FINANZA/ Italia, la nuova fregatura accettata col silenzio
L’ultimo Consiglio europeo si è
chiuso con una doppia sconfitta per l’Italia. Nel silenzio generale arriveranno
novità negative, spiega GIUSEPPE PENNISI 18
dicembre 2017 Giuseppe
Pennisi
Lapresse
Il Consiglio europeo del 14-15 dicembre - occorre dirlo francamente - è
stato una grave sconfitta per l’Italia. E non promette nulla di buono per il
trattamento futuro da attendersi dalle autorità europee nei nostri confronti.
L’Italia aveva due obiettivi: a) giungere a un accordo sulla ripartizione dei
migranti sul territorio degli Stati dell’Unione europea; b) porre le premesse
per la revisione del Fiscal compact del 2012 che, nella sua forma e
nelle sue specifiche attuali, giunge a scadenza alla fine dell’anno, ossia tra
meno di due settimane. Aveva anche interesse al completamento dell’unione
bancaria, ma poca voce in capitolo poiché sino a quando non ci sono segni
concreti che il nostro debito pubblico in rapporto al Pil si sta abbassando - e
sino a quando il resto del mondo vedrà il modo, per così dire, “familiare”, con
cui vengono trattati i nostri problemi bancari - è oggettivamente difficile far
sì che altri garantiscano i nostri conti correnti per noi.Andiamo al primo punto, che è stato già trattato da Giulio Sapelli su questa testata il 16 dicembre. Il nodo non è solo l’impossibilità di tenere insieme virtuosamente il principio funzionale e quello di rappresentanza territoriale, ma la capacità di tener fede agli accordi sottoscritti. Siamo stati tra i primi firmatari della Convenzione di Dublino del 1990 e il relativo Regolamento. In base al trattato (tale è la Convenzione) e al Regolamento “lo Stato membro competente all’esame della domanda d’asilo sarà lo Stato in cui il richiedente asilo ha fatto il proprio ingresso nell’Unione europea“. In tutti questi anni, man mano che il tema delle immigrazioni si estendeva e si approfondiva, avremmo potuto chiedere una modifica, una rettifica o anche solamente un protocollo interpretativo che avrebbe reso meno pesante l’onere sull’Italia di costi chiaramente crescenti sui Paesi come il nostro più vicini ai porti di imbarco dei migranti.
Non solamente non lo abbiamo mai fatto, ma nessuno ha smentito le dichiarazioni di autorevoli politici europei secondo cui un ex-Presidente del Consiglio avrebbe offerto alle autorità europee l’accoglienza di tutti i migranti sbarcati e sbarcanti sulle nostre coste in cambio della flessibilità di bilancio per attuare alcune manovre particolaristiche dal chiaro sapore elettoral-clientelare. In questa materia, quindi, l’Italia non può chiedere altro che la clemenza del resto dell’Ue, una clemenza che numerosi Stati non hanno nessuna intenzione di dare. Inutile cercare di sbrogliare la matassa in altri modi. Anzi, quanto più chiediamo interpretazioni benevole tale da rendere flessibili le regole da noi firmate, tanto più perdiamo credibilità e veniamo considerati poco affidabili.
Differente il problema del Fiscal compact. Entro il 2018 i paesi dell’Unione dovranno decidere se inserirlo nei trattati Ue. In Italia la discussione su questo passaggio è quasi totalmente assente e si rischia, come in altre occasioni, che le decisioni vengano prese senza alcun dibattito. Tuttavia, le proposte presentate, una decina di giorni fa, dalla Commissione europea in materia di futuro dell’Unione ci avrebbero dato modo di porre il problema sul tavolo del Consiglio; secondo queste proposte, il Compact diventerebbe una Direttiva, mantenendo aspetti discutibili e diventando fonte continua di contenziosi.
Prima del Consiglio europeo, una trentina di economisti italiani si sono rivolti al Governo con un appello in cui si sottolinea: a) l’esigenza, di scorporare gli investimenti pubblici dal computo del disavanzo: una correzione che, rispetto alla finalità di assicurare la stabilità economica e la crescita dell’Unione, è assai più rilevante di quelle derivanti dal possibile allargamento del margine di deficit previsto dal Patto di stabilità e crescita; b) la necessità di riesaminare l’obbligo di equilibrio strutturale dei conti pubblici, difficilmente computabile e tale da aggravare le fasi recessive: c) l’urgenza di rivedere l’obbligo per i Paesi con un debito sopra il 60% del Pil di ridurre l’eccedenza di un ventesimo ogni anno. A questi punti essenziali, se ne aggiungono altri.
In materia, nonostante le proposte Juncker ce ne dessero adito, siamo rimasti silenti. Un silenzio davvero assordante.
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