L’EUROZONA COME BRETTON WOODS
UNA MOSSA CHE VA DICHIARATA
Giuseppe Pennisi
Ci sono vari modi per leggere le decisioni degli ultimi giorni sull’eurozona. Le due posizioni estreme sono le seguenti; da un lato, le misure altro non sarebbero che ritocchi, per fare fronte ad emergenze (in primo luogo quella della Grecia), senza incidere sul disegno dell’unione monetaria e dell’UE; da un altro, i provvedimenti (specialmente il forte aumento della dotazione del fondo “salva Stati” e l’acquisto di debito sovrano tramite emissioni di “eurobonds) non solo modificano i trattatti dell’”eurozona” ma la mettano in mezzo ad un guado in cui si vede la riva che si è lasciata ma non quella dove si vuole approdare.
In effetti, già l’”eurozona” quale allestita a Maastricht era lontana sia dalle unioni monetarie dei manuali di economia internazionale sia dalle esperienze del passato. Veniva unicamente costruita a tappe su un arco di un decennio, ma non contemplava la caratteristica di fondo delle aree valutarie: la mobilità effettiva (non solamente legale) di fattori di produzione, merci e servizi all’interno dell’area. Se non altro per ragioni storico-culturali, i lavoratori, i capitali, le merci ed i servizi non si muovono all’interno dell’eurozona così come avviene all’interno degli Usa o così come avveniva all’interno delle zone del franco, della sterlina e del rublo. Ora viene a mancare un’altra caratteristica: la neutralità dell’autorità monetaria centrale rispetto alle virtù ed i vizi dei singoli Stati.
Una dozzina di Stati Usa (per un totale di 150 milioni di persone) sono sull’orlo del fallimento: la Federal Reserve (e sia il Governo federale sia il Congresso) restano neutrali e non se ne preoccupano più di tanto. Ci sono stati fallimenti sovrani all’intero della zona della sterlina e del franco senza che ci si agitasse troppo; forse – è un capitolo tutto da studiare- pure all’interno di quella del rublo. Il Ministro del Tesoro italiano in carica nel 1992 Piero Barucci e l’allora Governato della Banca d’Italia Antonio Fazio ricordano come vennero affrettati i salvataggi dei banchi meridionali (Napoli e Sicilia) perché una volta entrato in vigore il Trattato di Maastricht non sarebbe più stato legittimo farlo. Ora si salvano indirettamente istituti che si sono comportati in modo spericolato attratti dagli alti rendimenti promessi da alcuni Governi dell’eurozona.
Alcuni mesi fa,Martin F. Hellwing del Max Planck Institute ha pubblicato un interessante saggio dal titolo “Quo Vadis Eurozone?”; vi si fornivano anche interessanti indicazioni. Pochi lo hanno letto (le misure prese non vanno nel senso auspicato da Hellwig). Ed ancora meno sono coloro che posti il suo interrogativo. Sarebbe futile intonare geremiadi su perché non si è andati nella direzione (auspicata da Hellwig) di rendere l’eurozona più simile a quanto si insegna in università ed alle esperienze di unioni monetarie del passato. La domanda posta, però, non si può eludere. Il sistema che sta nascendo pare più vicino a quello di gestione collettiva in vigore dal 1945 al 1973 a livello internazionale (ossia quello detto di Bretton Woods dal luogo dove è stato codificato): un’autorità centrale interventista con una dotazione per facilitare gli aggiustamenti delle bilance dei pagamenti. Se questo è l’obiettivo implicito, meglio renderlo chiaro per vedere quale è l’altra sponda del guado e come arrivarci nel modo più efficiente e più giusto.
In altri termini, si potrebbe delineare un percorso di convergenza delle economie reali (produttività, competitività, coesione sociale) ed un approdo secondario per chi non vuole o non può seguirlo. Ci sono esempi recenti (soprattutto in America Latina ed in Asia) da cui si possono trarre lezioni utili. C’è pure uno strumento – in gergo lo SME II – che consente un’ampia gamma di possibilità per giungere, se si vuole, ad una moneta europea a più velocità o a differente grado d’integrazione. Se non chiariamo il “quo vadis” finiremo per farci male da soli. Tutti.
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