei partiti
lunedì 17 giugno 2013
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NEWS Economia e Finanza
Con i suoi 57 articoli e 61 pagine, nella versione “provvisoria” (i tecnici
stanno limando il testo), il “decreto del fare”, prodotto dopo un Consiglio dei
Ministri durato numerose ore, è da ieri all’esame di commentatori e analisti
economici. Nei prossimi giorni, sarà al vaglio delle Commissioni parlamentari
che, con il supporto degli uffici di Camera e Senato, ne sviscereranno
implicazioni in termini di finanza pubblica e di impatto sull’economia reale,
con particolar riguardo alla crescita (specialmente dell’occupazione e in
specie di quella giovanile).
Per una volta, il vostro “chroniqueur” toglie la casacca dell’economista e
decide di non trattare né di coperture finanziarie delle varie misure, né delle
ramificazione sul tessuto economico del Paese. Per il modo in cui è nato - una
lunga trattativa mentre il “fuoco amico” sparava sul traballante Governo delle
“grandi intese” e almeno due delle principali forze politiche del Paese si
torturavano su “problemi” che riguardavano (al più) i loro rispettivi ombelichi
- il “decreto del fare” è un ulteriore sintomo (forse il maggiore) della scarsa
capacità dei partiti di essere il canale di trasmissione tra le varie forze
esistenti nella società del Paese, da un lato, e il Governo e il Parlamento,
dall’altro. È l’inadeguatezza, ove non la rottura, di tale canale alla base di
un malessere che difficilmente potrà essere curato unicamente o principalmente
da riforme istituzionali quali quelle che da decenni si stanno mettendo in
cantiere (senza peraltro arrivare a conclusioni).
Anche in Italia è giunto in traduzione il libro, divulgativo ma fondato su
una profonda e vasta strumentazione teorica, di Daron Acemoglu e James Robinson
su come l’elemento politico spieghi perché alcuni Paesi crescono e altri
declinano. La nuova political economy utilizza sempre più frequentemente
gli strumenti della politologia per comprendere “come si fa politica economica”
(mutuando dal titolo di un saggio breve ma fondamentale di Avinash Dixit
scritto un quarto di secolo fa ma mai tradotto in italiano). Allora, in un
centinaio di pagine, Dixit faceva ricorso alla teoria di gioco applicata ai
processi politici per illustrare come politica economica “normativa” (quella
che analizza come si fissano obiettivi e si raggiungono) e politica economica
“positiva” (quella che spiega i comportamenti di individui, famiglie, imprese,
istituzioni) potessero trovare un ponte.
Oggi le “nuove teorie della democrazia” - analizzate in Italia da anni, ad
esempio, da Gianfranco Pasquino e oggetto anche di un bel lavoro della
Fondazione CittàItalia, il “pensatoio” dell’Anci - mettono sempre più frequentemente
in evidenza come il sistema di “democrazia rappresentativa” (con una forte
intermediazione partitica) sia adatto a società dove l’integrazione economica
internazionale, da un lato, e le esigenze di varie fasce della popolazione
dall’altro, impongono di “deliberare” speditamente. Altrimenti, si perdono
punti nell’agone internazionale e ci si autocondanna al declino.
Le teorie della “democrazia deliberativa” mettono sotto accusa il sistema
dei partiti, che ritengono non più in linea con le esigenze del XXI secolo.
Nati come forme elitarie di partecipazione alla politica nel Settecento, hanno
ben retto alla trasformazione in partiti di massa nel Novecento, ma non
svolgono più le loro funzioni nel mondo dell’integrazione economica
internazionale, della cibernetica e delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione.
Non so quanti economisti abbiamo letto il breve saggio di Bernard
Manin, Principi del governo rappresentativo, pubblicato in Italia
da “Il Mulino” nel 2010, e frutto di una lettura all’associazione che ha sede a
Bologna. Manin, sessantenne, nato a Marsiglia, dopo una brillante carriera
nelle “Grandes Ecoles” francesi, è da anni titolare di cattedra alla New York
University, dove dirige il centro di ricerca in studi politici e sociali.
Appartiene, quindi, alla cultura dei due continenti e studia l’evoluzione di
come si fa politica (e politica economica) in America e in Europa. Il saggio
citato è incentrato sulla metamorfosi della democrazia segnata dal declino in
atto da diversi anni dell’influenza dei partiti nella politica contemporanea e
la parallela valorizzazione del ruolo dei leader e della comunicazione.
Sempre più, infatti, nella “società del pubblico” che stiamo vivendo, il
confronto tra gli individui si sta sostituendo a quello fra grandi ideologie
interpretate e supportate da grandi organizzazioni partitiche. Non so neanche
se i leader del M5S abbiano letto il saggio menzionato (e le più vaste opere di
Manin). Se i leader del Movimento lo hanno fatto, vi hanno trovato indicazioni
utili per la loro affermazione alle elezioni politiche e per il successo dei
partiti “vecchi” a quelle amministrative. Se non lo hanno fatto, vi potranno
leggere suggerimenti su come superare le difficoltà in atto. Quale che sia il
caso, il saggio spiega l’attenzione del Governo degli Stati Uniti e degli
studiosi americani nei confronti della miscela di democrazia diretta e
rappresentativa su cui pare fondato il M5S.
Più importanti della implicazioni per il M5S, sono quelle per la riforma
del sistema politico italiano. Non si tratta principalmente di ricamare nuove
forme di cameralismo, di presidenzialismo, di leggi elettorali, ma di trovare
l’equilibrio tra “democrazia rappresentativa” e “democrazia deliberativa” che
consenta decisioni più spedite (e se possibile di migliore qualità) di quelle
che hanno portato al pur decentissmo “decreto del fare”. Un processo già
compiuto negli Stati e in corso nella Repubblica federale tedesca e in numerosi
Stati nordici.
La strada è lunga e impervia. Qualcuno (al di fuori delle torri eburnee
delle università) ha cominciato a percorrerla? Se nessuno lo fa, si resterà
sempre indietro.
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