FINANZA E POLITICA/ I nuovi
guai europei per l'Italia nel 2018
Il 2017 non
si chiude bene per l'Europa. L'Italia avrebbe un'occasione importante per
recuperare un peso nell'Ue. Ma servirebbe un miracolo alle elezioni. GIUSEPPE
PENNISI 25 dicembre 2017 Giuseppe Pennisi
Jean-Claude Juncker (Lapresse)
Nonostante
la leggera ripresa economica in atto, il 2017 termina male per l'Europa: in
seguito a un referendum vinto per una manciata di voti, la Gran Bretagna si
distacca del resto dell'Unione europea tramite un negoziato che si profila
lungo e complesso; negli ultimi mesi dell'anno si è accentuato il contrasto tra
il "Gruppo di Visegrad" (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia,
Ungheria) e il resto delle istituzioni europee su materie gravi
(dall'immigrazione all'unione bancaria), quasi alla vigilia di Natale giungono
i risultati delle elezioni in Catalogna, che promettono grandi tensioni in
Spagna, tali da diffondersi nel resto degli Stati meridionali dell'Ue. Su
questi problemi "interni" all'Ue, si innescano due temi che non
potranno non avere effetti sull'Unione: da un lato, la riforma tributaria
varata negli Usa riduce la competitività relativa delle imprese europee
rispetto a quelle Usa, da un altro, sotto il profilo sia commerciale sia degli
investimenti, la Cina sta diventando sempre più aggressiva verso un'Unione nei
cui confronti ha antiche recriminazioni (il passato coloniale, la "guerra
dell'oppio") e che vede come un mercato in attesa di essere conquistato e
da cui carpire tecnologia.
Cosa può
fare l'Italia in questo contesto? In passato - dagli anni Sessanta alla fine
degli anni Ottanta - l'Italia aveva il ruolo dell'honest broker, il
mediatore "onesto" in grado di trovare soluzioni adeguate quando
Repubblica federale tedesca, Francia e Gran Bretagna (i principali azionisti)
erano ai ferri corti, grazie alla professionalità e alla capacità della nostra
diplomazia (sia della Farnesina, sia di via Venti Settembre). Ora il quadro
politico è cambiato. Da Tangentopoli e dall'inizio di quella che viene chiamata
la Seconda Repubblica la nostra autorevolezza in Europa è diminuita, negli
ultimi anni ha subito un crollo verticale, aggravato negli ultimi mesi dalle
vicende bancarie (basta scorrere le corrispondenze sarcastiche da Roma sulla
stampa estera del pasticciaccio brutto di Banca Etruria).
Ciononostante,
se dalle prossime elezioni politiche uscirà un quadro stabile con un Governo
autorevole e un Parlamento coeso - ipotesi che i sondaggi non ritengono
probabile, ma il periodo natalizio fa pensare ai miracoli -, l'Italia nel 2018
potrebbe tornare ad avere un ruolo centrale invece di quello subalterno e
subordinato di buona parte dell'ultima legislatura quando barattavano
flessibilità per provvedimenti elettorali in cambio di una sana politica
immigratoria europea.
Come
potrebbe articolarsi questo ruolo? In primo luogo, dovrebbe formulare una
proposta per l'unione monetaria, diventata il cuore stesso dell'Ue. Il tema
immediato è il Fiscal compact. Pochi ricordano che, in base all'art. 16
dell'accordo intergovernativo alla sua base, il Compact scade, nelle
forme in cui è stato predisposto nel 2012, alla fine dell'anno. Secondo la
norma, "sulla base di una valutazione della sua attuazione", si dovrà
decidere se inserirlo nel "corpus" di base dei trattati europei o se
modificarlo.
La
Commissione europea ha proposto di inserirlo, tale e quale, nelle
"Direttive europee". Per numerosi Stati dell'Ue, questa sarebbe
l'ipotesi meno auspicabile, specialmente per l'Italia. Da un lato, al pari di
altre "Direttive", sarebbe fonte di continui contenziosi. Da un altro,
non risolverebbe il nodo di fondo: l'equilibrio strutturale di bilancio
aggraverebbe potenziali stagnazioni e recessioni (come si è visto negli ultimi
anni). Da un altro ancora, non risolverebbe due aspetti specialmente seri per
numerosi Stati dell'Unione.
Il primo
riguarda il trattamento dell'investimento pubblico (le spese per opere
pubbliche sono passate dal 3% del Pil negli anni Novanta a meno dell'1% negli
ultimi tempi e andamenti simili si hanno in altri Stati dell'Unione, anche
nella Repubblica Federale): se ai fini del computo del disavanzo, gli
investimenti pubblici non vengono scorporati, ci si condanna a infrastrutture
carenti con la conseguenza di stagnazione e bassa produttività. Il secondo è
l'obbligo per i Paesi con un debito sopra il 60% del Pil (il nostro supera il
130%) di ridurre l'eccedenza di un ventesimo ogni anno. Quando venne istituito
con il Trattato di Maastricht, il parametro del 60% non era altro che il valore
medio dei paesi aderenti all'Unione. Oggi, a fronte dei risultati di crescita
non certo brillanti di un quarto di secolo di politiche economiche europee, il
valore medio è aumentato fino al 90%. In queste condizioni, e a fronte delle
incidenze ancora maggiori che si riscontrano in Giappone e negli Stati Uniti,
sarebbe ragionevole proporsi obiettivi più realistici.
Su questi
due punti sarebbe possibile trovare una convergenza con altri Stati dell'Ue,
non accantonare il problema - come sembra potersi interpretare dalla proposta
della Commissione Ue -per ritirarlo fuori in caso si voglia bacchettare questo
o quel trasgressore, in quel momento inviso ai
"poteri-che-si-ritengono-forti" dell'Ue.
Unitamente a
una revisione del Compact si dovrebbe proporre un accordo europeo per
una riduzione del debito pubblico, con proposte esplicite per quanto attiene il
nostro fardello; tali proposte possono essere tratte (con i dovuti
aggiornamenti) da quelle formulate dal Cnel e dalla Fondazione Astrid al tempo
dell'ultimo Governo Berlusconi e del Governo Monti. Inoltre, si deve meglio articolare
il principio di sussidiarietà, devolvendo funzioni presesi dalle istituzioni a
Stati, Regioni e Comunità in un quadro di federalismo competitivo, e
consolidare le agenzie europee proliferate in questi anni. Ho già ricordato che
una ventina di anni fa, nel saggio "Europe simple Europe strong",
Frank Vibert della London School of Economics è giunto a conclusioni simili
tramite un percorso differente. Non è stato ascoltato. Con le conseguenze che
oggi si toccano con mano: un'Europa litigiosa e che poco conta nell'agone
mondiale.
L'osso duro
è la politica dell'immigrazione, dove sarà difficile trovare un equilibrio tra
interessi nazionali e solidarietà.
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