Nel 2018 l’Italia può guidare il processo
per cambiare le regole del Fiscal Compact
Pochi giorni prima del Consiglio Europeo del 14 e 15
dicembre, oltre cinquanta economisti italiani, delle più varie università e
scuole accademiche, hanno inviato un appello al governo perché si utilizzasse
l’opportunità del vertice per modificare il Fiscal Compact. Pochi ricordano che
il Fiscal Compact, in base all’articolo 16 dell’accordo, scade alla fine di
quest’anno. Secondo la norma, «sulla base di una valutazione della sua
attuazione », si dovrà decidere se inserirlo nel 'corpus' di base dei trattati
europei o se modificarlo.
Oppure se accettare la proposta della Commissione europea di
inserirlo, tale e quale, nelle 'Direttive Europee'. Questa sarebbe l’ipotesi meno
auspicabile, specialmente per l’Italia. Da un lato, al pari di altre
'Direttive', sarebbe fonte di continui contenziosi. Da un altro non
risolverebbe il nodo di fondo: l’equilibrio strutturale di bilancio
aggraverebbe potenziali stagnazioni e recessioni (come si è visto negli ultimi
anni). Da un altro ancora non risolverebbe due aspetti specialmente seri per il
nostro Paese.
Il primo riguarda il trattamento dell’investimento pubblico
(esce in questi giorni un interessante voluto di Alessandro Focaracci,
Presidente della Fondazione di studio Fastigi in cui si documenta come in
Italia le spese per opere pubbliche siano passate dal 3% del Pil negli anni
novanta a meno dell’1% negli ultimi tempi). Se ai fini del computo del
disavanzo, gli investimenti pubblici non vengono scorporati, ci si condanna a
infrastruttura carente con la conseguenza di stagnazione e bassa produttività.
Il secondo è l’obbligo per i Paesi con un debito sopra il 60% del Pil (il
nostro supera il 130%) di ridurre l’eccedenza di un ventesimo ogni anno. Quando
venne istituito con il Trattato di Maastricht, il parametro del 60% non era
altro che il valore medio dei paesi aderenti all’Unione. Oggi, a fronte dei
risultati di crescita non certo brillanti di un quarto di secolo di politiche
economiche europee, il valore medio è aumentato fino al 90%. In queste
condizioni, e a fronte delle incidenze ancora maggiori che si riscontrano in
Giappone e negli Stati Uniti, sarebbe ragionevole proporsi obiettivi più
realistici. L’appello degli economista sottolinea che la doppia crisi che ha
travolto l’economia europea nell’ultimo decennio ha dimostrato oltre ogni
ragionevole dubbio che è proprio la macchina europea ad aver bisogno di
profonde riforme strutturali. Riforme che, come mostrano i recenti studi effettuati
nell’ambito dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, devono puntare al
netto orientamento delle politiche economiche europee e nazionali verso un
modello di sviluppo trainato dai salari, dai consumi interni e da nuovi
investimenti. L’appello non è stato ascoltato prima del Consiglio Europeo di
metà dicembre. Tuttavia, il Compact può e deve essere migliorato ed è ancora
possibile che sia all’ordine del giorno del primo vertice 2018. L’Italia può
prendere l’iniziativa in tal senso.
Giuseppe Pennisi
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